La vera storia del Signore delle mosche: forse non facciamo così schifo?

Rutger Bregman: il nome non ci dice molto. Magari vedendo la sua faccia, una scintilla potrebbe accendersi. Ma sicuramente, guardando o anche solo nominando questo famoso video, torna in mente tutto: è lui, lo storico olandese che fece saltare il banco al Forum di Davos l’anno scorso. Quello che ai ricchi e potenti della Terra disse chiaro e tondo: non fatevi belli con la beneficenza, pagate le tasse. E che riferendosi a quel prestigioso consesso e al suo convitato di pietra, il riscaldamento globale, notò: è come un raduno di pompieri dove è vietato usare la parola acqua.

Accadeva a gennaio 2019: quest’anno, ha sottolineato lui stesso qualche mese fa, a Davos non mi ci hanno invitato, guarda un po’. Video virale a parte, Rutger Bregman non è certo un fuoco di paglia: classe 1988, è considerato uno dei più promettenti pensatori europei. Ha scritto vari libri di argomento storico e filosofico, ma uno in particolare ha avuto una certa risonanza internazionale: Utopia per realisti. Come costruire davvero il mondo ideale. Le sue proposte sono semplici e radicali: reddito di base universale, libertà di movimento globale, settimana lavorativa di quindici ore.

Bregman è un inguaribile ottimista, questo è il punto. Non un tecno-entusiasta come gli anarco-capitalisti della Silicon Valley, intendiamoci. E neanche un difensore dello status quo travestito da debunker, come l’Hans Rosling di Factfulness. Il mondo per lui va cambiato, ma farlo è possibile. Perché, udite udite, l’uomo non è così cattivo come si dipinge. Da qualche anno, va a caccia di storie che supportino la sua idea: lo fa per lavoro, è infatti giornalista del sito olandeseDe Correspondent, ma con il ruolo di battitore libero, senza cioè l’obbligo di stare dietro alla stretta attualità (tossica per la mente come lo zucchero è per il corpo, dice lui, perché ti fa concentrare sugli aspetti eccezionali della realtà, cioè quelli negativi).

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Possiamo salvare il mondo, a cena

C’è quel meme degli squali, non so se avete presente, potrebbe sembrare un meme benaltrista ma invece no, è catastrofista: non dice infatti che ben altro è il problema, ma che per ogni problema terrificante ce n’è uno ancora più orribile. La sua versione “ai tempi del coronavirus” – virgolette ammiccanti per far capire che la frase fatta non ci piace – è questa:

Covid-19 < Crisi economica < riscaldamento globale. A pensarci bene poi, fuori dall’inquadratura ci starebbe un altro squalo, ancora più grande. Come definirlo? Sovrappopolamento fa troppo Malthus, anche se in sostanza di quello si tratta: ma arrivati alle soglie degli otto miliardi, situazione attuale, e proiettati verso i 10 – secondo alcune stime addirittura entro il decennio – il discorso dell’affollamento umano sul pianeta si articola su più dimensioni.

C’è l’aspetto alimentare, quello di cui si preoccupava appunto il malthusianesimo classico, ovvero: ce la farà l’orto della Terra a sfamare tutta ‘sta gente? E poi c’è il movimento contrario, e cioè: ce la farà tutta ‘sta gente che mangia a non distruggere la Terra? I due discorsi sono intrecciati, naturalmente. E le due facce della medaglia, sovrappopolamento/sfruttamento, sono poi collegate agli altri squali: il collasso climatico, la crisi economica, le stesse zoonosi come il coronavirus; tanto che dovremmo parlare, più che di squalo ulteriore, di un meta-squalo.

Da questi dati di fatto prende le mosse Agnese Codignola per parlare di quello che mangeremo nel futuro, ed è un futuro prossimo: Il destino del cibo (Feltrinelli) è un libro che contiene una impressionante mole di dati, che stimola incessanti riflessioni, che trasporta in un viaggio alla scoperta di incredibili – ma tutt’altro che improbabili – invenzioni in campo alimentare. Agnese Codignola, ricercatrice e poi giornalista scientifica, è un po’ la nostra Michael Pollan; anche se il leggendario food writer americano è partito con dei bellissimi libri sul cibo (Il dilemma dell’onnivoro, Cotto) per poi approdare agli psichedelici (Come cambiare la tua mente), mentre Codignola ha fatto il percorso inverso, passando dalla monumentale ricerca sull’acido lisergico (LSD è del 2018) a questo. Secondo Jonathan Safran Foer Possiamo salvare il mondo, prima di cena; secondo Codignola possiamo salvare il mondo, a cena.

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«Quella volta che ho bevuto il mescal di Malcom Lowry»

Mettiamo che uno non abbia mai letto Sotto il vulcano. Che ne conosca la posizione, tra i capolavori della letteratura moderna. Che abbia sempre sentito parlare di Malcom Lowry, un Joyce ubriaco, esotico erotico politico. Che sia attratto da questo romanzo ambientato in una città immaginaria di un Messico fin troppo reale, con un protagonista assurdo, diviso tra delirium tremens e antifascismo, amore e morte. Che lo abbia lì in wishlist, insieme a tante, troppe altre cose, e non sia mai riuscito a leggerlo. Può capitare. A me è capitato.

Mettiamo che Feltrinelli decida di ristamparlo, in una veste grafica spartana, e con una nuova traduzione. A questo punto non cogliere l’occasione sarebbe autolesionismo. Mettiamo poi che uno abbia la ventura, addirittura, di conoscere il traduttore: Marco Rossari. Che piano piano sta traducendo tutti i grandi, da Dickens in poi. Che è anche poeta (!) e scrittore eclettico: autore di romanzi candidati allo Strega (Le cento vite di Nemesio), di offerte musicali (Bob Dylan. Il fantasma dell’elettricità), di deliziose disintegrazioni della forma (L’unico scrittore buono è quello morto); e ad aprile 2018 esce Nel cuore della notte per Einaudi, wow.

Con queste premesse, sarebbe stata una fesseria non intervistarlo, e una cosa senza senso non utilizzare ancora il formato dell’intervista via chat. Chat di twitter, ché Rossari mica sta su Facebook. Con generosità, con spirito, lo sventurato rispose.

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Dr. George e Mr. Saunders

“Evita solo i toni troppo elogiativi”: così mi hanno risposto dalla redazione di Alfabeta2 quando ho proposto un pezzo sull’ultimo libro – e primo romanzo – di George Saunders, Lincoln nel Bardo. Compito arduo, ho pensato subito. Per motivi soggettivi: Saunders è uno dei miei scrittori di racconti preferiti, e quindi uno dei miei scrittori preferiti tout court. Geniale la sua capacità di costruire mondi in poche pagine, inquietante il suo modo di intendere il fantastico come un mostro dietro l’angolo: non è la nostra realtà, ma potrebbe diventarlo domattina (se fosse un genere, sarebbe definito “fantascienza di prossimità”). Il declino delle guerre civili americanePastoraliaNel paese della persuasione,Dieci dicembre: una raccolta dopo l’altra, Saunders ci ha abituato a standard elevatissimi. E poi i motivi oggettivi: il coraggio di cambiare forma e accettare la sfida del romanzo; l’intenzione però di non rinunciare alla sperimentazione; l’attesa spasmodica per l’uscita del libro, e poi per la sua traduzione in Italia; l’acclamazione di “capolavoro” da parte di Zadie Smith e altri.

Intanto, mentre lo leggevo, iniziavano a uscire i primi pareri discordi: le perplessità e addirittura le stroncature. Ancora più difficile parlarne meno che bene, a questo punto. Ho ritenuto allora di convocare a dibattito Aristide Maselli: ci lega una consuetudine di affetto personale e disaccordo letterario. Che anche stavolta si è confermato. Quella che segue è la trascrizione infedele della nostra chat.

IO: Allora, che ne pensi?

Aristide Maselli: Eh, un attimo. L’ho appena finito, devo ancora digerirlo.

IO: Ma come, abbiamo iniziato a leggerlo più di un mese fa!

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5 cose che puoi far finta di sapere su George Saunders

lincoln

traduzione di Cristiana Mennella

George Saunders ha vinto il Man Booker Prize con il suo Lincoln in the Bardo.
Saunders chi? Faccio finta di non aver sentito la domanda. D’altra parte fino all’altroieri l’autore americano aveva scritto solamente raccolte di racconti, quindi ci sta che fosse uno di nicchia. Ma da oggi, con un romanzo vero e per di più premiato, non si può restare a corto di argomenti. Eccone 5 per improvvisare una conversazione brillante (Ma poi da stasera si recupera, eh).

1. Erano meglio i racconti

Sempre dire che erano meglio le prime cose, la purezza delle origini (i primi libri di Dave Eggers, i primi album di Sting, i Genesis con Peter Gabriel ecc.). In questo caso poi cambia sia la forma che il genere: racconti, e racconti di fantascienza. O quasi. Un presente alternativo o un futuro molto prossimo, in cui la tecnologia e la pubblicità dominano, mentre gli uomini – vecchi e bambini compresi – sono costretti a lavori sempre più umilianti. Il primissimo, Il declino delle guerre civili americane: dire che è insuperabile.
Una chicca: Bengodi e altri racconti (2015 per Minimum fax) è la stessa raccolta sopra citata.

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Davide Longo e la complicità del male

bramardDi solito, quando si vuole mettere in luce l’originalità di un thriller moderno, si dice che il suo autore conosce benissimo gli elementi, i topoi e i cliché del giallo classico, e si diverte a disporli in maniera inusuale, scompigliando l’ordine, sovvertendo le regole del genere. (La si dice, questa cosa, da così tanto tempo che viene da chiedersi, in verità, se sia mai esistito il “giallo classico”.) Davide Longo, piemontese di 43 anni, è autore di pochi e ben calibrati romanzi, e lavora alla Scuola Holden come didatta, qualsiasi cosa ciò voglia dire. In questo Il caso Bramard (Feltrinelli, 256 pag., euro 17) ritornano i suoi temi prediletti: le montagne, le arrampicate, la pochezza dell’uomo in confronto alla natura. Ma compaiono, appunto, anche tutti i leitmotiv del giallo: l’eroe – un commissario in pensione, anziano e disincantato, con un grande dolore nascosto -, l’antagonista – un serial killer spietato e imprendibile, che inconsciamente desidera farsi prendere -, l’invasione del privato nel professionale, perché l’ultima vittima dell’assassino fu la moglie del commissario, ed è a lui che nel corso degli anni l’introvabile manda delle lettere con una canzone di Leonard Cohen, finché in una per caso (?) ci trovano un capello, e col DNA l’indagine, ovviamente in modo informale, riparte.

Longo manovra l’intreccio con mestiere sicuro, e applica la regola show don’t tell all’estremo: i personaggi vengono mostrati mentre compiono azioni di cui il lettore non coglie il significato se non dopo un po’, o un tanto. Sicché sembra, più che di leggere una sceneggiatura già bella e pronta (complimento spesso usato per denigrare), proprio di guardare un film. E sì, certo, le regole del thriller sono sovvertite, ma in modo così sottile e pervasivo che sarebbe complicato dirne. Con una eclatante eccezione. Nello schema tipico, dal classico (Conan Doyle) al moderno (il Bioy Casares de L’invezione di Morel), un mistero che all’inizio sembra inspiegabile se non ricorrendo al sovrannaturale, viene riportato poi dal solutore nell’alveo della logica. Qui invece, man mano che ci si avvicina alla fine, e si intravede la soluzione, essa ci appare più inverosimile e assurda che in principio. La bravura di Davide Longo sta nel rendere la vicenda, nonostante tutto, credibile. Ma il vero dramma è un altro.

La vera assurdità è che lo stesso commissario, lo stesso lettore, è costretto ad inchinarsi davanti alla perfezione, alla bellezza dell’opera del serial killer. Come a dire che con il male tutti noi – in qualità di autori, o di testimoni silenziosi, o di semplici compartecipi del genere umano – siamo comunque coinvolti.

(Versione integrale dell’articolo uscito oggi sul Mattino)


Per tutto il resto c’è Masterpiece

troisiOra, non è per citare sempre e comunque Massimo Troisi, ma più passa il tempo e più la sua battuta diventa una paradossale realtà: “Io sono uno a leggere, loro sono milioni a scrivere!”. In Italia si legge poco e si scrive tanto. Peggio: si legge sempre di meno e si scrive sempre di più. Prendiamo una qualsiasi statistica: le vendite del 2012 sono state inferiori a quelle del 2011 (meno 7%), che a loro volta erano in calo rispetto al 2010; e i primi mesi di quest’anno sono un’ulteriore precipizio. A leggere almeno un – dicesi uno – libro all’anno è meno di metà della popolazione, mentre i cosiddetti lettori forti sono appena il 6% degli italiani; e attenzione, per essere classificati in quest’elite basta aver letto un libro al mese (Rapporto sulla promozione della lettura, a cura del Forum del libro). Cambio versante: il mercato editoriale propone tra i cinquemila e i seimila titoli al mese, considerati tutti i settori. E restando solo nell’ambito della narrativa, più di trecento esordienti all’anno: uno scrittore nuovo ogni giorno; troppo, anche per l’apparato digerente più ferreo. Il tutto, senza contare le migliaia di aspiranti, quelli che scrivono e non riescono a pubblicare, ma vorrebbero tanto.

Siamo un popolo di scrittori, un popolo di non-lettori. Quanto più aumenta il divario tra quei due dati, tanto più il paradosso si fa evidente. Insomma: perché pubblicare (o aspirare a) se dall’altro lato non ci sta nessuno a leggere? Posto che coi diritti d’autore (1 euro circa a copia venduta, a meno che non hai vinto lo Strega) riescono a campare sì e no poche decine di best-selleristi, la molla è certo il soldo. Allora la fama, il prestigio. Ma anche lì: perché affannarsi a pubblicare un romanzo, quando bene che vada lo leggeranno cinquecento persone, di cui la metà sono amici, parenti e compagni delle elementari ripescati per l’occasione? È come se negli anni ’60, nel mezzo del boom economico e della diffusione dell’automobile come bene di massa, tutti si fossero messi a costruire e a vendere carretti e calessi. Mistero.

Che resta tale anche per gli addetti ai lavori. E così vorresti fare lo scrittore: il titolo del recente libro di Giuseppe Culicchia (per Laterza) lascia poco spazio ai dubbi, e molto al sarcasmo. Ma forse, come ha sottolineato Andrea Bajani in un grandissimo pezzo sul libro, e sui libri, forse non è solo colpa dei poveri illusi che vogliono entrare nel “dorato mondo delle lettere”.

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La Cina in parole non povere

Yu Hua, La Cina in dieci parole, Feltrinelli 2012, 240 pagine, 18.50 euro

La Cina è vicina? La Cina è lontanissima, altroché. Lontana geograficamente, ovvio, lontana economicamente, perché continua a crescere mentre noi qui siamo intrappolati nella depressione. Lontana soprattutto dalla nostra comprensione, perché sfugge ai vecchi schemi di comunismo, capitalismo, democrazia, ricchezza, giustizia, libertà. Torna utilissimo allora un libro come La Cina in dieci parole, di Yu Hua (Feltrinelli, 240 pagine, 18.50 euro), perché spiega, anzi racconta le cose, senza pretese di essere sistematico, ma riuscendo a illuminarle.

Yu Hua è un romanziere tradotto in tutto il mondo, che agli esordi scriveva trame piuttosto pulp e sanguinolente, ma sempre con un occhio alla realtà sociale; un titolo come Cronache di un venditore di sangue la dice lunga: sembra fanta-horror ma è una figura che esiste davvero, in Cina, un lavoro abietto con cui parecchi si sono arricchiti. Tra le parole che formano questo vocabolario-decalogo, alcune ce le aspettiamo: “popolo”, “rivoluzione”, “leader”. Altre sono sorprendenti, e rivelano molto dell’immagine che i cinesi oggi hanno di se stessi: “morti di fame”, “taroccato”, “intortare”. E altre sono più schiettamente personali, come “lettura”, “scrivere”, “Lu Xun” (un letterato degli anni trenta, l’unico oltre a Mao che era permesso leggere nell’epoca di devastazione della Rivoluzione culturale).

Perché la particolarità, e il bello, di questo libro è che l’autore intreccia tre livelli: quello autobiografico, le storie sue e della sua famiglia, del bambino piccolo come dell’intellettuale affermato; poi c’è una miriade di storie, di cronache surreali e strazianti, che hanno per protagonisti povera gente e vip, disgrazie nere e successi fulminei; infine c’è la grande Storia, i fatti dell’economia e della politica, supportati da cifre e analizzati con lucidità. I tre livelli sono mescolati e si passa a ogni momento dall’uno all’altro, il che rende la narrazione appassionante. Yu Hua resta pur sempre un narratore, infatti, con la grande capacità di chiarire partendo dai dettagli. Come nel caso delle battaglie per i timbri: le bande Guardie rosse che si bastonavano a morte tra loro per accaparrarsi i timbri degli uffici, ché solo con quelli avrebbero acquisito potere, sono l’emblema di quell’assurdo mix di violenza e burocrazia che fu la Rivoluzione culturale.

Perché tornare sempre al passato, si chiede l’autore. E si risponde: perché le due epoche condividono tratti comuni impressionanti, e se pure sotto forme sociali completamente diverse, è comune lo scatenamento collettivo verso uno scopo, politico ai tempi di Mao, economico oggi.

Ma Yu Hua non corrisponde allo stereotipo del cinese fuoriuscito, tutto critiche per il regime di Pechino e lisciate per i nostri pregiudizi di occidentali. Anzi gioca a spiazzare: come quando accosta quelle gogne per iscritto che furono i dazibao ai moderni blog, perché entrambi “servono all’affermazione di sé”. E la mette giù dura: “il nostro miracolo economico o, meglio, i profitti di cui andiamo tanto fieri sono realizzati grazie al potere assoluto esercitato dalle autorità: è proprio la mancanza di trasparenza nella politica a determinare il rapido sviluppo economico”.

Per capire l’ambiguità che contraddistingue la Cina moderna, e a cui non rimane estraneo l’autore stesso, lasciamoci raccontare un’ultima storia, anzi due storie parallele. La prima risale all’era maoista, quando il cibo era razionato e prosperava il mercato nero delle tessere: un contadino per pagarsi un matrimonio almeno dignitoso stringe la cinghia e raggranella un po’ di questi biglietti, ma quando li va a vendere viene scoperto da guardiani ragazzini (tra cui Yu Hua) che per fargli mollare la presa lo colpiscono con un mattone prima sulle mani e poi in faccia; poi multato e sgridato dalla polizia, e gli va ancora bene, il giovane sposo se ne torna al villaggio mortificato, senza né tessere né soldi.

La seconda si svolge oggi, in una di quelle metropoli sorte da un momento all’altro che la più piccola ha dieci milioni di abitanti, dove si riversano masse di disperati, sottoproletari e straccioni; i quali per sbarcare il lunario fanno le cose più varie, tra cui il venditore ambulante: ambulante e abusivo, uno di loro all’ennesimo sequestro della merce – quattro carabattole ma tutti i suoi averi, il suo “investimento” – si ribella e colpisce il poliziotto vessatore, lo uccide, viene condannato. Queste due storie, che a noi sembrano l’eterno leitmotiv degli umili che in ogni epoca e nazione vengono ancor più umiliati, a Yu Hua fanno invece scattare l’interrogativo: che cosa è successo al nostro paese, che a distanza di così pochi anni quello si prendeva le botte dai bambini mentre questo si ribella all’autorità fino a uccidere? Signora mia dove andremo a finire, non lo dice ma poco ci manca. Niente da fare, anche Yu Hua, per quanto bestseller in occidente, sempre cinese rimane, e quindi un po’ misterioso, non del tutto comprensibile. La Cina è lontana, ogni giorno di più.

La Cina è vicina? La Cina è lontanissima, altroché. Lontana geograficamente, ovvio, lontana economicamente, perché continua a crescere mentre noi qui siamo intrappolati nella depressione. Lontana soprattutto dalla nostra comprensione, perché sfugge ai vecchi schemi di comunismo, capitalismo, democrazia, ricchezza, giustizia, libertà. Torna utilissimo allora un libro come La Cina in dieci parole, di Yu Hua (Feltrinelli, 240 pagine, 18.50 euro), perché spiega, anzi racconta le cose, senza pretese di essere sistematico, ma riuscendo a illuminarle.

Yu Hua è un romanziere tradotto in tutto il mondo, che agli esordi scriveva trame piuttosto pulp e sanguinolente, ma sempre con un occhio alla realtà sociale; un titolo come Cronache di un venditore di sangue la dice lunga: sembra fanta-horror ma è una figura che esiste davvero, in Cina, un lavoro abietto con cui parecchi si sono arricchiti. Tra le parole che formano questo vocabolario-decalogo, alcune ce le aspettiamo: “popolo”, “rivoluzione”, “leader”. Altre sono sorprendenti, e rivelano molto dell’immagine che i cinesi oggi hanno di se stessi: “morti di fame”, “taroccato”, “intortare”. E altre sono più schiettamente personali, come “lettura”, “scrivere”, “Lu Xun” (un letterato degli anni trenta, l’unico oltre a Mao che era permesso leggere nell’epoca di devastazione della Rivoluzione culturale).

Perché la particolarità, e il bello, di questo libro è che l’autore intreccia tre livelli: quello autobiografico, le storie sue e della sua famiglia, del bambino piccolo come dell’intellettuale affermato; poi c’è una miriade di storie, di cronache surreali e strazianti, che hanno per protagonisti povera gente e vip, disgrazie nere e successi fulminei; infine c’è la grande Storia, i fatti dell’economia e della politica, supportati da cifre e analizzati con lucidità. I tre livelli sono mescolati e si passa a ogni momento dall’uno all’altro, il che rende la narrazione appassionante. Yu Hua resta pur sempre un narratore, infatti, con la grande capacità di chiarire partendo dai dettagli. Come nel caso delle battaglie per i timbri: le bande Guardie rosse che si bastonavano a morte tra loro per accaparrarsi i timbri degli uffici, ché solo con quelli avrebbero acquisito potere, sono l’emblema di quell’assurdo mix di violenza e burocrazia che fu la Rivoluzione culturale.

Ma perché tornare sempre al passato, si chiede l’autore. E si risponde: perché le due epoche condividono tratti comuni impressionanti, e se pure sotto forme sociali completamente diverse, è comune lo scatenamento collettivo verso uno scopo, politico ai tempi di Mao, economico oggi.

Ma Yu Hua non corrisponde allo stereotipo del cinese fuoriuscito, tutto critiche per il regime di Pechino e lisciate per i nostri pregiudizi di occidentali. Anzi gioca a spiazzare: come quando accosta quelle gogne per iscritto che furono i dazibao ai moderni blog, perché entrambi “servono all’affermazione di sé”. E la mette giù dura: “il nostro miracolo economico o, meglio, i profitti di cui andiamo tanto fieri sono realizzati grazie al potere assoluto esercitato dalle autorità: è proprio la mancanza di trasparenza nella politica a determinare il rapido sviluppo economico”.

Per capire l’ambiguità che contraddistingue la Cina moderna, e a cui non rimane estraneo l’autore stesso, lasciamoci raccontare un’ultima storia, anzi due storie parallele. La prima risale all’era maoista, quando il cibo era razionato e prosperava il mercato nero delle tessere: un contadino per pagarsi un matrimonio almeno dignitoso stringe la cinghia e raggranella un po’ di questi biglietti, ma quando li va a vendere viene scoperto da guardiani ragazzini (tra cui Yu Hua) che per fargli mollare la presa lo colpiscono con un mattone prima sulle mani e poi in faccia; poi multato e sgridato dalla polizia, e gli va ancora bene, il giovane sposo se ne torna al villaggio mortificato, senza né tessere né soldi. La seconda si svolge oggi, in una di quelle metropoli sorte da un momento all’altro che la più piccola ha dieci milioni di abitanti, dove si riversano masse di disperati, sottoproletari e straccioni; i quali per sbarcare il lunario fanno le cose più varie, tra cui il venditore ambulante: ambulante e abusivo, uno di loro all’ennesimo sequestro della merce – quattro carabattole ma tutti i suoi averi, il suo “investimento” – si ribella e colpisce il poliziotto vessatore, lo uccide, viene condannato. Queste due storie, che a noi sembrano l’eterno leitmotiv degli umili che in ogni epoca e nazione vengono ancor più umiliati, a Yu Hua fanno invece scattare l’interrogativo: che cosa è successo al nostro paese, che a distanza di così pochi anni quello si prendeva le botte dai bambini mentre questo si ribella all’autorità fino a uccidere? Signora mia dove andremo a finire, non lo dice ma poco ci manca. Niente da fare, anche Yu Hua, per quanto bestseller in occidente, sempre cinese rimane, e quindi un po’ misterioso, non del tutto comprensibile. La Cina è lontana, ogni giorno di più.

(Articolo uscito oggi, in versione ridotta, sul Mattino di Napoli)


Presentazioni del libro: centro-sud tour 2012

L’ho detto (su fb) e lo ridico: mi sento un po’ il Baricco dei poveri. Ba-ricco perché il suo libro ancora doveva uscire e lui già era stato in 10 librerie da Milano a Bari nel giro di 7 giorni. Ma-povero perché in realtà ci si organizza così, comprimendo tutto, per sparagnare. Tant’è, posso dire forte che a marzo faccio 3 presentazioni in 3 giorni. Ecco i dettagli.

Domenica 11 marzo, Roma
Libri Come – Auditorium, ore 12.00
Con il compagno di scuderia Ivan Polidoro, il critico Filippo La Porta e lo scrittore Antonio Pascale
(qui l’evento su Facebook)

Lunedì 12 marzo, Salerno
Feltrinelli, ore 18.00
Con Francesco De Piscopo, docente di letteratura italiana, e Raffaele Avallone, giornalista del Corriere del Mezzogiorno
(qui l’evento su Facebook)

Martedì 13 marzo, Napoli
Fnac, ore 18.00
Con Raffaella R. Ferré
(qui l’evento su Facebook)