Rava e la fava

Enrico Rava, On the dance floor, Ecm

Inauguriamo un nuovo tipo di non-recensione. Non solo perché musicale, dato che finora ho non-recensito solo libri. Ma soprattutto per il motivo: dopo le non-recensioni per conflitto d’interessi, ecco la non-recensione per brevità.

Michael Jackson lo conoscete tutti, purtroppo. Enrico Rava anche, direi: quando uno entra nel giro di quelli imitati da Fiorello, vuol dire che non ha bisogno di presentazioni. Ma magari non tutti ricordano che Miles Davis, ngli ultimi anni della sua vita (quelli dove molti gli davano del rincoglionito – ma erano gli stessi che prima gli davano del venduto), aveva espresso giudizi lusinghieri non solo su Prince, non solo su Nino D’Angelo, ma anche sul black more white. Il vecchio Miles però almeno aveva la giustificazione di parlare a Jackson vivo.

Ora Rava dice che è un genio. E gli dedica un intero cd Ecm, On the dance floor, con agguerrita orchestra avanguardistica. Il disco l’ho sentito solo una volta – altrimenti che non-recensione sarebbe – quindi può essere che ci tornerò in qualche modo. Ma può anche essere che non avrò in coraggio di rimetterlo su.

Perché al primo mezzo ascolto


uno pensa: che grande sto Rava, riesce a far diventare interessante perfino Michael Jackson.

Ma al secondo mezzo ascolto

inevitabilmente si conclude: ma che mappina sto Michael Jackson, riesce a far diventare pacchiano persino Rava.

E chest’è.

(Oh, ve l’avevo detto che era corta)


Le sue prigioni

Sandro Bonvissuto, Dentro, Einaudi 2012, p. 184, euro 17.50

Gilbert Keith Chesterton, nel romanzo giallo L’uomo che fu Giovedì, nomina una torre posta ai confini del mondo “la cui sola architettura è malvagia”. Borges chiosa proponendola come esempio di puro orrore, il quale nasce dal mostruoso, dall’asimmetrico, dall’inconcepibile (al contrario, l’Inferno immaginato da Dante è formalmente perfetto e altamente funzionale). Anni dopo, il Michel Foucault di Sorvegliare e punire mostrerà che quella torre non solo esiste, non solo non è lontanissima anzi sta in mezzo a noi, ma è anche perfettamente razionale: si chiama carcere. Oggi Sandro Bonvissuto ci prende e ci mette direttamente all’interno di quell’architettura malvagia.

Basterebbe il titolo del libro: Dentro. Basterebbero le prime pagine, in cui senza raccontarci un prima o un perché, ci porta con lui in piena notte, da una macchina a un corridoio pieno di cancelli, attraverso stanze sempre più vuote, fino a una cella. Potrebbe bastare, ma non basta. Perché Bonvissuto – laureato in filosofia e cameriere in un’osteria romana, 42 anni e all’esordio letterario – descrive minuziosamente la prigione e il suo essere costruita apposta per offendere: interminabili sequenze di porte metalliche, ballatoi da psicosi, finestre senza vetri anche con la pioggia e d’inverno, bagni senza porte che ti danno la sensazione di vivere costantemente in una fogna, docce senza tende così che il lavarsi – ma anche quell’altra cosa che si fa senza vestiti – avvenga sotto gli occhi di tutti. Fino al muro, “il più spaventoso strumento di violenza esistente”. Descrive, Bonvissuto, e insieme riflette: la caratteristica della sua scrittura è quella di far procedere di pari passo il fatto e il pensiero. A ogni micro-avvenimento raccontato, segue una micro-scheggia di riflessione: un pensiero tagliente e lucido come un coltello, che ogni volta in mezza paginetta sviscera concetti come il tempo, il suicidio, ma anche la notte e la televisione. Con apparente nonchalance, con una densità quasi insostenibile.

Ci sono anche gli episodi, certo, perché è comunque un racconto e non un saggio, e sono episodi altrettanto allucinanti: dalla biblioteca a disposizione dei detenuti che consiste in un solo libro, fino al raggiungimento dell’estrema spersonalizzazione, di cui ti rendi conto quando i secondini urlano il tuo nome e tu non capisci che stanno chiamando te. Ma è la riflessione a essere centrale, e tra tutte la riflessione centrale riguarda il reato: in carcere si parla solo di quello, con i familiari con gli avvocati con i giudici, finché ogni detenuto finisce per identificarsi con il proprio reato, per assomigliare, lombrosianamente, al proprio reato. Perciò Bonvissuto, conoscendo il potere della parola, anzi sapendo che la parola è l’ultima forma di resistenza, decide di non nominarli mai, i reati: né il suo né quelli degli altri, né per soddisfare la nostra curiosità né quando sarebbe proprio necessario per capire un episodio.

A un certo punto, ben oltre la metà delle 170 pagine del libro, la storia della sua breve esperienza in galera finisce. E seguono un po’ incongruamente altri due scritti molto più corti – racconti a sé? capitoli di un romanzo che procede a salti temporali e all’indietro? non si sa, non importa – uno ambientato all’inizio del liceo e un altro nel mondo magico dell’infanzia. E qui si vede la classe: perché se si tratta di un’esperienza estrema come il carcere, si può immaginare che produca concetti, pagine altrettanto estreme; facile, viene da dire, se hai visto i mostri in faccia, riuscire a raccontarli. Ma Bonvissuto applica lo stesso metodo ai fatti quotidiani, continuando a inanellare folgorazioni e piccole verità: sulla morte dei cortili, sul perché i profeti siano tutti storpi, sull’origine dei banchi a due, sulla stretta relazione tra pensare e camminare. E allora si capiscono due cose. Uno, che il titolo non è riferito (solo) alla prigione, ma a un dentro più intimo, all’anima delle cose e delle persone. Due, che non c’è giustificazione: se riesce a tirare fuori l’impensabile anche da una cosa che abbiamo fatto tutti come imparare ad andare in bicicletta, allora non c’è niente da fare, è di un’altra categoria.

(Versione integrale dell’articolo uscito ieri sul Mattino di Napoli)


Hammam Balcania, carte d’identità

Vladislav Bajac, Hammam Balcania, Jaca Book, trad. Isabella Meloncelli, pag. 416, Euro 20

Bajac si pone immediatamente nel solco di Ivo Andrić, citando Il ponte sulla Drina nella prima pagina. Ma poi riporta anche infinite discussioni fatte con l’altro Nobel, il turco Orhan Pamuk. Hammam Balcania è infatti un ambizioso romanzo tutto costruito sui dualismi: serbi-turchi, occidente-oriente, cristiani-musulmani, e fin qui siamo nel classico, ma anche ieri-oggi, e persino cirillico-latino. Perché la lingua serba (lo sapevate?) usa indifferentemente entrambi gli alfabeti. E l’autore sfrutta questa possibilità per raccontare contemporaneamente non una ma due storie. Andiamo con ordine.

Vladislav Bajac, nato a Belgrado nel 1954, è scrittore, poeta, traduttore e agitatore culturale, poco noto da noi (prima di questo in Italia è uscita solo la raccolta di racconti Supporti per i sogni. Favole geopoetiche) ma apprezzatissimo in patria, e molto seguito anche al di fuori dell’area balcanica. Pubblicato da Jaca book (storica casa editrice con un catalogo internazionale impressionante, da Solženicyn a Wole Soyinka passando per Mircea Eliade e Arthur Koestler) Hammam Balcania prende le mosse dallo stesso luogo che ispirò Andrić, il ponte che a Višegrad unisce le due sponde del fiume Drina; mentre però il mito della letteratura serba svolse la vicenda in avanti, intrecciando sul ponte e dintorni una serie di piccole storie e la grande Storia dei secoli successivi, Bajac volge lo sguardo all’indietro: come si è arrivati a costruire quell’opera? Chi era questo Mehmed pascià Sokollu a cui è intitolata?

La storia – una delle due storie, quella ambientata nel passato – è appassionante: nato giusto cinquecento anni fa in un villaggio serbo-bosniaco, Bajica Sokolović venne strappato alla famiglia dai neo-conquistatoti ottomani, e portato in Turchia. Niente di eccezionale in questo destino, era il cosiddetto tributo di sangue: i turchi si prendevano un maschio a famiglia, per formare i giannizzeri (la fedelissima guardia personale del sultano) e i funzionari pubblici dell’impero; casomai insolita era l’età del protagonista, non un bambino come tutti gli altri ma ormai un diciottenne. Particolare di grande rilievo, perché mentre Mehmed Sokollu, nome nuovo e fede nuova in Allah, faceva carriera nell’esercito e alla corte di Solimano il Magnifico, fino a diventare gran visir e a rimanerlo anche con i due sultani successivi, una parte di lui continuava a rimanere Bajica Sokolović, a pensare in serbo, a credere in Cristo. Ecco i dualismi che si diceva, mirabilmente riuniti nella vita e nell’anima di una sola persona: il che fa di questo libro un romanzo, e non un trattato teorico.

Che poi non manca pure la teoria, perché a capitoli alternati (quelli scritti in cirillico, anche se ovviamente la traduzione italiana non può riproporre una distinzione così netta) l’altra narrazione si svolge nel presente. E mentre all’inizio sembra una specie di operazione meta-letteraria, con l’autore e Pamuk che fanno a gara a chi riporta più dati storici e curiosità dell’assedio di Vienna o della battaglia di Lepanto, ben presto il discorso si allarga. E diventa una spasmodica ricerca sul concetto di identità: questione spinosa nei Balcani di epoca ottomana come in quelli di oggi, ma che Bajac amplia fino a coinvolgere una serie di personaggi famosi, scrittori e musicisti, spesso consultati direttamente. C’è Allen Ginsberg sulla questione di cosa significhi essere americano; c’è Gamal el Ghitani a rappresentare quell’Egitto che nello stesso periodo del XVI secolo venne, come la Serbia, brutalizzato dall’impero ottomano (e nonostante la fede comune!); c’è Sjón, artista e compagno della cantante Björk, perché anche l’isolatissima Islanda ha problemi con l’identità.

E c’è Alan Stivell con la sua arpa celtica, che fa da catalizzatore per un incontro curioso e inquietante: nei primi anni ’90, mentre infuriavano le guerre di dissoluzione della Jugoslavia, prendeva piede un movimento pan-celtico con relative velleità autonomiste in Bretagna; nell’ambito della solidarietà indipendentista un’amica bretone di Bajac diede ospitalità a un terrorista dell’Eta. Il quale, sapute le sue origini, gli propose un’alleanza strategico-militare tra i baschi e i serbi! Un cortocircuito logico davanti al quale impallidiscono persino le contraddizioni dei nostri amici leghisti, adoratori del dio Po e al contempo difensori delle radici cristiane d’Europa. Trappole dell’identità.

(Versione integrale dell’articolo uscito oggi sul Mattino di Napoli)


Metamorfosi 1, 2, 3

(Questo racconto l’ho scritto qualche mese fa per mandarlo a una rivista che chiedeva uno “scritto di massimo 5400 battute” in cui “gli animali, veri o immaginari, siano gli unici protagonisti”. Premessa invadente, ma forse utile per la lettura)

1

Una mattina, al risveglio da sogni inquieti, il trasportatore Gregorio si trovò trasformato in un mostro enorme.

Era una creatura troppo schifosa, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame.

2

Mark rilesse, tutto contento. Era stata proprio un’ottima idea quella di togliere il superfluo, pensò.

Troppo corto? E che vuol dire: il compito stabiliva un limite massimo, di 5400 battute, ma non diceva niente sul limite minimo. Ci si era scervellato tutto il pomeriggio, senza riuscire a venirne a capo. La difficoltà non era dovuta all’imposizione di scrivere un racconto “dove gli animali, veri o immaginari, siano gli unici protagonisti”. E poi, pensò Mark, anche noi siamo animali, in fin dei conti. Certo, animali speciali, verrebbe quasi da dire animali eletti, se non suonasse vagamente razzista.

E non era manco che non aveva nessuna idea, anzi. Gli era venuto subito in mente un articolo che aveva letto tempo prima, su uno scarafaggio protagonista di un esperimento. Un cyber-scarafaggio, mezzo insetto e mezzo robot, poggiato su una pallina rotante tipo mouse: una metamorfosi all’incontrario. All’epoca aveva pensato: ma come, farsi sfuggire un’occasione simile. Fosse stato lui, a dover raccontare quella storia, avrebbe fatto una parafrasi dal formidabile incipit di Kafka: “Una mattina, al risveglio da sogni inquieti, il commesso viaggiatore Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme orribile insetto”. Ora, si era detto Mark, ora posso farlo. E aveva iniziato a scrivere: “Una mattina, al risveglio da sogni inquieti, il trasportatore Gregorio si trovò trasformato in un orribile essere”. Il trasportatore, che non è molto diverso da commesso viaggiatore, perché lo scarafaggio dell’esperimento era uno stercorario. Il parallelo sarebbe dovuto andare avanti così, che mentre nell’originale lo scarafaggio è steso sul dorso e si guarda le zampette che non riesce a controllare, nella versione di Mark il protagonista, risvegliatosi magari dopo un’anestesia utilizzata per catturarlo, si trovava steso sulla pancia, a guardarsi le zampette slittare sopra una sfera rotante che non riusciva a controllare.

Ovviamente, aveva pensato Mark, tutto sta nel rendere il punto di vista dell’animale. La storia doveva andare avanti con lo scarafaggio che pian piano si rendeva conto di questa sua nuova condizione, magari captando i discorsi che i ricercatori del laboratorio si facevano tra loro, sullo scopo dell’esperimento e tutto. L’ideale sarebbe stato che lui sentiva brandelli di queste frasi, miste a considerazioni più terra terra sugli scarafaggi, tipo la leggenda che sopravviverebbero alla catastrofe nucleare, o espressioni su quanto fanno schifo, che lui sentiva tutto questo senza vedere né capire chi stava parlando. Per poi scoprirlo solo alla fine.

Perché l’altra certezza che Mark aveva era la fine: anche lì una citazione, con un ricercatore che si avvicina e lo scarafaggio che pensa: “Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame”. Lo spettacolare finale del racconto brevissimo La sentinella, un totale rovesciamento di prospettiva, si scopre che al contrario di quello che si era pensato fino ad allora, è l’alieno a essere il protagonista e l’uomo a essere il nemico, un capolavoro. Ma, si era chiesto Mark a un certo punto, avrebbero capito che l’incipit e la chiusa erano citazioni, e non plagi? La differenza è chiara: chi cita non vuole dare a intendere che è farina del suo sacco, anzi si compiace che il riferimento viene colto. In questo caso, diamine, si rivolgeva pur sempre a una giuria di eruditi, avrebbero afferrato il senso metaletterario dell’operazione.

Però poi gli erano venuto i dubbi: non funzionava. Non funzionava la prima parte, perché Mark non ricordava molto di quell’esperimento, e nella rete non era riuscito a trovare notizie: ma se non poteva spiegare il motivo della metamorfosi dello scarafaggio in cyborg, tutta la scena perdeva senso, si riduceva a un insetto in equilibrio su una palla. Non funzionava neanche il finale: l’effetto sorpresa era completamente perduto, nel momento in cui si sapeva già che si trattava di uomini e scarafaggi in laboratorio. Stava sospeso in questo stallo, quando ebbe il colpo di genio: cancellare, togliere tutto, lasciare solo le due citazioni, il miglior attacco e la migliore chiusa della storia della letteratura. Accostate, assumevano entrambe un senso diverso, opposto rispetto all’originale, ma altrettanto sorprendente. Sì sì.

3

Staccò le nocche dalla macchina e si accarezzò il pelo, distrattamente cercando qualche pidocchio: impossibile, era stato disinfestato all’arrivo in laboratorio, come tutti. Però, che nostalgia del grooming, gli prendeva ogni tanto. Ma vuoi mettere i vantaggi: cibo in abbondanza, rifugio sicuro per la notte, cure mediche e tante attenzioni. E tutto in cambio di cosa, poi: mandare giù un po’ di analisi logica e qualche fondamento di teoria degli insiemi. Si stiracchiò sbadigliando, tutto quel parlare di scarafaggi gli aveva messo appetito. E poi si era fatto tardi, pensò dirigendosi verso il recinto esterno, probabilmente preso dal racconto non aveva sentito la campanella della cena, stasera c’erano banane verdi del Madagascar, una roba da gourmet.


Le invasioni civili

Proseguendo un discorso, o anche iniziandone uno nuovo. Il tema è quello delle immigrazioni, o invasioni: dipende dal punto di vista, non tanto del lato da cui si guarda, quanto piuttosto dell’altezza. Trattandosi poi, come nel primo caso di questa Caravan, di una formazione completamente straniera, in cui i soli elementi italici sono il luogo dove si è tenuto il concerto, e quindi il titolo del disco, e quindi l’etichetta, il discorso si semplifica – ovvero si complica. Anthony Braxton, Quartet (Mestre) 2008. Già nel plotone a stelle e strisce che viene qui a invaderci, a colonizzarci, ad americanizzarci, c’è una metafora non meno ovvia che potente; solo un po’ più sbiadita oggi che i padroni prossimi venturi si prospettano venire dalla parte opposta del globo, e chissà se un giorno non rimpiangeremo i cess-burger (la vedo dura, by the way). Parlando poi di jazz, è chiaro che sì, ormai l’abbiamo assorbito, noi della vecchia Europa, tanto che a buon diritto si parla di jazz italiano, di jazz scandinavo, anzi senza dubbio di jazz mondiale, jazz e basta; eppure, la suggestione, la memoria storica e l’inconscio collettivo corrono sempre all’infra e dopoguerra, con i localini dove the man with the horns, dismesse le divise e le marce militari, attaccavano a swingare, zum zum, e poi te credo che è nato nu criaturo è nato niro.

Ma seriamente, Braxton. Uno che ha fatto la storia del jazz, anzi la storia della musica, e che un nuovo album in sé non è neanche questo evento, avendone incisi circa un centinaio solo a proprio nome in quaranta e passa anni di carriera, cioè da quel primo 3 Compositions of New Jazz datato 1968, a cui nello stesso anno seguirà il seminale For Alto, addirittura un doppio per sax solo, forse il primo album per sassofono senza accompagnamento né sovraincisioni né altro. (Parentesi storico-critica: avete notato che i grandi geni o fanno uscire un’opera a decennio, o sono super-prolifici? Mi viene in mente Cesar Aìra, nella scrittura. Tutti gli altri, i normali, vanno avanti con una novità ogni uno/due anni, roba da travet). Ma tornando a bomba, e con maggior pertinenza stavolta, sulle invasioni più o meno pacifiche: è risaputo che certi musici anglo e soprattutto americani, di area sperimental-avanguard-art-something, abbiano maggiori apprezzamenti qui che lì, e non è la solita storia del profeta in patria. Ha a che fare piuttosto con un diverso atteggiamento degli europei continentali, più disposti a farsi affascinare da discorsi complicati, a entrare nelle pieghe di ragionamenti assurdi o sedicenti tali: insomma siamo radical chic and proud to be, me compreso, ovviamente. Anzi, ça va sans dire. Tanto che invece in Usa spesso i mescolatori come Braxton, che cita tra le sue influenze dirette Cage e Stockhausen, vengono tacciati dai puristi di non aver niente a che fare col jazz: testuale, da parte non solo di critici ma anche di colleghi, che simpatia, e in particolare del trombettista Wynton Marsalis; rilievo che insomma, detto da uno il cui orologio culturale è rimasto fermo agli anni ’50, fa un po’ ridere, anzi suona proprio come un complimento.

(Era l’incipit della mia rubrica Caravan, sul numero di luglio di Blow Up. Continua in edicola)

TAPPE PRINCIPALI

Anthony Braxton, Quartet (Mestre) 2008, Caligola

Nomadic Orchestra of the World (Nuove Tribù Zulu & Gypsies from Rajasthan), Banjara!, Materiali Sonori


Ulf Wakenius, vagabondo svedese

Ulf Wakenius, Vagabond, Act

Musica in movimento: fatta da chi si muove, per chi si muove. Ulf Wakenius è un chitarrista svedese, tra le altre cose è stato membro di una delle ultime incarnazioni del quartetto del leggendario Oscar Peterson. Wakenius ha intitolato questo suo disco Vagabond (Act), per significare il nomadismo fisico del jazzista, sempre in tour. Ma anche il nomadismo musicale che l’artista curioso con la sua chitarra acustica sperimenta. E quindi innanzitutto le cover: del collega di strumento Attila Zoller (Birds and bees), di Keith Jarrett (Encore), del tastierista del Pat Metheny group Lyle Mays (la brasileggiante Chorinho), del sassofonista nativo-americano Jim Pepper (il pezzo-manifesto Witchi Tai To), addirittura dei Police (una stralunatissima Message in a bottle). Ma soprattutto le influenze etniche più varie, e qui i titoli parlano da soli: Bretagne, Breakfast in Baghdad, Song for Japan. Un jazz quindi piacevolmente ibrido, poco virtuosistico e molto melodico. Che grazie all’accompagnamento della fisarmonica e a una ritmica presente ma delicata, è l’ideale per un allenamento soft, o per chi gradisce un sottofondo poco invasivo, o per chi – beato lui – corre in luoghi naturali e silenziosi.

(Articolo uscito sul numero di giugno del mensile sportivo Correre)


La Chiva Gantiva, i veri latino-americani

La Chiva Gantiva, Pelao, Crammed

Musica divertente e seria: fatta da chi si diverte seriamente, per chi fa sul serio divertendosi. La Chiva Gantiva è un gruppo che nasce da due colombiani a Bruxelles, che hanno dato vita a sessioni incasinate e coinvolgenti con altri musicisti: fiamminghi, vietnamiti, francesi. Cantano (in spagnolo e francese) ma soprattutto suonano saltano ballano. Pelao (Crammed) è un disco di ritmi latini, ma non quelli edulcorati della salsa a uso e consumo degli apprendisti danzatori europei: piuttosto quelli delle bande di fiati centroamericane. Ma le influenze sono molteplici, e una più esplosiva dell’altra: c’è il funky, il reggae, il rap, ci sono le chitarrelle del beat africano alla Fela Kuti, e l’handclapping, il battito di mani tribale – che poi siano tribù dei villaggi rurali, o tribù metropolitane, che importa? Insomma una specie di Manu Chao, ma ancora più corale, più grezzo, più di pancia. Ideale per un allenamento tosto, o per chi non teme di farsi distrarre dai suoni e anzi ha bisogno che lo trasportino in un mondo a parte, o infine per chi corre dove è necessario isolarsi dal rumore ambientale.

(Articolo uscito sul numero di giugno del mensile sportivo Correre)