La sindrome da ristorante cinese, il razzismo gastronomico e la guerra del glutammato
Pubblicato: 30 gennaio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Esquire, food, glutammato, sindrome da ristorante cinese Lascia un commentoIn questi giorni il razzismo becero e ignorante si innesta sul panico incontrollato da coronavirus: e quindi assistiamo allibiti ad aggressioni nei confronti di persone cinesi o originarie della Cina. Ma sono anni, anzi decenni che la leggenda metropolitana porta avanti una espressione razzista e discriminatoria nei confronti dell’estremo oriente: la “sindrome da ristorante cinese”. La cosa è diffusa soprattutto in America, e infatti è lì che in questi giorni si sta svolgendo l’ultima battaglia di quella che potremmo chiamare la guerra del glutammato: con un’azienda produttrice che ha ingaggiato una serie di celebrity asian-american per far estromettere l’espressione da un dizionario, e in generale riabilitare il nome dell’MSG, o glutammato monosodico. Storia indicativa perché, come nel caso del virus, si sommano pregiudizi razziali e assenza di fondamenta scientifiche. Vediamo.
Che cos’è la sindrome da ristorante cinese
Negli anni sessanta in Usa venne riportato, tramite lettera a un giornale, un caso di malore dopo una cena consumata in un ristorante cinese. Più tardi si scoprì che si trattava di uno scherzo – o di una diffamazione? – ma questo non servì a fermare le voci che iniziavano a sommarsi: sempre più persone sostenevano di accusare malesseri dopo aver mangiato riso alla cantonese o gamberi fritti nei locali gestiti da immigrati cinesi.
L’espressione “sindrome da ristorante cinese” entrò presto nell’uso comune, e come spesso accade dopo qualche anno venne registrata nei dizionari. I sintomi: mal di tesa, arrossamento cutaneo, sudorazione eccessiva, intorpidimento o bruciore alla bocca e alla gola, nausea, affaticamento. Nulla di più generico, come si vede, ma il tutto venne ricondotto ai locali cinesi, e in particolare a un elemento di cui si diceva i cuochi orientali abusassero: il glutammato monosodico.
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Il trend dei cibi blu
Pubblicato: 27 gennaio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: cibi blu, dai giornali, Esquire, food Lascia un commentoQuando ero piccolo mio padre preparava delle magnifiche insalate russe. Faceva dei vassoi enormi – per le tavolate delle cene di Natale o dei grandi pranzi che organizzava – e finemente decorati con dei motivi geometrici e astratti: cavoletti, carotine, barbabietole, pisellini e altri vegetali ridotti in crema o in minuscoli cubetti, componevano caleidoscopici topping. (Se la cosa vi sembra molto anni 80 è perché, beh, erano gli anni 80.) Una volta si era messo in testa di realizzare un arcobaleno: era ricorso quindi a tutto il ventaglio di colori che la natura mette a disposizione; ma si era impantanato sul blu. Non ricordo poi con che trucco l’avesse risolta, ma sta di fatto che l’anno dopo era tornato alla geometria pura. Non ci sono cibi blu in natura, mi ricordo che ripeteva papà, sorridendo per mascherare la delusione. Dovrebbe esserci oggi, che la mania del blue food impazza, dai ristoranti stellati a Instagram, dalla mixology al pane fatto in casa.
Il 2020 è iniziato il 4 dicembre 2019, quando Pantone ha annunciato il colore dell’anno: Classic Blue – la sfumatura del cielo quando scende la sera, “il colore che anticipa ciò che sta per arrivare”, come ha detto Laurie Pressman, vicepresidente dell’istituto americano. Un moto di disappunto è serpeggiato tra gli addetti ai lavori e gli esteti che ogni anno attendono l’annunciazione: quelle banalité. Eppure c’è un settore in cui davvero il blu potrebbe essere the next thing, ed è, l’avete indovinato, quello ormai decadente e drogato di adrenalina del food. Il trend è stato sancito qualche giorno fa dal New York Times – la cui sezione gastronomica è una delle fonti più attendibili in materia – che ha specificato come la blue fever sia in corso da qualche tempo, sì, ma quest’anno dovrebbe proprio esplodere. (Le altre tendenze food 2020 secondo il Nyt? Il Giappone, la sostenibilità, l’intelligenza artificiale e infine, ehm, i toast.)
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10 Adelphi bellissimi e insoliti
Pubblicato: 18 gennaio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Adelphi, dai giornali, Esquire, libri Lascia un commentoC’è bisogno di presentazioni? Adelphi costituisce un unicum nel panorama editoriale italiano, forse mondiale. Certo, ci sono altre case editrici che pubblicano libri di qualità e con vendite anche superiori, come ci sono editori di nicchia oggetto di adorazioni sotterranee ai limiti dell’esoterismo (penso a SE/Abscondita, nomen omen). Ma Adelphi è un culto, che appartiene a tanti, ostinati come pochi. Sull’unicità di questo editore è stato già detto molto, e molto bene. C’è addirittura chi, folle, ha trasformato i dati del catalogo in statistiche e bellissimi grafici. Qui si può solo ripetere che il segreto di Adelphi è probabilmente nella sua vocazione a pubblicare libri unici – come disse il leggendario fondatore, Bobi Bazlen, all’attuale dominus Roberto Calasso, e come il Calassone stesso racconta ne L’impronta dell’editore – cioè libri che sono ognuno una storia a sé, un mondo a sé.
Paradossalmente è proprio questa unicità, in un catalogo quanto mai vario e ormai dopo cinquanta e più anni di storia anche bello nutrito, a stabilire la cifra: i libri Adelphi – da quello più mistico a quello di fisica teorica, da quello più reazionario a quello più anarchico – disegnano un paesaggio mentale unitario; non definisconoun’appartenenza, ma la suggeriscono. La casa editrice ha, com’è d’uopo, anche avuto i suoi detrattori: da Giulio Einaudi, che la criticava da sinistra per un certo abboccamento con il lato oscuro, e scriveva “Adelphy” per sfottere; al complottismo delirante di Maurizio Blondet (lui sì, reazionario estremo) con Gli “Adelphi” della dissoluzione. Ma più sono gli ammiratori, e trasversali soprattutto: anzi transgenerazionali, come si sarebbe detto una volta. Tanto che sui social girano post e pagine in stile memetico e con una semantica prettamente Gen Z, ma dedicate al nostro mito.
Sicché quando, come ogni anno, arriva il momento degli sconti (25%, mica bruscolini, su un catalogo che mantiene prezzi medio alti) si scatena la follia generale. C’è chi fa i salti di gioia, e chi si dispera perché ora non saprà resistere e darà fondo a tutti i suoi risparmi. E c’è chi è paralizzato dalla vastità della scelta: io stesso ogni anno mi metto un budget, e poi passo le giornate a limare, a mettere e togliere titoli dal carrello virtuale, fin quasi allo scadere del termine (e puntualmente, alla fine, compro più di quanto potevo spendere, e soprattutto più di quanto potrò leggere). La seguente lista quindi vuole essere una piccola guida negli angoli più riposti del catalogo, o alla scoperta delle opere minori di autori maggiori, ma senza snobismi. Proprio perché cercherò di stare nel mezzo, correrò il rischio di deludere tutti, risultando troppo banale per i sacerdoti del culto, e troppo hard per i novizi. Io stesso non sono d’accordo con questa lista, perché lascio fuori l’amore della mia vita Borges (quale scegliere?), e alcuni autori bandiera, che siano storici come Milan Kundera o Bernhard, che siano classiconi come Faulkner o Nabokov, o di successiva acquisizione come Sciascia o Bolaño. E dando per scontato che Austerlitz di Sebald, il più bel libro del secolo finora, ce l’abbiamo tutti. Coraggio.
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Chi dorme e chi no: rom e napoletani a Scampia
Pubblicato: 14 gennaio 2020 Archiviato in: Uncategorized Lascia un commentoDiceva Borges che le dittature sono una benedizione per le arti, perché costringono gli scrittori a trovare vie indirette per raccontare le cose, e quindi stimolano la creatività, in ultima analisi contribuendo a produrre opere migliori.
Mutatis mutandis, si potrebbe dire che le realtà più disagiate, a livello sociale economico e politico, sono infernali per chi le vive ma rappresentano un terreno di coltura ideale per le iniziative più fantasiose, improbabili e perciò necessarie. E non si tratta tanto della meridionale arte di arrangiarsi, valevole più come scusa per amministrazioni ignave, quanto di una spinta che va oltre la sopravvivenza ed è capace di creare non solo utilità ma anche – ebbene sì – bellezza.
Me ne sono reso conto, da napoletano ormai fuori Napoli da decenni, quando ho iniziato a cercare, a chiedere, a informarmi su progetti di attivazione sociale e culturale che partono dal basso, in maniera informale e in contesti problematici.
Pensavo di trovare stagnazione, disillusione, quella rassegnazione non priva di ironia che ci caratterizza a volte, e che rappresenta una salvezza e una condanna. Depressione che sarebbe pienamente giustificabile, per carità, in una metropoli europea che dall’altro lato è una favela sudamericana, dove le due dimensioni non sono fisicamente separate come nei peggiori casi di segregazione, ma sovrapposte, intersezionate; come le due città del romanzo di China Miéville, che sono nello stesso luogo e profondamente diverse, separate da barriere invisibili e invalicabili.
Mi aspettavo quello, e invece: ho trovato un fermento, una marea di iniziative e idee, strutturate o meno, spontanee o ben appoggiate, borghesi o popolari, in centro o in periferia. Soprattutto in periferia, soprattutto nella periferia più aliena e disintegrata: Scampia.
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Nuova era chiara
Pubblicato: 13 gennaio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, l'indiscreto, libri, medioevo Lascia un commentoNel novembre del 2017, mentre era appena scoppiato il caso Weinstein e i movimenti #quellavoltache e #metoo scoperchiavano un calderone di sopraffazioni e orrori, un lungo post su Medium ci faceva fare un giro in una galleria di orrori virtuale ma non per questo meno sconvolgente: YouTube. Il suo autore, l’artista e scrittore James Bridle, si sentiva addirittura in obbligo di anteporre il disclaimer sui contenuti sensibili, e specificava di non aver postato il pezzo sul suo blog per tenere in qualche modo la materia lontana da sé. La materia in questione erano i video più inquietanti di sempre diretti a un target di bambini piccoli: video montati e indicizzati da macchine (o peggio, da persone che pensano come macchine) in cui venivano mostrati pupazzi e personaggi dei cartoni animati compiere azioni che andavano dal demente al terrificante. Da Hulk che apre delle porte dietro le quali ci sono vari colori e urla disperato finché non trova il verde, all’Uomo Ragno che viene sepolto vivo insieme a Elsa di Frozen e Peppa Pig. A rendere ancora più weird il tutto, il contrasto tra la natura giocosa dei personaggi, la musica allegra e la ritmica in loop, alcuni effetti sonori come applausi e risate finti ripetuti ossessivamente, l’estetica ipersemplificata e rozza del montaggio, la crudeltà o l’insensatezza di certe scene. Per carità, nulla che un genitore di un bambino tra gli 1 e i 3 anni, quorum ego, non avesse notato con apprensione, provando a strappare di mano il cellulare ai figli riluttanti, o almeno a cambiare video: ma detto bene e sistematizzato. Soprattutto incrociato con la considerazione che da un lato i piccoli dagli anni ’10 vengono lasciati soli con il babysitter YouTube – e sono in grado di usarlo, grazie al touchscreen e all’abilità di navigare nelle preview – dall’altro questi video, prodotti massivamente, erano in grado di scalare le posizioni grazie appunto a quantità e indicizzazione: anche partendo dal cartone più innocente sul canale più ufficiale, nel giro di uno, massimo due correlati si finiva nella fogna. La cosa più inquietante di tutte era che non si capiva quale fosse lo scopo di questi contenuti-mostro: semplicemente provare a scalare i meccanismi algoritmici di una piattaforma globale, o allevare una generazione assuefatta alla violenza? Il bubbone esplose, di Peppa Pig killer ne parlarono ovunque, noi genitori tech ci sentimmo a un tempo additati come irresponsabili e capiti nelle nostre paranoie.
Da allora le cose sono andate molto meglio per tutti. Per i bambini, dato che YouTube introdusse controlli più severi e filtri che, detta due anni dopo, sembrano reggere. E per James Bridle, che da artista che si occupa e preoccupa di tecnologia, è diventato autore di un piccolo caso editoriale, nel quale quel post è confluito diventando il capitolo di una trattazione più ampia: Nuova Era Oscura (Not – Nero Editions). L’idea è affascinante: internet e la tecnologia più avanzata come scale che invece di ascendere al cielo precipitano all’inferno. Il libro è bello e documentato, anche se forse a volte per voler strafare gli scappa qualche errore: per esempio nel citatissimo passaggio che spiega come tra i vari disastri collegati al riscaldamento globale ci sia l’aumento della CO2 nell’atmosfera e quindi la diminuzione dell’ossigeno, il che ci porta ad avere meno carburante per il cervello e quindi a essere più stupidi (non è vera né l’una cosa – aumenta l’anidride carbonica ma non diminuisce l’ossigeno – né l’altra: sennò dal Tibet alle Ande sarebbero tutti scemi). Ma qui non ci interessa il dettaglio, bensì il paradigma. E quello del “nuovo medioevo” sta diventando centrale, ben più che una buzz word di successo. Negli ultimi tempi infatti si moltiplicano gli articoli e le analisi che individuano dei parallelismi, in modo banale o arguto, tra questi tempi e l’età di mezzo. E non parlo delle lamentazioni che scattano implacabili quando vengono a galla pratiche o leggi ferocemente regressive (contro l’aborto, ad esempio): Aiuto, questi vogliono riportarci al medioevo! Ma di qualcosa di più profondo.
(continua su L’Indiscreto)
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