L’internet di domani digitalizzerà anche l’essere umano

L’Internet of Things la conosciamo: è la possibilità, grazie a una potenza tecnologica sempre crescente, di creare una rete di dispositivi in grado di comunicare con noi e soprattutto tra di loro. Dal frigorifero che ordina la spesa da solo all’automobile autonoma che si ferma a fare rifornimento, la IoT ha aperto un mondo di possibilità che sono ancora tutte da esplorare e che vedremo svilupparsi appieno nei prossimi anni. La relativa novità della IoT non ha però impedito che un’evoluzione successiva iniziasse già ad affacciarsi: la Internet of Skills (internet delle abilità). Di che si tratta? In sostanza, è la capacità della rete di trasmettere in tempo reale non più solo audio e video, ma anche il tocco e il movimento. L’esempio classico è quello del chirurgo che muove la mano in un guanto sensoriale, manovrando una protesi meccanica che opera un paziente dall’altra parte del mondo.

Non saremo ancora arrivati al teletrasporto, ma da un certo punto di vista il risultato è simile: mettere in rete non solo le informazioni (con il web) e gli oggetti (con la IoT), ma anche le persone. Per orientarci in questo nuovissimo ambiente, abbiamo parlato con uno dei pionieri della materia: Mischa Dohler, titolare della cattedra in Wireless Communications al King’s College di Londra. Dohler è autore di studi nei campi della banda larga, dell’Internet of Things e della cybersicurezza, e ora sta lavorando allo sviluppo dell’Internet of Skills.

L’aspetto fondamentale è proprio quello della velocità di banda. Ogni generazione di trasmissione dati ha infatti compiuto un salto qualitativo: il 3G ha portato internet sui telefoni, il 4G ha permesso di collegare anche gli oggetti e il 5G porterà online le persone. “In effetti”, conferma Dohler, “a ogni generazione la potenza si moltiplica per 10: se il 4G forniva in media 10 Mbps per utente, il 5G ci farà navigare come minimo a 100 Mbps. Ciò permetterà di minimizzare l’impatto di un parametro molto importante: la latenza, cioè il tempo necessario affinché due dispositivi entrino in connessione tra di loro. Se con il 4G eravamo nel range di 50 millisecondi, il 5G ci porta a 1 ms. La differenza non è poi così importante se dobbiamo limitarci a caricare una pagina web, ma diventa invece cruciale nelle applicazioni industriali dell’Internet of Skills, che richiedono una latenza sotto i 10 ms”.

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Perché abbiamo smesso di mangiare sangue

Ho bevuto sangue caldo. Accadde quando ero prossimo a compiere nove anni: un adulto mi porse una coppa con il denso liquido misto a spezie e aromi inebrianti. Fu ne corso di un rito dalle origini arcaiche e oscure, per il quale a tutti i bambini, e solo ai bambini, venivano fatte indossare delle maschere. In pratica era una festa di Carnevale delle elementari. Quando il sanguinaccio era ancora legale.

Ecco, un’altra frattura tra generazione X e millennial: a quelli della mia età sarà probabilmente capitato di assaggiare il sanguinaccio vero, fatto con il sangue di maiale. Già all’epoca era una rarità, intendiamoci, non è che negli anni 80 il sangue scorresse a fiumi nelle cucine di ogni casa: il sanguinaccio comme il faut era affettuosamente considerato come una di quelle ricette delle nonne, che non si fanno quasi più perché troppo lunghe o con ingredienti troppo difficili da trovare, come una zuppa di cicerchie o una pasta frolla fatta con la sugna al posto del burro. Una di quelle cose che nelle occasioni speciali, semel in anno, potevano tornare a galla.

Di quella esperienza ricordo poco: no non è vero ricordo tutto, ricordo che ne volli ancora, ricordo (con un senso di colpa che voglio espiare ora, non omettendo nulla) di non aver mai provato niente di simile se non qualche anno dopo quando mangiai delle quaglie appena prese, ricordo una esplosione di sapori indescrivibile. Ma forse era solo il fascino avvolgente del cioccolato caldo, ero pur sempre un bambino. O forse era l’animale che mi porto dentro.

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Amelia Gray è la scrittrice che dovresti conoscere ora

Nella short story americana c’è un filone minore, eppure persistente. Il mainstream, si sa, è realista, dall’asciuttezza di Hemingway al minimalismo di Carver. Chi batte altre strade lo fa non solo e non tanto sperimentando con lo stile, ma soprattutto allargando lo sguardo al fantastico, alla fantascienza, e a qualcosa di più sottile e indefinibile, il “dark side”.

Filone minore poi, si fa per dire: dato che il capostipite è E.A. Poe, e nei ranghi sono da annoverare penne distanti come Shirley Jackson e George Saunders. Ultime rappresentanti, due giovani donne: Rita Bullwinkel (Lingua Nera, edizioni Black Coffee, 2019) e soprattutto Amelia Gray.

Autrice di decine di racconti sparsi sulle riviste più prestigiose e oscure, ha pubblicato tre raccolte di storie brevi e due romanzi (per la blasonata Farrar, Straus and Giroux), è stata finalista del PEN/Faulkner Award for Fiction, è richiesta sceneggiatrice di serie TV. Il suo esordio risale a più di dieci anni fa ma in Italia arriva solo adesso, con la raccolta Viscere (traduzione di Stefano Pirone), grazie alla piccola Pidgin Edizioni. Meglio tardi che mai, per conoscere una voce perfetta per questi tempi angosciati e perplessi.

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Aldo Buzzi, food blogger

Quella di Aldo Buzzi è una figura anomala nel mondo della cultura italiana. Questo comasco di nascita, milanese d’adozione e giramondo per passione, poliglotta e uomo di multiforme ingegno, ha avuto una vita lunghissima (1910-2009) durante la quale ha scritto pochissimi libri, oggetto di un culto carbonaro. In un ambiente culturale in cui chiunque abbia pubblicato un romanzetto si sente Proust, Buzzi si macchia dell’imperdonabile peccato di modestia. Defilato, non sgomita, preferisce che abbiano ragione gli altri: potrebbe fare di tutto, e lo fa, ma sempre con understatement, con un mezzo sorriso scettico. Architetto, esercita anche per qualche anno la professione. Editor, lavora alla Rizzoli dove diventa redattore capo, ma senza clamori, senza attribuirsi successi altrui. Regista e scenografo, collabora con Alberto Lattuada ed è amico di Fellini e Flaiano, ma si trova suo agio solo nel ruolo del secondo (e infatti il suo primo libro s’intitola Taccuino dell’aiuto-regista).

Infine, ma soprattutto, scrittore, rifugge la retorica, la struttura impegnativa, l’opera-mondo. E abbraccia la poetica del frammento: taccuini, viaggi, lettere, e ricette, naturalmente ricette. Perché se Buzzi è un minimo famoso, lo deve ai suoi scritti sul cibo: quelli che compongono L’uovo alla kok, certo, ma anche tutta una serie di momenti sparsi che intersecano la sua opera. Dalle considerazioni di viaggio ai giudizi sui grandi scrittori che hanno parlato di cibo. Buzzi ha lo sguardo del food lover, non del gastrofighetto ma di quello che ha avuto la felice intuizione del cibo come lente attraverso cui guardare, e capire, tutto il resto. L’uscita del volume che raccoglie Tutte le opere (per La nave di Teseo, a cura di Gabriele Gimmelli) è l’occasione per scoprirlo/rileggerlo, e ammettere un semplice fatto: Aldo Buzzi ha inventato il food blogging.

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