URL nel silenzio

La vita a volte può diventare così interessante che ci dimentichiamo di avere paura.

Vi capita mai di avere dei falsi ricordi? Certo che vi capita, capita a tutti, la mente lavora in continuazione creando la realtà, e ricreando il passato. Tra tutti i falsi ricordi, ce ne sono alcuni di natura particolare, in quanto contengono degli anacronismi evidenti: sono i più rassicuranti, perché li riconosciamo subito come falsi; sono i più inquietanti, perché continuano a sembrarci veri. Io per esempio ho nella mente l’immagine vivida del passeggino di mia figlia mentre lo spingo per le strade affollate di Marrakech: ma in Marocco ci sono andato alla fine del secolo scorso, mentre lei sarebbe nata solo dieci anni dopo.

Da un po’ di tempo, poi, mi capita di avere dei falsi ricordi pandemici. (Molti, da quando tutto questo è iniziato, hanno dei sogni pandemici; ma evidentemente il virus ha esteso il suo dominio dal sogno all’immaginazione diurna.) Mi ricordo una discussione che ebbi a vent’anni o poco più in un negozio di dischi, a proposito di musica strumentale e musica elettronica, con il gestore di quello spazio angusto, lui con una mascherina nera da cui spuntava la folta barba brizzolata, io con la mia solita chirurgica spelacchiata e maleodorante. Impossibile; vero. Ma la cosa più sconcertante è che insieme ai falsi ricordi pandemici stanno venendo fuori anche dei falsi falsi ricordi pandemici: eventi realmente vissuti che la mia mente, nell’attimo in cui affiorano alla coscienza, istintivamente rubrica come falsi. Mi sembra impossibile, per dire, aver preso un volo intercontinentale, o essere stato pigiato dentro l’anello di uno stadio insieme ad altre novantamila persone (ma davvero ce n’entrano così tante in uno spazio così ristretto?). Mi sono rigirato questi pensieri in testa per settimane. Poi ho letto l’ultimo libro di Don DeLillo: Il silenzio.

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Un regalo di Natale da Shirley Jackson

Questa storia inizia con un manoscritto ritrovato, un viaggio nel tempo, un regalo da parte di un fantasma: sembra proprio un racconto di Shirley Jackson, invece è la sua vita – anzi, la nostra.

Oltre 25 anni dopo la morte della scrittrice americana, avvenuta nel 1965, dei «raccoglitori coperti di ragnatele ritrovati in un fienile del Vermont» arrivano a casa dei figli. C’è il manoscritto originale di Hill House, ma ci sono anche scritti brevi inediti: a quel punto inizia la quest degli eredi, ed è una missione di successo. Da fratelli e da altri familiari, in archivi e biblioteche pubbliche, spuntano materiali variegati come appunti e diari, ma soprattutto racconti, spesso inediti, o pubblicati solo su riviste. C’è materiale per un libro, alla raccolta segue la selezione: in America il volume è uscito con il titolo Just an Ordinary Day, da noi ci pensa Adelphi, che in La luna di miele di Mrs. Smith (traduzione di Simona Vinci) inserisce gli inediti puri, riservando al prossimo libro gli scritti presi da magazine e antologie.

Come sono questi vecchi/nuovi racconti di Shirley Jackson? I due figli e curatori, nell’introduzione, tengono a sottolineare che «non sono tutti raggelanti capolavori come La lotteria», e ci mancherebbe. Ma, forse proprio per questo mettere le mani avanti, che abbassa le aspettative, io li ho trovati meravigliosi come sempre. Leggendo, ho iniziato a lasciare dei segni in corrispondenza dei pezzi più belli, lo faccio spesso, da quando ho capito che dimentico anche i libri che amo, oltre ai manuali di diritto amministrativo, mi da l’illusione del controllo, di poter ritrovare le cose facilmente in seguito: stavolta, fatica inutile, perché arrivato a metà mi sono accorto di aver segnato come memorabile praticamente ogni racconto.

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“L’ospite”: il bestiario occulto di Amparo Dávila

Ma come abbiamo fatto a vivere finora senza Amparo Dávila? Una scrittrice formidabile, racconti brevi di potenza inaudita, che non assomigliano a niente, e dicono tutto. Da non credersi come sia arrivata a noi solo ora, dopo la fine di una vita lunga: nata in Messico nel 1928, Dávila è morta quest’anno. In patria per fortuna era già culto, anche se ha scritto pochi libri, e con parecchi anni tra un’uscita e l’altra, e ha ricevuto il meritato riconoscimento molto tardi. Ma viva la nostra ignoranza, se ci permette di avere un regalo così bello in questo 2020 che vabbè lasciamo stare. E viva Safarà, piccolo editore che dopo aver portato in Italia Alasdair Gray (Lanark, seguito di recente da 1982, Janine) e Gerald Murnane (Le pianure, e da poco Tamarisk Row), ora pubblica L’ospite e altri racconti – nella traduzione, come sempre impeccabile, di Giulia Zavagna.

Bene: ma come sono, di che parlano i racconti di Amparo Dávila? Di “insolito”, “terrore”, “quieta disperazione”, “fantastico quotidiano”, “condizione femminile”, “universale”.  Non ci si capisce niente? Vediamo allora l’area di riferimento, alcuni nomi a cui è stata accostata. Pronti, via: Edgar Allan Poe, Franz Kafka, Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, Leonora Carrington, César Aira, Shirley Jackson. Niente male, eh? La cosa pazzesca è che questi paragoni non sono iperbolici, anzi a stento rendono l’idea: immaginatevi un ottovolante che passa dall’uno all’altra di questi autori, a tutta velocità in poche righe, e ancora sarete lontani dalla verità.

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Lo spettatore è un visionario

Che cosa deve fare il pubblico? Qual è il ruolo dello spettatore rispetto all’opera d’arte? La domanda può sembrare oziosa, puramente teorica, ma lo è solo in parte. La concezione classica attribuisce al fruitore dell’opera – libro, mostra, spettacolo, film – un ruolo passivo rispetto a quello attivo del creatore: un ruolo di mera stazione ricevente.

Il pubblico legge/guarda/ascolta, e gode dell’arte, o non ne gode, a seconda delle conoscenze oggettive e delle preferenze soggettive: può anche sollevare dubbi e critiche, ma nel suo foro interiore, e comunque ex post, dopo la fruizione. Il suo spazio d’azione, la sua libertà d’iniziativa, è esplicabile tutt’al più nel futuro, quando può scegliere di andare a vedere o non andare a vedere un altro spettacolo dello stesso autore.

Eppure, anche accettando la posizione dello spettatore come semplice punto di arrivo, non si può negare che il pubblico sia una componente essenziale nell’opera d’arte, un elemento costitutivo, come direbbero i giuristi. Ci si chiede infatti che senso abbia un libro i cui caratteri non vengono decodificati da nessuno che li assembla in parole e frasi di senso compiuto; che senso abbia una pièce che viene recitata in un teatro vuoto. Ci si potrebbe chiedere, estremizzando ma non troppo, se l’opera in questione esista, proprio come ci si chiede se esiste il rumore prodotto da un albero che cade in una foresta dove non c’è nessuno.

La concezione classica è stata quindi messa in crisi in epoca moderna, sotto la spinta di motivazioni sia teoriche sia politiche, per così dire, nel senso di essere sorte in opposizione a uno status subordinato e inferiore del pubblico. Saggi come Opera aperta di Umberto Eco (1962) e La morte dell’autore di Roland Barthes (1968) suggerirono che gli aspetti volutamente incompleti o necessariamente indeterminati di un’opera stimolano la necessaria interpretazione attiva del fruitore, che assurge al rango di co-creatore. Per Barthes la morte dell’autore è propedeutica alla nascita del lettore, “luogo in cui si produce l’unità del testo”.

Oggi la carica eversiva di queste teorie è da un lato stemperata, dall’altro assimilata: non abbiamo nessun problema ad accogliere letture di opere che vanno al di là delle intenzioni dell’autore, per esempio.

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Oltre il Rinascimento psichedelico, per un mondo totalmente stupefacente

Mi ritengo sfortunato: sono cresciuto nel mezzo degli anni bui, nel pieno del medioevo psichedelico; gli anni della criminalizzazione e dell’ignoranza, quelli in cui il refrain dominante era “non esistono droghe leggere e droghe pesanti, esiste LA DROGA”, e il percorso, progressivo quanto inevitabile, iniziava con gli spinelli, saliva di livello arrampicandosi sulla scaletta di pasticche e acidi, culminava con il lancio dal trampolino della cocaina, e si concludeva con lo schianto sul fondo dell’eroina (non era così, ovviamente, ma il fatto stesso di pensarlo, di essere immersi in una società che lo pensava, molto spesso lo faceva succedere: vedi alla voce “profezia che si autoavvera”, ma anche alla scritta “fuori lo Stato dalle vene”).

Mi ritengo fortunato: nel pieno degli anni bui, ho avuto una luce, una guida, un maestro. Era un ragazzo come me, diciotto anni appena fatti, ma con l’esperienza (poca) e l’intelligenza (tanta) di mettere in atto dei set e dei setting perfetti per i miei primi viaggi. Vivevamo nel medioevo, e lo sapevamo, perciò guardavamo all’epoca classica, e pre-classica: ascoltavamo i Doors, i Soft Machine, e Gesualdo da Venosa, leggevamo Huxley, Castaneda, e Baudelaire. Di giorno – nelle occupazioni, nei centri sociali, nei raduni no global – combattevamo “il sistema”, sognavamo di costruire un mondo migliore, più giusto, più vero; di notte – nei viaggi, nella musica, nelle parole e nei silenzi – cercavamo di andare oltre la realtà quotidiana, di trascendere le apparenze, di scorgere una versione migliore – di noi stessi e del tutto – più giusta, più vera. E in queste due cose non vedevamo alcuna contraddizione, anzi: il massimo della coerenza, anzi: la stessa cosa. (Ora so che non avevamo ragione: avevamo ragionissima.) Poi, si sa come succede, ci siamo persi di vista; ma non ci siamo persi d’animo, né di cuore: siamo sempre fratelli. Poi, quella strada l’abbiamo abbandonata, ma quella strada esiste ancora, quella strada arriva fino a oggi.

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Riscatti: l’unico modo per ricordare il passato è inventarlo

Nella vecchia dimora di paese dove sto scrivendo questo articolo c’è un salone. Nel salone c’è un pianoforte a coda. Sul pianoforte c’è un album di famiglia. Dentro l’album ci sono decine di fotografie: sono tutte ritratti o foto di gruppo, tutte in posa, tutte in bianco e nero; in maggior parte di persone morte, nella quasi totalità di persone per me sconosciute, o irriconoscibili, che è lo stesso.

Il paese, è quello di mio padre: il nome ora non importa, il luogo neanche, basti sapere che è a sud di Eboli, e questo ancora oggi dice qualcosa, dice tutto. Il salone, come tutta la casa, è stato ristrutturato solo pochi decenni fa. Del pianoforte, mi piacerebbe affermare che ha conosciuto giorni migliori, ma è talmente scordato e scassato che fatico molto a credere abbia mai suonato una nota giusta; eppure papà mi raccontava di grandi feste danzanti nel salone di sopra, prima che la casa venisse divisa: che uno poi s’immagina, come io m’immaginavo da piccolo, lussuosi balli e decadenti, stile quello del Gattopardonella magione del principe di Salina, invece la nobiltà locale era sostanziata da chiunque possedesse un pezzo di terra appena più ampio di un orto, e protagonisti della post bellica movida dobbiamo figurarci il figlio del segretario comunale, il figlio del farmacista, il figlio del prete (avete letto bene), quello del notaio no, qui non c’era, stava nel paese a fianco.

Su tale mobile, non spicca l’album, anzi si mimetizza con la sua copertina color legno decrepito, si confonde in mezzo a più appariscenti suppellettili antiche, scompare tra gli artefatti in plastica dalle tinte vivaci acquistati e subito abbandonati dai miei figli piccoli. È liso e sformato, con le pagine di carta spessa, legate con lo spago. Molte foto non sono più attaccate ai supporti, altre non sono mai state, e stanno da sempre infilate in mezzo, alla rinfusa, gonfiando all’inverosimile il raccoglitore ormai stremato. Non importa: l’album fotografico della nostra famiglia costituisce comunque una delle maggiori attrazioni e per gli abitanti e per i visitatori della casa. Il gioco implicito consiste nel riconoscere i soggetti (“Uh guarda com’era carina la zia da giovane, quanto avrà avuto, vent’anni?”), ché la maggior parte delle immagini non riporta nulla se non una data, e a volte neanche quella: proprio quest’anno ho notato un particolare che mi era sempre sfuggito, l’usanza che una volta si aveva – in tempi in cui una fotografia era cosa dispendiosa e rara – di farsi fare un ritratto e regalarlo a una persona cara, vergando sul retro una dedica (“Alla carissima nonna Peppina, il piccolo Flavio”). Il gioco consiste nel riconoscere le persone, ma è un gioco sempre più a perdere: tra parenti emigrati in America, bisavoli mai visti neanche sulla lapide al camposanto, compari e conoscenti un tempo così intrinseci da non risultare fuori luogo in una foto di famiglia ma ora perduti nel tempo.

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È arrivata la fine del mondo (e finalmente so cosa mettermi)

Allora, ‘sta fine del mondo arriva o no? Secondo i soliti catastrofisti sta per arrivare, sta sempre per arrivare. Secondo una visione più politica, per così dire, la fine del mondo, o meglio la fine del mondo as we know it, della realtà che conosciamo, è già avvenuta e non ce ne siamo accorti: o forse solo adesso incominciamo ad accorgercene, con la pandemia e i suoi effetti globali e quotidiani, con il riscaldamento globale sempre più tangibile. Secondo altri, ed è l’ipotesi più accreditata in ambito scientifico, l’apocalisse non appartiene né al passato né al futuro, bensì al presente: ci siamo in mezzo, è l’acqua in cui nuotiamo. 

Solo che sta succedendo talmente al ralenti che non ce ne capacitiamo: l’estinzione delle specie viventi, che si sta verificando a un ritmo dieci, cento volte più rapido rispetto alla media, e che quindi corre a una velocità pazzesca per i tempi geologici, tanto da farci parlare di sesta estinzione di massa, è però, rispetto al punto di vista di una vita umana – letteralmente un punto su una retta infinita – talmente lenta da essere impercettibile. Come dice Massimo Sandal in La malinconia del mammut (il Saggiatore) non è che uno si sveglia una mattina, si affaccia alla finestra e dice toh, un’estinzione di massa.

Scriveva Kermode, di cui il Saggiatore ha da poco ripubblicato Il senso della fine, che proprio da questa certezza continuamente disattesa – dal fatto cioè che l’apocalisse è sempre percepita come prossima e mai si verifica – nascono i miti, e poi le religioni, e poi la narrativa. La fine del mondo da imminente diventa immanente, in progress, un po’ come l’impero romano di Ermanno Cavazzoni, che sono duemila anni che sta crollando: la sensazione di essere alla fine dei tempi come condizione di vita, the new normal

Nell’indecisione tra passato, presente e futuro, per non offendere nessuno la casa editrice effequ se n’esce con un libro assurdo, un libro che è tre libri, firmati da tre autori: Trilogia della catastrofe, per l’appunto. Questo piccolo editore fiorentino, un pezzettino alla volta – tra un’analisi linguistica femminista e un’incursione nella theory fiction, tra un viaggio nei tarocchi e uno nell’incubo digitale – sta contribuendo a costruire un nuovo modo di fare cultura in Italia: competente e vivace, militante e bizzarro. Trilogia della catastrofe, in un catalogo giovane ma che ha già le sue belle punte di originalità, è sicuramente la scommessa più azzardata. Ma vinta.

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Distopie domestiche

oval e pechino pieghevole

Che cosa viene dopo la gentrification? In questo momento, mi rendo conto, non sarà la domanda più urgente, però io a volte me la pongo. Perché la sequenza è nota: quartiere residenziale – svuotamento – degrado – criminalità – affitti bassi – studenti e artisti – fermento culturale – hype – concept bar bio – gentrification. Lo abbiamo visto succedere tante volte sotto i nostri occhi, a volte sulla nostra pelle, che lo sappiamo a memoria. Ma poi, cosa succede poi? Una soluzione potrebbe essere: si ricomincia da capo. D’altra parte, il punto iniziale dello schema assomiglia molto al punto finale. Ma quello che visto in 2D sembra un cerchio, in realtà è una spirale, come insegnano i moderni interpreti dei corsi e ricorsi storici (è una delle tante idee brillanti contenute nell’intramontabile Il mattino dei maghi di Pauwels e Bergier). Insomma quando la storia si ripete, lo fa a un livello più alto – non ho detto migliore: sembra girare su sé stessa, ma contemporaneamente avanza – non ho detto progredisce.

Sembra avallare questa ipotesi un romanzo uscito di recente: si chiama Oval (Zona 42, traduzione di Chiara Reali) ed è l’esordio narrativo di Elvia Wilk, scrittrice che si occupa di arte, architettura e tecnologia, e dell’incrocio tra esse. La questione della casa è centrale nella storia, in cui una giovane coppia di Berlino partecipa a un esperimento abitativo diretto dall’alto: nella zona dell’ex aeroporto di Tempelhof è stata eretta una montagna artificiale, la Berg, e in cima ad essa costruite delle case che sono dei gioiellini di alta tecnologia e pensiero sostenibile. Ambiente bucolico, energia pulita, riciclo, compostaggio: è un ritorno all’antico ma condotto con i più avanzati mezzi della domotica. Le case sembrano intelligenti – sono in grado ad esempio di regolare autonomamente la temperatura interna, e gli umani non possono disinserire il pilota automatico. Un paradiso algoritmico immerso nella natura, una specie di comune hipster dove però gli scambi tra abitanti non sono affatto incoraggiati, la condivisione è vietata e l’informazione circola solo in verticale, non in orizzontale. 

Le case, abbiamo visto, sembrano intelligenti, ma non è corretto, diciamo che sembrano vive: hanno comportamenti che non sono dettati da motivazioni totalmente razionali, reagiscono piuttosto come esseri sensibili e un po’ dispettosi, rendendo certe stanze caldissime e con un’umidità da sauna, o rifiutandosi di processare i rifiuti o di far funzionare i tubi – secondo un sistema di premi e sanzioni che non è chiaro agli stessi abitanti. Un sogno che lentamente diventa incubo, una scalinata verso il paradiso che si tramuta in un girone infernale: la montagna produce fango, marciume e muffe, le strade non sono mai state completate, i tassisti si rifiutano di salirvi costringendo i giovani residenti a scarpinate assurde. Sembra tutto plausibile nel romanzo di Elvia Wilk; e naturalmente è tutto falso – ma fino a quando?

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Da Zero, il Cilento sulla pizza

Quando all’inizio del 2019 ho saputo che mi stava per aprire una pizzeria sotto casa – al posto del fine dining dello chef Nicola Di Tarsia, Berbel, ottimo posto, ma non di uso quotidiano, come dire – sono stato contento. Quando ho iniziato a vedere, sbirciando a lavori in corso, che si parlava di pizza cilentana, il mio entusiasmo è scemato di molto.

Intendiamoci: io sono mezzo cilentano. Sono nato e cresciuto a Napoli, ma mio padre era di un paesino del Cilento, dove io ho passato praticamente tutte le estati della mia vita da quando avevo tre mesi: per me è casa, oltre che pezzo di cuore. E come di casa mia, ne so a memoria lo splendore e i lati oscuri. Specchio fedele, as usual, la gastronomia e la cucina: la mozzarella di bufala della piana di Paestum, del Cilento è solo il biglietto da visita, la porta d’ingresso – da un punto di vista geografico come di fama.

Il Cilento a tavola è una serie di miti: la dieta mediterranea, i centenari pescatori di Pollica, Ancel Keys, la superiorità dell’olio d’oliva, poca carne e molte verdure. Ma per me, ancora prima, è una cosmogonia, quei ricordi d’infanzia che saranno i pilastri del mondo a venire: i fusilli cavati con antichissimi ferretti da mia zia, il vino fatto in casa torbido e asperrimo (ma solo perché non sapevamo chiamarlo “vino naturale”), i fichi colti da uno dei pochi alberi che ancora riescono a farsi spazio tra i rovi, riempirsi le mani di spine per un cestino di more, le nocciole a fine agosto e le castagne a novembre quando tornavamo per i morti, le reti sotto gli ulivi e le capre ovunque. E le sagre, le soppressate durissime, il pane biscotto (che non è una fresella), i fiorilli regalati a quintali. Ma anche i ricordi di ricordi, tratti dai racconti di mio padre e degli altri vecchi: di lievito madre anzi pasta di riporto (crìscito, o llevàto) passato di massaia in massaia, del puorco macellato in fretta nei giorni più freddi dell’anno, di una terra avara che ti restituisce poco più di quello che semini, della guerra, della fame – soprattutto della fame.

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Possiamo salvare il mondo, a cena

C’è quel meme degli squali, non so se avete presente, potrebbe sembrare un meme benaltrista ma invece no, è catastrofista: non dice infatti che ben altro è il problema, ma che per ogni problema terrificante ce n’è uno ancora più orribile. La sua versione “ai tempi del coronavirus” – virgolette ammiccanti per far capire che la frase fatta non ci piace – è questa:

Covid-19 < Crisi economica < riscaldamento globale. A pensarci bene poi, fuori dall’inquadratura ci starebbe un altro squalo, ancora più grande. Come definirlo? Sovrappopolamento fa troppo Malthus, anche se in sostanza di quello si tratta: ma arrivati alle soglie degli otto miliardi, situazione attuale, e proiettati verso i 10 – secondo alcune stime addirittura entro il decennio – il discorso dell’affollamento umano sul pianeta si articola su più dimensioni.

C’è l’aspetto alimentare, quello di cui si preoccupava appunto il malthusianesimo classico, ovvero: ce la farà l’orto della Terra a sfamare tutta ‘sta gente? E poi c’è il movimento contrario, e cioè: ce la farà tutta ‘sta gente che mangia a non distruggere la Terra? I due discorsi sono intrecciati, naturalmente. E le due facce della medaglia, sovrappopolamento/sfruttamento, sono poi collegate agli altri squali: il collasso climatico, la crisi economica, le stesse zoonosi come il coronavirus; tanto che dovremmo parlare, più che di squalo ulteriore, di un meta-squalo.

Da questi dati di fatto prende le mosse Agnese Codignola per parlare di quello che mangeremo nel futuro, ed è un futuro prossimo: Il destino del cibo (Feltrinelli) è un libro che contiene una impressionante mole di dati, che stimola incessanti riflessioni, che trasporta in un viaggio alla scoperta di incredibili – ma tutt’altro che improbabili – invenzioni in campo alimentare. Agnese Codignola, ricercatrice e poi giornalista scientifica, è un po’ la nostra Michael Pollan; anche se il leggendario food writer americano è partito con dei bellissimi libri sul cibo (Il dilemma dell’onnivoro, Cotto) per poi approdare agli psichedelici (Come cambiare la tua mente), mentre Codignola ha fatto il percorso inverso, passando dalla monumentale ricerca sull’acido lisergico (LSD è del 2018) a questo. Secondo Jonathan Safran Foer Possiamo salvare il mondo, prima di cena; secondo Codignola possiamo salvare il mondo, a cena.

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