La carica dei 101 microromanzi quantistici

paterlini

Piergiorgio Paterlini, Fisica quantistica della vita quotidiana, Einaudi

I titoli sono una trappola: per il lettore, ma anche per l’editore. Un titolo come Fisica quantistica della vita quotidiana è pensato per attirare, ma può anche spaventare o indurre confusione: con quell’aria non certo da trattato accademico, ma da manuale divulgativo pur sempre ostico. Invece non è un saggio scientifico, e neanche filosofico: è molto di più, è narrativa. La citazione esplicita da Freud (Psicopatologia della vita quotidiana) cela un altro riferimento, al più grande bestseller degli ultimi anni: La solitudine dei numeri primi. Anche lì, infatti, il gioco era accostare due mondi opposti: sentimenti e matematica, fisica e quotidianità. Cosa c’è di più lontano dalla vita quotidiana della fisica quantistica, una disciplina che studia l’infinitamente piccolo, e la cui carica innovativa sta proprio nel postulare che le particelle elementari sono soggette a leggi che non valgono nella realtà di tutti i giorni? Eppure questo libro vuole dimostrare proprio il contrario, ma lo fa per vie traverse.

Meno male che ci viene in aiuto il sottotitolo: 101 microromanzi. Prescindendo un attimo dalla differenza tra microromanzo e microracconto (che ovviamente sarebbe modulata sulla differenza tra romanzo e racconto, e che secondo Jacopo Cirillo su Finzioni consiste nel fatto che il secondo si fonda sull’ellisse, sul non detto, mentre il primo crea un mondo) quel che ci troviamo davanti sono 101 oggetti narrativi, minuscoli e potenti. Storie folgoranti di una pagina, una pagina e mezza al massimo; ma spesso molto più corte: tre righe, un rigo solo, addirittura in un caso al titolo segue soltanto un emoticon. Le ambientazioni e i generi, per così dire, sono i più vari, sono quasi tutti: c’è la storia d’amore, il giallo, la fantascienza, il neorealismo, l’horror, il romanzo di formazione… A volte si tratta “solo” di storielle divertenti, battute; ma anche quando c’è dell’altro, rimane costante il gusto del surreale, della provocazione, del gioco letterario alla Queneau. E si capisce, se si tiene presente chi è Piergiorgio Paterlini: un fromboliere delle parole, giornalista (fondatore con Serra del mitico Cuore) e scrittore fiction e non-fiction (Matrimoni gay).

Ma il punto è un’altro. Le 101 storie celebrano l’apoteosi, elevano a paradigma la caratteristica principale del racconto breve, che è l’effetto sorpresa, la capacità di rovesciare tutto con la frase finale (di rovesciare tutto quello che si era dato per scontato, avete presente La sentinella di Fredrick Brown, e perciò è giusto parlare di ellisse come caratteristica del racconto, ma appunto ecco perché secondo me si tratta di racconti e non romanzi, con buone pace di altri e dello stesso autore). La bravura, e la capacità di non annoiare, di Paterlini sta nel modo sempre diverso in cui l’effetto è raggiunto. A volte cambia il punto di vista: un uomo picchia un ragazzo che si agita e tenta invano di divincolarsi, arriva la polizia, anzi no è un’ambulanza, il personaggio pericoloso viene infine bloccato, ma è il ragazzo, un povero epilettico. A volte cambia la natura del protagonista, che noi diamo per scontato sia un uomo: assistiamo all’esecuzione di un condannato, e invece è un rospo torturato da ragazzini; in un altro caso è addirittura Dio che crea l’universo. Insomma, alla faccia “di chi crede che la realtà sia quella che si vede”, come diceva il poeta. Ecco che cosa c’entra la fisica quantistica: se quella è la scienza dopo la quale l’ipotesi di universi paralleli non è più una fantasia di romanzieri allucinati, la scienza che ci insegna che l’osservatore modifica un fenomeno con il solo fatto di osservarlo (sì, è il noto principio di indeterminazione di Heisenberg, bellissimo nella sua semplicità) , questo libro ne è l’applicazione pratica in letteratura.

Paterlini ci crede: tanto è leggero e scanzonato nei racconti, quanto appassionato e convinto nei paratesti. Sul sito dell’Einaudi chiarisce che da un lato non esistono fatti ma solo interpretazioni, per dirla con Nietzsche

Ho scritto questo libro per invitare le persone a vedere i fatti con il criterio della complessità, per far capire che un gesto nasconde mille significati possibili e spesso opposti, e per questo abbiamo inventato la parola e la scrittura

ma dall’altro lato puntualizza: che questa storia non sia una scusa per togliere valore alle parole, tanto un’interpretazione vale l’altra, e quindi ognuno può dire quello che vuole, o al limite anche stare zitto

è vero che anche la parola può essere ingannevole, è ovvio, ma mica tutti sono politici. Mica tutti sono marinai. Basta pensare che parliamo solo per fotterci a vicenda. Qualcuno parla anche con sincerità. E ho scritto questo libro per urlare che il silenzio non è mai, dico mai, una risposta. Che con il silenzio – salvo rare, dichiarate eccezioni (ma se dichiarate entrano nella categoria del “dire” non del “non dire”) – non si va da nessuna parte. Di sicuro, il silenzio non è una risposta chiara, univoca. Uno può dire: «non voglio parlarti mai più». Ma deve dirlo. Almeno questo. Non cucirsi la bocca e basta.

Ed ecco che c’entra anche la filosofia. Fisica quantistica della vita quotidiana entra in punta di piedi, con la modestia del profano, ma con la potenzialità di una bomba nel dibattito che da un annetto a questa parte sta appassionando i filosofi, beati loro. La diatriba che oppone i reduci del postmodernismo e del pensiero debole ai ringalluzziti alfieri del new realism: quelli che “esistono solo le interpretazioni, non i fatti”, e quelli che “esiste la realtà, unica e dura”. Esistono i fatti, certo che sì. Ed esistono le interpretazioni. Che sono infinite. Proprio come sono infiniti i motivi per amare questo libro.

(Articolo uscito sul Mattino di oggi)


Un SalTo necessario

Il Salone è finito, viva il Salone! Nei giorni scorsi qualcuno, non ricordo chi, scusate, ha detto o ha scritto qualcosa tipo: quest’anno la fiera del libro di Torino sembra la sala da ballo del Titanic. Ora a me – e non solo a me – più che altro è sembrata la terza classe del transatlantico mentre il ghiaccio fa il suo dovere. Non mancava cioè la consapevolezza dell’affondamento imminente: tra i dati sulle vendite in calo, le statistiche sulla ggente che leggono sempre di meno mannaggialloro (no, i link no) e di contro l’organizzazione che declama un costante record di presenze (il che mi fa venire in mente un noto modo di dire napoletano).

Chiaro, tutti stanno qui a guardarsi attorno per capire in che direzione muoversi. Ma quelli che avrebbero i mezzi per mettersi in testa alla carovana – grandi editori, organizzatori di grandi eventi, strutture pubbliche come il Centro per il libro e la lettura – sembrano invece i più disorientati. Mentre spunti di riflessione vengono dai piccoli, dai singoli, dagli outsider. Così restano ancora valide, purtroppo, molte delle considerazioni fatte da Tropico del Libro prima del Salone – purtroppo perché vuol dire che passi in avanti non se ne sono visti. Così, pesano come iceberg le 10 domande poste da Annamaria Testa agli editori: semplici, documentate, esplosive.

iceberg

Una delle questioni messe in campo dalla Testa riguarda le biblioteche: che dovrebbero essere centri di vitalità (lei cita l’esempio delle biblioteca di una sperduta cittadina americana raccontata da Elasti) e invece sono luoghi di desolazione, devastati non solo dalla cronicamancanzadifondi ma anche dalla stupidità (a me viene in mente la lettera a un giornale di un tizio che qualche giorno fa raccontava di non essere riuscito a regalare alcuni volumi a una biblioteca, in quanto era un semplice privato). Proprio nelle ultime ore del Salone, tra l’altro, è incominciata a circolare la notizia, non fresca in verità, della probabile chiusura del Servizio Bibliotecario Nazionale, l’utilissimo motore di ricerca che ti scova un libro in tutta Italia. C’è anche una petizione da firmare, speriamo bene.

Altro punto dolente, la scarsa attenzione degli editori per il web. E questo, aggiungerei io, non solo dal lato attivo – progettazione di contenuti digitali e/o in vari modi interfacciati con la rete – ma anche dal lato passivo, cioè della ricettività e attenzione verso i luoghi e i discorsi su internet. Si ha un bel dire che gli editori si sono finalmente accorti dei blogger letterari. La mia esperienza di giornalista freelance mi sta portando a toccare con mano questa resistenza: quando mi presento ed elenco i posti in cui scrivo, vedo le facce di editori e addetti stampa illuminarsi appena cito le testate cartacee – che rispetto e ringrazio, ma non sono certo il New Yorker – mentre l’interesse si affloscia quando passo al lato online. Io sono tutt’altro che un tecno-entusiasta, e mi sono trovato più volte a difendere il giornalismo tradizionale, ma insomma, possibile che questi non si rendano conto che un pezzullo su un quotidiano di media tiratura non viene letto che da poche centinaia di persone (e il giorno dopo va a incartare il pesce, come si dice) mentre un post anche sul blog più fesso può potenzialmente raggiungerne migliaia, e soprattutto rimane lì, a portata di link e di motore di ricerca, in omnia saecula?

Per trovare una via d’uscita – per chi scrive, per chi pubblica, per chi legge – bisogna muoversi, mettersi in cammino. Ma camminare non basta, si deve provare a immaginare qualcosa di nuovo e diverso, bisogna fare un salto, altrimenti tra un po’ addio SalTo (#SalTo13 era l’hashtag del Salone su twitter). Bisogna pensare forme che siano contemporaneamente più e meno di un libro: non a caso erano queste le cose più interessanti girando tra gli stand. Seguono esempi.

La scrittura industriale collettiva. Qualche post fa ho intervistato Vanni Santoni e Gregorio Magini, coordinatori dei 115 autori di In territorio nemico. Poi al Salone ho avuto il piacere di presentare il libro davanti a una sala bella piena. Oggi eFFe su Doppiozero sottolinea una conseguenza fondamentale dell’operazione: la morte dell’Autore in favore dell’Opera, con tutto quel che comporterebbe in questi tempi malati di personaggismo.

Quelli di SIC stanno progettando poi, e la sostanza di romanzo storico ben si presta, un enhanced o enriched book: insomma un ebook aumentato, che ha – o meglio, può avere – link, video, musica, immagini eccetera, una sorta di percorso multimediale tridimensionale. È questa la nuova frontiera, a detta di molti. Arturo Robertazzi lo ha fatto, con il romanzo Zagreb, e adesso sta lavorando al passo successivo con il suo nuovo romanzo: dovrebbe esserci, se ho capito bene, da una parte il libro secco, e dall’altra una vera app per smartphone e tablet, con contenuti extra sia narrativi che informativi, sui luoghi reali dove si muovono i personaggi della fiction. Il passo ancora seguente potrebbe essere, forse, quello che abolisce questa sorta di doppio binario e costruisce una narrazione in cui le forme digitali arricchite non costituiscono contenuto speciale ma parte sostanziale della storia. Avanti, chi ha il coraggio?

Sul versante opposto, ci sono i non-libri-oggetto. Come il Quaderno dei sogni, una sorta di diario per appuntarsi le visioni oniriche: oggetto di grande raffinatezza grafica, con qualche risvolto mistico-newage e qualche trucco nascosto da caccia al tesoro. Progetto portato avanti con entusiasmo più contagioso che naif da Emanuele Enrico. (Markettal advisor: in questa cosa è coinvolta anche Gioia Gottini, life-astro-dream coach e persona a me, come dire, molto vicina. Se ne parlo non è per sponsorizzarla, di certo se non fosse stato per lei non l’avrei mai scoperto).

E rimanendo in famiglia, è stato grazie alla quattrenne di casa che ho avuto la scusa per partecipare a un fantastico laboratorio sui Mostri Selvaggi di Maurice Sendak. Non c’è niente da fare, l’editoria per bambini è troppo avanti: tra pop up, disegni, libri-giocattolo e tutto quello che si può immaginare… Babalibri, Topipittori, Coccole e Caccole (!) sono solo alcuni dei tanti.

A proposito di gioco, a metà tra il gioco e l’oggetto di design si muove Tic edizioni. Scripta magnet è una collana di piccole calamite (frigo non incluso, puntualizzano) su ognuna delle quali c’è una parola. Tra le confezioni – tutte diverse ed esteticamente curatissime – alcune sono di utilità pratica, come quelle con le cosa da comprare o fare, altre sono delle piccole sfide letterarie, ecco tutte le parole dell’Infinito, te lo ricordi? C’è anche qualche libro, ma pure le magliette, e le mensole invisibili a forma di libro, e il catalogo è un pieghevole facsimile di scheda elettorale…

Libri non-libri, e con lo sguardo doppiamente rivolto all’indietro, sono quelli di Clichy (editore nato da poco, ma dalla ceneri di Barbès). Hanno preso dei classicissimi fuori diritti (Cuore di tenebra, Lo strano caso del dr. Jekill e di mr. Hyde, La leggenda del santo bevitore…) e li hanno stampati su carta da giornale, e in formato da quotidiano, prezzo 1 euro. Un’idea – poi loro fanno anche libri normali, e belli – con talmente tante implicazioni e significati che li lascio immaginare a voi.

Sempre dalle parti dell’editoria come una volta, Codice edizioni ha da poco inaugurato una nuova grafica di copertina, dove dietro l’apparenza minimale si nasconde un preciso significato di natura matematica (ovviamente). Ma, eccezione al filone scientifico, è da poco uscito un libro che è un unicum sia per contenuto che per forma: Il circo elettrico delle sirene, storia, mito e storia del mito, iconografia a colori e impaginazione a metà tra l’enciclopedia e la poesia.

Tornando, e chiudendo, sull’editoria digitale: un editore nato con gli ebook e per gli ebook è Quinta di copertina: loro cercano d’inventarsene sempre una nuova, consci del fatto che il libro digitale non è un libro di carta letto sul video. L’abbonamento allo scrittore, per esempio, con il quale si prenotano una serie di uscite scandite nel tempo. E a proposito, chiaramente la difficoltà di un editore digitale in un luogo d’incontro fisico come una fiera è: che ci metto nello stand? Quinta ha brillantemente risolto con le collane: in senso proprio, delle collanine con, al posto del ciondolo, una scheda su cui sono caricati gli ebook. Antico e moderno. Concreto e immateriale. Meno di un libro e più di un libro.


Questa non è una marchetta

Oggi inizia il Salone del Libro. Lì, come qui, si parla di libri. E si parla di blog che parlano di libri. E si parla di libri che parlano di blog che parlano di libri. Eccone uno, ottimo.

2copertinaeffeNONSOVRASCRIVEREILFILE_th Interessante per molti versi. Innanzitutto per il suo autore, e non solo perché costui si presenta come una lettera dell’alfabeto: eFFe è uno che sta in mezzo a tutte le novità più rilevanti che sono state prodotte negli ultimi anni all’incrocio tra editoria, giornalismo culturale, socialqualcosa e web. Per dire solo le prime che mi vengono in mente: la rivista nativa digitale Finzioni, la riflessione collettiva Costruire storie, il romanzo a 230 mani di SIC.

Interessante poi per la forma, o il format: trattasi di un vero ebook. Nell’ovvio senso che è uscito soltanto in digitale, e non è quindi una versione diminuita, o per allergici alla carta, di un qualcos’altro. Ma anche perché ha tutte le caratteristiche dell’ebook di non-fiction, come io me l’immagino oggi:

  • 50 pagine, troppe per finire in un post anche molto lungo, poche per essere stampate in un libro, giuste per essere lette anche su un tablet retroilluminato prima che ti venga il mal di capo.
  • Pieno di link, ma non così tanti da rendere la lettura fastidiosa, o il discorso incomprensibile se non ci clicchi.
  • Aggiornato con le cose successe, o scritte, fino al giorno prima di chiuderlo.
  • Con un bel making of alla fine, che stimola ulteriori riflessioni.
  • Autoprodotto, sia perché strutturato, editato, rivisto e corretto tutto da sé (con l’aiuto di due amici solo per la copertina e la conversione nei formati ebook);
  • sia perché autopubblicato e acquistabile su Amazon o direttamente sul suo blog.
  • Infine, di prezzo onestissimo ($ 1.49: sì, un dollaro e mezzo) e con ricavato devoluto interamente in beneficenza (all’Associazione Toscana Tumori).

Interessante, chiaro, per quello che dice. Documentato come uno che si muove nell’ambiente dei blog letterari da quando esiste, tagliente per amore non di polemica ma di precisione (il “blogger scroccone”, così si intitola il primo capito che parte da uno spassoso aneddoto personale, viene ribaltato qualche pagina dopo nel più realistico “editore scroccone”).

La rapida panoramica iniziale dei book blog principali serve a eFFe per fare due importanti puntualizzazioni, sulla disomogeneità della categoria. Disomogeneità di contenuti: diciamo infatti per comodità book blog o blog letterari, quando molti di questi si occupano volentieri anche di cinema, arte o musica; allora sarebbe più giusto parlare di blog culturali, ma neanche, perché ad esempio siti come Minima&Moralia o lo storico Carmilla presentano in maniera non marginale post di taglio politico e militante, che con la cultura c’entrano solo nella misura in cui tutto è cultura. Ma la disomogeneità è anche e soprattutto di soggetti, ambiti e strutture: i lettori tendono a dimenticarsene perché magari su internet la cornice balza meno agli occhi, mentre editori e giornalisti ci marciano per reinventarsi una freschezza e una giovinezza, però c’è una bella differenza tra il singolo blogger, il blog collettivo, la rivista online con firme potenti, il blog della star ospitato sulla piattaforma della testata mainstream… eFFe fa giustizia di tutto ciò.

Il motivo principale per cui trovo notevole questo breve saggio è però un altro: arriva a delle conclusioni. Cioè, non fa come quei pamphlet agguerriti alla Zizek che prima ti caricano a molla con tutte le ingiustizie del mondo, e poi quando sei pronto a scattare, niente, ti fanno ciao ciao e finiscono. I book blog individua dei problemi, e chiude con delle proposte. Il problema fondamentale è quello della scarsa trasparenza, delle commistioni tra editori e blogger, di ciò che può intorbidare l’indipendenza di giudizio o almeno la sua percezione, insomma delle marchette.

Ora, eFFe insiste molto sull’invio gratuito dei libri ai blogger, che così si sentirebbero in dovere di parlarne, e bene. Non vorrei sembrare ingenuo, ma a me questo sembra un problema minore: gli uffici stampa hanno sempre inviato copie staffetta alle redazioni dei giornali o a casa dei critici, è chiaro che sperano nel pezzo, è un modo un po’ più audace che mandare la semplice scheda via mail, attira di più l’attenzione; non vedo la differenza se iniziano a farlo anche con i blogger, l’unico rischio è trovarsi la casa invasa di schifezze (ma è un rischio teorico, perché ora gli editori ti mandano il pdf, e ringrazia). Perché appunto: se il libro è bello, ne parlo bene; se è così così, o proprio brutto, dopo aver perso tempo e fatica a leggerlo, non vedo perché dovrei sentirmi in dovere di elogiarlo, al massimo me ne dimentico, o se mi girano addirittura scrivo una stroncatura. Quello che voglio dire è che un libro non è (per fortuna o purtroppo, fate voi) un benefit assoluto, come ad esempio uno smartphone o un fiasco d’olio evo spremuto a freddo: in quei casi l’omaggio vincola, instaurando il classico rapporto di economia del dono. E non è un caso che i gadget tecnologici e il food siano due settori in cui le aziende investono veramente tanto (anche perché hanno mezzi, a differenza degli editori…) in rapporti con i blogger, e in cui il fenomeno della corruzione dei blog sta arrivando a livelli esplosivi.

Certo è diversa l’ipotesi, che eFFe racconta, degli inviti a incontri “privati” con l’autore, in qualche modo circondati da un’allure di esclusività. Ma appunto, secondo me il nodo è questo: la circonvenzione di blog non avviene con il regalo di volumi, ma con quella cosa ancor più impalpabile e ricercata che va sotto il nome di prestigio, visibilità, riconoscimento. L’account twitter del grande editore che non solo ritwitta la recensione (quello lo fanno tutti con tutti, ovvio) ma ogni due per tre fa sapere alle sue migliaia di follower quant’è bravo sto blogger, e com’è intelligente e simpatico e carino, e il blogger che se ne va in sollucchero: ecco la trappola.

Le proposte, allora. Per un bloggare etico e responsabile. Trasparenza, equità, rispetto del lettore, condivisione delle fonti, apertura verso il nuovo. Giustissimo, da firmare e controfirmare. Sperando che davvero più blogger possibile leggano, condividano, adottino. Passaggio fondamentale perché acquistino una coscienza di sé, dei propri limiti e della propria importanza. Però. Mi viene in mente quella pubblicità della Apple, quando Microsoft approdò al sistema a icone: “…benvenuti!”.

Trovandomi a metà del guado, un po’ giornalista un po’ blogger (o forse nessuno dei due) sono capitato spesso nella curiosa posizione di dover difendere con gli uni le ragioni degli altri, e viceversa. In questo caso i blogger culturali, parlo generalizzando, hanno tutti motivi per lanciarsi contro l’establishment muffito delle terze pagine, e raderlo al suolo. Salvo poi ricostruire, su quelle macerie, gli stessi palazzi, o almeno con le stesse tecniche. Fuor di metafora: cosa sono i 5 punti di eFFe se non le regole basilari del giornalismo? Non fare marchette (un vecchio insegnante della mio master diceva con più raffinatezza “l’ignobile pompino”); cerca le storie che si nascondono e non solo quelle grosse che ti saltano addosso; scrivi per il lettore e non per l’editore o l’inserzionista; verifica le fonti e citale. Almeno, questo è quanto mi hanno ripetuto allo sfinimento alla scuola di giornalismo, questo è quanto avevano ben chiaro i colleghi delle redazioni che ho frequentato: che poi razzolassero male è altro discorso, anzi andrebbe sanzionato più severamente (se è vero che l’ignorantia legis non excusat, la conoscenza della regola che s’infrange è un’aggravante).

Perciò sarebbe ora di dismettere le armi e le reciproche diffidenze, e lavorare per costruire una piattaforma comune: a tal fine il libro, e le proposte, e in ultimo il sondaggio di eFFe, sono ottimi impulsi. Per non dimenticare che la vera battaglia è quella per conquistare i lettori.


Karen Russell e il vampiro di Surriento

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Karen Russell, Un vampiro tra i limoni, Elliot edizioni, trad. Veronica Lapeccerella, p. 250, euro 18.50

Ah, i limoni! Le trombe d’oro della solarità, diceva il poeta. Solo che Montale pensava agli agrumi della riviera: ligure. Qui invece siamo in costiera: sorrentina. E scopriamo che i nostri limoni hanno una proprietà poco nota e ancor più, come dire, incisiva: se addentati da un vampiro in crisi d’astinenza riescono, per un po’, a placarne la sete di altri e più umani fluidi. O almeno, questo è quello che capita al protagonista di Un vampiro tra i limoni, storia che apre l’eponima raccolta di Karen Russell. Una scrittrice formidabile: poco più che trentenne e già pubblicata dalle più prestigiose riviste Usa, adorata tanto dai critici schizzinosi della New York review of books che da un autore popolare come Stephen King, inserita in tutte le classifiche dei migliori giovani autori americani, e l’anno scorso quasi-vincitrice del Pulitzer (era fra i tre finalisti e il premio non fu assegnato).

I libri che aveva scritto finora – la raccolta Il collegio di Santa Lucia per giovinette allevate dai lupi e il romanzo Swamplandia! – erano sempre ambientati in Florida: una Florida tropicale e magica dove le piante possono avanzare minacciose come animali e una suora può chiamarsi John, certo, un posto più simile alla contea di Yoknapatawpha inventata da Faulkner o alla Macondo di Marquez; però insomma, trasfigurato finché si vuole, ma pur sempre il suolo natìo. Ecco, allora, qual è la notizia: appena decide di mettere piede fuori dal cortile di casa, Karen Russell si ritrova a Sorrento. Curioso, no? Anche perché lei non appartiene alla folta schiera degli oriundi. Ma evidentemente il suo fiuto di scrittrice ha sentito l’irresistibile attrazione per un luogo che, proprio come la sua Florida, dietro un’apparenza solare può nascondere un fondo inquietante.

È una Sorrento a tinte fosche, quella che vediamo attraverso i suoi occhi: certo ci sono i cliché, i cartelli che invitano a comprare “od dogs” e “trinks”, ma a coprirsi davvero di ridicolo sono i turisti, alla ricerca della foto anche mentre un pipistrello gli s’impiglia nell’abominevole tuppo. Ci sono le caverne di tufo a picco sul mare, dalle quali al tramonto schizzano fuori migliaia di piccoli mammiferi alati, roteando impazziti; e il mare, a proposito, non è lo stereotipo balneare ma una massa indistinta, vista solo da lontano, e pronta a inghiottire i pipistrelli che scendono in picchiata. E infine, ovviamente, ci sono i limoni. Che il vampiro Clyde ormai conosce come un raffinato intenditore, in tutte le loro varietà: primo fiore, bianchetti, verdelli. È uno strano vampiro, che grazie a sua moglie ha superato molti pregiudizi, tipo che è obbligato a dormire in una tomba o che alla luce del sole si squaglierebbe. No, non è vero, ma la sete di sangue ahimé quella c’è tutta, e allora la coppia di vampiri trascorre l’eternità (sono immortali, sapete?) “a caccia di chimere liquide: tè alla menta a Fez, latte di cocco a Oahu, caffè nero come il carbone a Bogotà, latte di sciacallo a Dakar, Coca-Cola alla ciliegia con palline di gelato nell’Alabama rurale”. Fanno tenerezza, questi due succhiasangue riluttanti, che ricordano un po’ gli squali vegetariani di Nemo. Solo qui trovano requie: azzannando avidamente gli asperrimi agrumi sorrentini. Sicché si lasciano un po’ andare: lui si abbronza persino, tanto da non essere distinguibile da un vecchiariello autoctono, e perde quasi la facoltà di librarsi in volo. Ma una crisi di coppia è in agguato, e le forze oscure sono pronte a risvegliarsi…

Karen Russell segue la traccia dei grandi maestri del racconto fantastico – Borges, Cortàzar, Buzzati, e un altro americano contemporaneo, lo scoppiettante inventore di assurdità che risponde al nome di George Saunders – ma riesce a essere innovativa. In questo e negli altri racconti che completano la raccolta – e che dopo una sosta in un Giappone improbabile sono tutti ambientati qua e là negli Stati Uniti – riesce a creare situazioni surreali e contemporaneamente a fare feroce critica sociale, a tirare fuori personaggi assurdi in cui però ci immedesimiamo senza problemi. Il passaggio in costiera ti ha fatto bene, Karen. Torna presto, torna a Surriento.

(Versione integrale dell’articolo uscito oggi sul Mattino di Napoli)


Playlist lento/veloce

  1. Jethro Tull Aqualung
  2. Miles Davis Quintet Round Midnight
  3. Guns N’ Roses Civil War
  4. Pino Daniele Suonno D’Ajere
  5. Genesis The Cinema Show
  6. Carlos Santana Samba Pa Ti
  7. Nuova compagnia di canto popolare Mastro Ruggiero
  8. Pat Metheny The Longest Summer
  9. Led Zeppelin Babe I’m Gonna Leave You
  10. Banco del mutuo soccorso Non mi rompete
  11. Dire Straits Telegraph Road

Niente è noioso come l’uniformità: niente è più stancante di uno stimolo che vuole essere energizzante e si ripete sempre uguale, niente appare più immobile di una cosa che si muove velocissima ma a ritmo costante; e così, paradossalmente, niente è più soporifero di una canzone urlata a mille all’ora, che alla lunga diventa una cantilena in sottofondo, e neanche ci accorgiamo più che c’è. Chi ha fatto compilation – perché prima delle playlist ci furono le compilation, come prima degli mp3 ci furono le cassette – lo conosce bene, l’arzigogolo dell’alternanza: si trattava non solo di mettere su belle canzoni, non solo di fare sì che l’insieme fosse gradevole, ma soprattutto di fare in modo che gli accostamenti, i passaggi da un pezzo all’altro avessero quel quid che esalta i brani, non che li ammoscia. Quel quid spesso è il contrasto, e tra i vari tipi di contrasto (rock/jazz, cantato/strumentale, italiano/inglese) quello che funziona meglio è lento/veloce. È un’altra questione poi che per l’allenamento, per le gambe, il funzionamento rispetto alla musica, all’orecchio, sia tutto un altro, anzi precisamente lo stesso.

Per rendere la co(r)sa più appassionante abbiamo cercato però dei brani che contenessero in sé questa alternanza, questi repentini cambi di ritmo, tempo, respiro, umore. Per forza di cose allora ci ritroviamo in ambito rock, e all’interno di questo in quel particolare sotto-genere che prevaleva negli anni ’70, il progressive, che proprio nell’instabilità, nel rapido mutamento, nella sorpresa, ebbe uno dei suoi punti di forza. Perciò via libera con Jethro Tull, Genesis, Banco del mutuo soccorso, e in senso lato anche Led Zeppelin e Santana; ma non mancano le sorprese, con interpreti più pop o moderni (Dire Straits, Guns’n’Roses) o addirittura folk (il primo Pino Daniele, la Nccp) e jazz (Miles, Metheny). Volendo scendere nel dettaglio poi, i pezzi con cambi di tempo possono essere di due tipi: uno tradizionale, che prevede un inizio lento seguito da una classica accelerazione e un finale concitato; un altro più moderno e intrigante dove le parti soft e gli uptempo si mescolano e si intrecciano. Facile in generale che siano pezzi lunghi, ma questo è ovvio perché sono canzoni che in sé contengono una intera playlist. Molto probabile infine che siano dei capolavori, a volte dei veri e propri pezzi-bandiera, che da soli identificano un musicista (Aqualung, Round midnight, Samba pa ti). Anche se, pure in questo caso, abbiamo inserito accanto agli hit immortali qualche perla oscura, qualche piccola sorpresa. Proprio perché la tensione non cali mai.

(Testo che accompagna la playlist sul numero di aprile del mensile sportivo Correre)


Caravan (senza titolo)

Ci sono cose che all’improvviso capisci che sei vecchio. E non è tanto il fatto che ti fanno vomitare gli idols e l’emo di mo’, quello è sempre stato così fin dagli anni ottanta, si vabbè all’epoca si chiamavano divi e si chiamava dancepop, ma era la stessa munnezza, non ci raccontiamo palle nostalgiche. Neanche è tanto quando torni a casa dei tuoi, e ti rendi conto che è tutto uguale a come l’hai lasciato, gli stessi accordi sbagliati appuntati su un foglietto, gli stessi ultimi cd mai messi a posto, un reliquiario praticamente, a figlio vivo, ma solo una cosa non c’è più, la sensazione è evaporata e non riesci a richiamarla, altro che maddalena, una sola cosa non c’è, quindi tutto. E manco è, pure se una bella botta gliela dà anche quello, che a pasqua&pasquetta per due giorni consecutivi ti è capitata una cosa che non era mai successa in quarant’anni di onorato metabolismo, se non per cause di forza maggiore, leggi impossibilità economico-pratiche o influenza gastrointestinale: saltare la cena, senza neanche poi svegliarti di notte con la fame. Capisci che sei vecchio quando tutto contento ti metti a sentire l’ultimo disco dell’Orchestra di Piazza Vittorio e buttando l’occhio leggi che è stato realizzato per il decennale del progetto. Bum! Dieci anni, di già.

opv_copAll’epoca, l’idea dell’Avion travel Mario Tronco fu veramente coraggiosa e innovativa, nel momento in cui il secondo folk revival – quello degli anni ’90, che aveva trovato benzina dall’alto in Peter Gabriel e dal basso nel movimento noglobal – stava vivendo una fase di stracca. Fu la dimostrazione che un’altra world è possibile: non quella neocoloniale – l’uomo biango che si va a prendere i suoni esotici nella savana – ma quella immigrante, che fa di necessità orchestra e si trova un mondo già ricostruito sotto casa, a piazza Vittorio appunto. Riscattando così da una parte il musicista di strada dalla condanna, novello Sisifo, dell’eterna Besame mucho, e dall’altra non dimenticando che l’unico terreno comune di dialogo tra il flautista andino, il timbalero cubano, il liutista arabo e il korista senegalese, non poteva che essere il substrato già globalizzato del pop-rock-chiamatelocomevolete occidentale. Dieci anni. Inevitabile allora che si faccia un bilancio, al suon della domanda: com’è cambiata, cos’è cambiato nell’Opv da allora a oggi? Ovvio, molti musici entrano ed escono, ma l’identità del collettivo, come si sarebbe detto una volta, rimane: è questo il bello del gruppo, nevvero. Altrettanto ovvio, il sound è più maturo, più compatto: forse si è persa un po’ della surreale allegria degli esordi (come dimenticare il testo di Tarareando…), un po’ di quella scombinata improvvisazione da festa autogestita ioportolebirre-tuportilepizzette-leiportailgelato (che forse era solo una fantasia dell’ascoltatore). In compenso si producono vere delizie di amalgama, come l’afro-brasiliana Tughel, o le altrettanto multilingui Chicken in the kitchen e Limoncello, scanzonate filastrocche firmate dalla new entry Sylvie Lewis, prima voce femminile nella storia dell’orchestra, tant’è. Per il resto, tema ricorrente è quella sorta di autobiografismo corale che è la cifra di chi, volente o nolente, con storie diverse arriva qui a condividere la stessa realtà: tema declinato in chiave ora umoristica (Simon il gladiatore) ora drammatica (Preludio). Musicalmente, al solito un po’ d’Africa in giardino, un po’ di rumba in pista, un po’ di te lo do io il Brasile, una cover della mitica Si Dìos fuera negro, e l’oud e la voce di Ziad Trabelsi che sono i miei preferiti, ma si sa, che il medioriente qui da me ha molta fortuna. Certo, appunto, la novità è che non è più una novità, non ti puoi aspettare lo stesso impatto dirompente di dieci anni fa, con il susseguente trend involontariamente lanciato, e il fiorire delle orchestre multietniche in ogni città e quartiere, che ci vorrebbe un censimento, anzi c’è stato…

(Era la prima parte della mia rubrica Caravan, sul numero di maggio di Blow Up. Continua in edicola)

TAPPE PRINCIPALIbailam_cop coen_cop

Orchestra di Piazza Vittorio, L’isola di legno, Parco della Musica records

Orchestra Bailam e Compagnia di Canto Trallalero, Galata, Felmay

Gabriele Coen, Yiddish melodies in jazz, Tzadik