La vera storia del Signore delle mosche: forse non facciamo così schifo?
Pubblicato: 18 Maggio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Esquire, Factfulness, feltrinelli, Hans Rosling, Hobbes, Humankind, Il signore delle mosche, libri, Rizzoli, Rousseau, Rutger Bregman, Utopia per realisti, William Golding Lascia un commentoRutger Bregman: il nome non ci dice molto. Magari vedendo la sua faccia, una scintilla potrebbe accendersi. Ma sicuramente, guardando o anche solo nominando questo famoso video, torna in mente tutto: è lui, lo storico olandese che fece saltare il banco al Forum di Davos l’anno scorso. Quello che ai ricchi e potenti della Terra disse chiaro e tondo: non fatevi belli con la beneficenza, pagate le tasse. E che riferendosi a quel prestigioso consesso e al suo convitato di pietra, il riscaldamento globale, notò: è come un raduno di pompieri dove è vietato usare la parola acqua.
Accadeva a gennaio 2019: quest’anno, ha sottolineato lui stesso qualche mese fa, a Davos non mi ci hanno invitato, guarda un po’. Video virale a parte, Rutger Bregman non è certo un fuoco di paglia: classe 1988, è considerato uno dei più promettenti pensatori europei. Ha scritto vari libri di argomento storico e filosofico, ma uno in particolare ha avuto una certa risonanza internazionale: Utopia per realisti. Come costruire davvero il mondo ideale. Le sue proposte sono semplici e radicali: reddito di base universale, libertà di movimento globale, settimana lavorativa di quindici ore.
Bregman è un inguaribile ottimista, questo è il punto. Non un tecno-entusiasta come gli anarco-capitalisti della Silicon Valley, intendiamoci. E neanche un difensore dello status quo travestito da debunker, come l’Hans Rosling di Factfulness. Il mondo per lui va cambiato, ma farlo è possibile. Perché, udite udite, l’uomo non è così cattivo come si dipinge. Da qualche anno, va a caccia di storie che supportino la sua idea: lo fa per lavoro, è infatti giornalista del sito olandeseDe Correspondent, ma con il ruolo di battitore libero, senza cioè l’obbligo di stare dietro alla stretta attualità (tossica per la mente come lo zucchero è per il corpo, dice lui, perché ti fa concentrare sugli aspetti eccezionali della realtà, cioè quelli negativi).
(Continua su Esquire)
Possiamo salvare il mondo, a cena
Pubblicato: 18 Maggio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Agnese Codignola, dai giornali, feltrinelli, food, Il futuro del cibo, La ricerca, libri, recensioni Lascia un commentoC’è quel meme degli squali, non so se avete presente, potrebbe sembrare un meme benaltrista ma invece no, è catastrofista: non dice infatti che ben altro è il problema, ma che per ogni problema terrificante ce n’è uno ancora più orribile. La sua versione “ai tempi del coronavirus” – virgolette ammiccanti per far capire che la frase fatta non ci piace – è questa:
Covid-19 < Crisi economica < riscaldamento globale. A pensarci bene poi, fuori dall’inquadratura ci starebbe un altro squalo, ancora più grande. Come definirlo? Sovrappopolamento fa troppo Malthus, anche se in sostanza di quello si tratta: ma arrivati alle soglie degli otto miliardi, situazione attuale, e proiettati verso i 10 – secondo alcune stime addirittura entro il decennio – il discorso dell’affollamento umano sul pianeta si articola su più dimensioni.
C’è l’aspetto alimentare, quello di cui si preoccupava appunto il malthusianesimo classico, ovvero: ce la farà l’orto della Terra a sfamare tutta ‘sta gente? E poi c’è il movimento contrario, e cioè: ce la farà tutta ‘sta gente che mangia a non distruggere la Terra? I due discorsi sono intrecciati, naturalmente. E le due facce della medaglia, sovrappopolamento/sfruttamento, sono poi collegate agli altri squali: il collasso climatico, la crisi economica, le stesse zoonosi come il coronavirus; tanto che dovremmo parlare, più che di squalo ulteriore, di un meta-squalo.
Da questi dati di fatto prende le mosse Agnese Codignola per parlare di quello che mangeremo nel futuro, ed è un futuro prossimo: Il destino del cibo (Feltrinelli) è un libro che contiene una impressionante mole di dati, che stimola incessanti riflessioni, che trasporta in un viaggio alla scoperta di incredibili – ma tutt’altro che improbabili – invenzioni in campo alimentare. Agnese Codignola, ricercatrice e poi giornalista scientifica, è un po’ la nostra Michael Pollan; anche se il leggendario food writer americano è partito con dei bellissimi libri sul cibo (Il dilemma dell’onnivoro, Cotto) per poi approdare agli psichedelici (Come cambiare la tua mente), mentre Codignola ha fatto il percorso inverso, passando dalla monumentale ricerca sull’acido lisergico (LSD è del 2018) a questo. Secondo Jonathan Safran Foer Possiamo salvare il mondo, prima di cena; secondo Codignola possiamo salvare il mondo, a cena.
(Continua su La ricerca)
«Quella volta che ho bevuto il mescal di Malcom Lowry»
Pubblicato: 9 aprile 2018 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Esquire, feltrinelli, intervista, libri, malcom lowry, marco rossari Lascia un commentoMettiamo che uno non abbia mai letto Sotto il vulcano. Che ne conosca la posizione, tra i capolavori della letteratura moderna. Che abbia sempre sentito parlare di Malcom Lowry, un Joyce ubriaco, esotico erotico politico. Che sia attratto da questo romanzo ambientato in una città immaginaria di un Messico fin troppo reale, con un protagonista assurdo, diviso tra delirium tremens e antifascismo, amore e morte. Che lo abbia lì in wishlist, insieme a tante, troppe altre cose, e non sia mai riuscito a leggerlo. Può capitare. A me è capitato.
Mettiamo che Feltrinelli decida di ristamparlo, in una veste grafica spartana, e con una nuova traduzione. A questo punto non cogliere l’occasione sarebbe autolesionismo. Mettiamo poi che uno abbia la ventura, addirittura, di conoscere il traduttore: Marco Rossari. Che piano piano sta traducendo tutti i grandi, da Dickens in poi. Che è anche poeta (!) e scrittore eclettico: autore di romanzi candidati allo Strega (Le cento vite di Nemesio), di offerte musicali (Bob Dylan. Il fantasma dell’elettricità), di deliziose disintegrazioni della forma (L’unico scrittore buono è quello morto); e ad aprile 2018 esce Nel cuore della notte per Einaudi, wow.
Con queste premesse, sarebbe stata una fesseria non intervistarlo, e una cosa senza senso non utilizzare ancora il formato dell’intervista via chat. Chat di twitter, ché Rossari mica sta su Facebook. Con generosità, con spirito, lo sventurato rispose.
Davide Longo e la complicità del male
Pubblicato: 14 agosto 2014 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Davide Longo, feltrinelli, Il caso Bramard, libri, Mattino, novità, recensioni Lascia un commentoDi solito, quando si vuole mettere in luce l’originalità di un thriller moderno, si dice che il suo autore conosce benissimo gli elementi, i topoi e i cliché del giallo classico, e si diverte a disporli in maniera inusuale, scompigliando l’ordine, sovvertendo le regole del genere. (La si dice, questa cosa, da così tanto tempo che viene da chiedersi, in verità, se sia mai esistito il “giallo classico”.) Davide Longo, piemontese di 43 anni, è autore di pochi e ben calibrati romanzi, e lavora alla Scuola Holden come didatta, qualsiasi cosa ciò voglia dire. In questo Il caso Bramard (Feltrinelli, 256 pag., euro 17) ritornano i suoi temi prediletti: le montagne, le arrampicate, la pochezza dell’uomo in confronto alla natura. Ma compaiono, appunto, anche tutti i leitmotiv del giallo: l’eroe – un commissario in pensione, anziano e disincantato, con un grande dolore nascosto -, l’antagonista – un serial killer spietato e imprendibile, che inconsciamente desidera farsi prendere -, l’invasione del privato nel professionale, perché l’ultima vittima dell’assassino fu la moglie del commissario, ed è a lui che nel corso degli anni l’introvabile manda delle lettere con una canzone di Leonard Cohen, finché in una per caso (?) ci trovano un capello, e col DNA l’indagine, ovviamente in modo informale, riparte.
Longo manovra l’intreccio con mestiere sicuro, e applica la regola show don’t tell all’estremo: i personaggi vengono mostrati mentre compiono azioni di cui il lettore non coglie il significato se non dopo un po’, o un tanto. Sicché sembra, più che di leggere una sceneggiatura già bella e pronta (complimento spesso usato per denigrare), proprio di guardare un film. E sì, certo, le regole del thriller sono sovvertite, ma in modo così sottile e pervasivo che sarebbe complicato dirne. Con una eclatante eccezione. Nello schema tipico, dal classico (Conan Doyle) al moderno (il Bioy Casares de L’invezione di Morel), un mistero che all’inizio sembra inspiegabile se non ricorrendo al sovrannaturale, viene riportato poi dal solutore nell’alveo della logica. Qui invece, man mano che ci si avvicina alla fine, e si intravede la soluzione, essa ci appare più inverosimile e assurda che in principio. La bravura di Davide Longo sta nel rendere la vicenda, nonostante tutto, credibile. Ma il vero dramma è un altro.
La vera assurdità è che lo stesso commissario, lo stesso lettore, è costretto ad inchinarsi davanti alla perfezione, alla bellezza dell’opera del serial killer. Come a dire che con il male tutti noi – in qualità di autori, o di testimoni silenziosi, o di semplici compartecipi del genere umano – siamo comunque coinvolti.
(Versione integrale dell’articolo uscito oggi sul Mattino)
La Cina in parole non povere
Pubblicato: 21 Maggio 2012 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, feltrinelli, La Cina in dieci parole, libri, Mattino, novità, recensioni, Yu Hua Lascia un commento
Yu Hua, La Cina in dieci parole, Feltrinelli 2012, 240 pagine, 18.50 euro
La Cina è vicina? La Cina è lontanissima, altroché. Lontana geograficamente, ovvio, lontana economicamente, perché continua a crescere mentre noi qui siamo intrappolati nella depressione. Lontana soprattutto dalla nostra comprensione, perché sfugge ai vecchi schemi di comunismo, capitalismo, democrazia, ricchezza, giustizia, libertà. Torna utilissimo allora un libro come La Cina in dieci parole, di Yu Hua (Feltrinelli, 240 pagine, 18.50 euro), perché spiega, anzi racconta le cose, senza pretese di essere sistematico, ma riuscendo a illuminarle.
Yu Hua è un romanziere tradotto in tutto il mondo, che agli esordi scriveva trame piuttosto pulp e sanguinolente, ma sempre con un occhio alla realtà sociale; un titolo come Cronache di un venditore di sangue la dice lunga: sembra fanta-horror ma è una figura che esiste davvero, in Cina, un lavoro abietto con cui parecchi si sono arricchiti. Tra le parole che formano questo vocabolario-decalogo, alcune ce le aspettiamo: “popolo”, “rivoluzione”, “leader”. Altre sono sorprendenti, e rivelano molto dell’immagine che i cinesi oggi hanno di se stessi: “morti di fame”, “taroccato”, “intortare”. E altre sono più schiettamente personali, come “lettura”, “scrivere”, “Lu Xun” (un letterato degli anni trenta, l’unico oltre a Mao che era permesso leggere nell’epoca di devastazione della Rivoluzione culturale).
Perché la particolarità, e il bello, di questo libro è che l’autore intreccia tre livelli: quello autobiografico, le storie sue e della sua famiglia, del bambino piccolo come dell’intellettuale affermato; poi c’è una miriade di storie, di cronache surreali e strazianti, che hanno per protagonisti povera gente e vip, disgrazie nere e successi fulminei; infine c’è la grande Storia, i fatti dell’economia e della politica, supportati da cifre e analizzati con lucidità. I tre livelli sono mescolati e si passa a ogni momento dall’uno all’altro, il che rende la narrazione appassionante. Yu Hua resta pur sempre un narratore, infatti, con la grande capacità di chiarire partendo dai dettagli. Come nel caso delle battaglie per i timbri: le bande Guardie rosse che si bastonavano a morte tra loro per accaparrarsi i timbri degli uffici, ché solo con quelli avrebbero acquisito potere, sono l’emblema di quell’assurdo mix di violenza e burocrazia che fu la Rivoluzione culturale.
Perché tornare sempre al passato, si chiede l’autore. E si risponde: perché le due epoche condividono tratti comuni impressionanti, e se pure sotto forme sociali completamente diverse, è comune lo scatenamento collettivo verso uno scopo, politico ai tempi di Mao, economico oggi.
Ma Yu Hua non corrisponde allo stereotipo del cinese fuoriuscito, tutto critiche per il regime di Pechino e lisciate per i nostri pregiudizi di occidentali. Anzi gioca a spiazzare: come quando accosta quelle gogne per iscritto che furono i dazibao ai moderni blog, perché entrambi “servono all’affermazione di sé”. E la mette giù dura: “il nostro miracolo economico o, meglio, i profitti di cui andiamo tanto fieri sono realizzati grazie al potere assoluto esercitato dalle autorità: è proprio la mancanza di trasparenza nella politica a determinare il rapido sviluppo economico”.
Per capire l’ambiguità che contraddistingue la Cina moderna, e a cui non rimane estraneo l’autore stesso, lasciamoci raccontare un’ultima storia, anzi due storie parallele. La prima risale all’era maoista, quando il cibo era razionato e prosperava il mercato nero delle tessere: un contadino per pagarsi un matrimonio almeno dignitoso stringe la cinghia e raggranella un po’ di questi biglietti, ma quando li va a vendere viene scoperto da guardiani ragazzini (tra cui Yu Hua) che per fargli mollare la presa lo colpiscono con un mattone prima sulle mani e poi in faccia; poi multato e sgridato dalla polizia, e gli va ancora bene, il giovane sposo se ne torna al villaggio mortificato, senza né tessere né soldi.
La seconda si svolge oggi, in una di quelle metropoli sorte da un momento all’altro che la più piccola ha dieci milioni di abitanti, dove si riversano masse di disperati, sottoproletari e straccioni; i quali per sbarcare il lunario fanno le cose più varie, tra cui il venditore ambulante: ambulante e abusivo, uno di loro all’ennesimo sequestro della merce – quattro carabattole ma tutti i suoi averi, il suo “investimento” – si ribella e colpisce il poliziotto vessatore, lo uccide, viene condannato. Queste due storie, che a noi sembrano l’eterno leitmotiv degli umili che in ogni epoca e nazione vengono ancor più umiliati, a Yu Hua fanno invece scattare l’interrogativo: che cosa è successo al nostro paese, che a distanza di così pochi anni quello si prendeva le botte dai bambini mentre questo si ribella all’autorità fino a uccidere? Signora mia dove andremo a finire, non lo dice ma poco ci manca. Niente da fare, anche Yu Hua, per quanto bestseller in occidente, sempre cinese rimane, e quindi un po’ misterioso, non del tutto comprensibile. La Cina è lontana, ogni giorno di più.
La Cina è vicina? La Cina è lontanissima, altroché. Lontana geograficamente, ovvio, lontana economicamente, perché continua a crescere mentre noi qui siamo intrappolati nella depressione. Lontana soprattutto dalla nostra comprensione, perché sfugge ai vecchi schemi di comunismo, capitalismo, democrazia, ricchezza, giustizia, libertà. Torna utilissimo allora un libro come La Cina in dieci parole, di Yu Hua (Feltrinelli, 240 pagine, 18.50 euro), perché spiega, anzi racconta le cose, senza pretese di essere sistematico, ma riuscendo a illuminarle.
Yu Hua è un romanziere tradotto in tutto il mondo, che agli esordi scriveva trame piuttosto pulp e sanguinolente, ma sempre con un occhio alla realtà sociale; un titolo come Cronache di un venditore di sangue la dice lunga: sembra fanta-horror ma è una figura che esiste davvero, in Cina, un lavoro abietto con cui parecchi si sono arricchiti. Tra le parole che formano questo vocabolario-decalogo, alcune ce le aspettiamo: “popolo”, “rivoluzione”, “leader”. Altre sono sorprendenti, e rivelano molto dell’immagine che i cinesi oggi hanno di se stessi: “morti di fame”, “taroccato”, “intortare”. E altre sono più schiettamente personali, come “lettura”, “scrivere”, “Lu Xun” (un letterato degli anni trenta, l’unico oltre a Mao che era permesso leggere nell’epoca di devastazione della Rivoluzione culturale).
Perché la particolarità, e il bello, di questo libro è che l’autore intreccia tre livelli: quello autobiografico, le storie sue e della sua famiglia, del bambino piccolo come dell’intellettuale affermato; poi c’è una miriade di storie, di cronache surreali e strazianti, che hanno per protagonisti povera gente e vip, disgrazie nere e successi fulminei; infine c’è la grande Storia, i fatti dell’economia e della politica, supportati da cifre e analizzati con lucidità. I tre livelli sono mescolati e si passa a ogni momento dall’uno all’altro, il che rende la narrazione appassionante. Yu Hua resta pur sempre un narratore, infatti, con la grande capacità di chiarire partendo dai dettagli. Come nel caso delle battaglie per i timbri: le bande Guardie rosse che si bastonavano a morte tra loro per accaparrarsi i timbri degli uffici, ché solo con quelli avrebbero acquisito potere, sono l’emblema di quell’assurdo mix di violenza e burocrazia che fu la Rivoluzione culturale.
Ma perché tornare sempre al passato, si chiede l’autore. E si risponde: perché le due epoche condividono tratti comuni impressionanti, e se pure sotto forme sociali completamente diverse, è comune lo scatenamento collettivo verso uno scopo, politico ai tempi di Mao, economico oggi.
Ma Yu Hua non corrisponde allo stereotipo del cinese fuoriuscito, tutto critiche per il regime di Pechino e lisciate per i nostri pregiudizi di occidentali. Anzi gioca a spiazzare: come quando accosta quelle gogne per iscritto che furono i dazibao ai moderni blog, perché entrambi “servono all’affermazione di sé”. E la mette giù dura: “il nostro miracolo economico o, meglio, i profitti di cui andiamo tanto fieri sono realizzati grazie al potere assoluto esercitato dalle autorità: è proprio la mancanza di trasparenza nella politica a determinare il rapido sviluppo economico”.
Per capire l’ambiguità che contraddistingue la Cina moderna, e a cui non rimane estraneo l’autore stesso, lasciamoci raccontare un’ultima storia, anzi due storie parallele. La prima risale all’era maoista, quando il cibo era razionato e prosperava il mercato nero delle tessere: un contadino per pagarsi un matrimonio almeno dignitoso stringe la cinghia e raggranella un po’ di questi biglietti, ma quando li va a vendere viene scoperto da guardiani ragazzini (tra cui Yu Hua) che per fargli mollare la presa lo colpiscono con un mattone prima sulle mani e poi in faccia; poi multato e sgridato dalla polizia, e gli va ancora bene, il giovane sposo se ne torna al villaggio mortificato, senza né tessere né soldi. La seconda si svolge oggi, in una di quelle metropoli sorte da un momento all’altro che la più piccola ha dieci milioni di abitanti, dove si riversano masse di disperati, sottoproletari e straccioni; i quali per sbarcare il lunario fanno le cose più varie, tra cui il venditore ambulante: ambulante e abusivo, uno di loro all’ennesimo sequestro della merce – quattro carabattole ma tutti i suoi averi, il suo “investimento” – si ribella e colpisce il poliziotto vessatore, lo uccide, viene condannato. Queste due storie, che a noi sembrano l’eterno leitmotiv degli umili che in ogni epoca e nazione vengono ancor più umiliati, a Yu Hua fanno invece scattare l’interrogativo: che cosa è successo al nostro paese, che a distanza di così pochi anni quello si prendeva le botte dai bambini mentre questo si ribella all’autorità fino a uccidere? Signora mia dove andremo a finire, non lo dice ma poco ci manca. Niente da fare, anche Yu Hua, per quanto bestseller in occidente, sempre cinese rimane, e quindi un po’ misterioso, non del tutto comprensibile. La Cina è lontana, ogni giorno di più.
(Articolo uscito oggi, in versione ridotta, sul Mattino di Napoli)
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