Humanewashing is the new dishwashing
Pubblicato: 9 febbraio 2021 Archiviato in: Articoli | Tags: animali, dai giornali, Dissapore, food, humanewashing Lascia un commentoMucche felici, galline che razzolano all’aperto, conigli che corrono nei prati. Sono immagini, e frasi, che ricorrono con insistenza, nelle pubblicità e sulle confezioni di carne e altri prodotti animali. Perché il consumatore è sempre più sensibile al benessere delle bestie allevate, e anche se di leggi non ce ne sono, o sono vaghe, le imprese si danno da fare. Ma è tutto vero quello che dichiarano o che, più sottilmente, ci inducono a pensare? Secondo molte associazioni che tutelano gli animali, nella maggior parte dei casi si tratta di puro marketing, al limite del comportamento ingannevole nei confronti del consumatore. Tanto che da qualche anno è stato coniato, sulla scorta di greenwashing, un nuovo termine: humanewashing.
Che il consumo di carne attuale e gli allevamenti industriali così come strutturati oggi siano insostenibili, ormai lo sa anche il più accanito dei carnivori. Per l’ambiente, per la salute di chi mangia e, last but not least, per gli animali. Le soluzioni sul piatto sono molteplici, e non alternative ma concorrenti: consumare meno carne, anche se non diventeremo tutti vegetariani; implementare le alternative hi tech, come la finta carne vegetale o la carne coltivata in laboratorio; cambiare il sistema degli allevamenti, dando più peso ai piccoli produttori “etici” e spingendo quelli grandi ad adottare comportamenti virtuosi. E i grandi non si fanno pregare: solo che, ovviamente, intervenire sulla narrazione piuttosto che sulla sostanza è più facile, rapido ed economico. Ecco nascere lo humanewashing: il greenwashing è un ambientalismo di facciata, consistente nell’adottare superficiali misure “verdi” e nel far credere di aver abbandonato le pratiche maggiormente inquinanti. Lo humanewashing consiste nel fare affermazioni fuorvianti, esagerate o semplicemente false a proposito del trattamento “umano” degli animali, e delle condizioni in cui nascono, vivono e vengono uccisi.
Tipicamente si traduce in espressioni tanto suggestive quanto vaghe: “naturale”, “responsabile”, “locale”, “piccolo”, “felice” e in ancora più ingannevoli e generiche immagini associate, colline e contadini, colori pastello con prevalenza di verde e linee morbide; tutto, è chiaro, all’insegna del “come una volta”.
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Cuscus: il primo animale addomesticato dall’uomo
Pubblicato: 29 novembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: cuscus, dai giornali, Dissapore, food Lascia un commentoQual è stato il primo animale addomesticato dall’uomo? Sono i dubbi che non ti fanno dormire la notte, lo so, soprattutto di questi tempi. E lo so, i più smart tra voi hanno già pensato: ma che domande, ovviamente il cane. Già, il cane, o meglio ancora il lupo, o per essere più precisi l’antenato comune – e ora estinto – del cane e del lupo. I quali infatti sono cugini, anzi fratelli, perché geneticamente uguali, anche se guardando un carlino non si direbbe. Quindici, ventimila anni fa, o prima ancora: canidi affamati e gregari si saranno avvicinati sempre più a un gruppo di umani attorno al fuoco, ma senza aggredirli, ricavandone qualche boccone di scarto e offrendo poi in cambio un decisivo aiuto nella caccia, e forse negli scontri con altri gruppi.
Ma stiamo andando fuori strada. Allora, riformulo: qual è stato il primo animale addomesticato dall’uomo a scopi alimentari? Direttamente alimentari, s’intende: per mangiarne le carni, berne il latte. La capra, la pecora, poi il maiale; solo dopo verranno mucche e galline – le api sono un caso a parte. Questo è quello che si sa, quello che tutti abbiamo creduto finora. Ma la storia potrebbe essere diversa.
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Come la pizza ha salvato la ristorazione in USA (e perché in Italia no)
Pubblicato: 25 novembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Dissapore, food, pizza Lascia un commentoQualche giorno fa sono passato a prendere da asporto nella pizzeria che ho sotto casa (e che è anche una delle migliori pizze di Torino se non d’Italia: fatto incredibile e assolutamente fortuito per il quale non smetterò mai di fare offerte alla dea degli impasti). Il locale era ovviamente deserto, mentre fuori clienti e rider in attesa formavano una piccola folla – si può definire così un gruppo di persone numerose ma rispettose delle distanze di sicurezza? Che cavolo di domande siamo costretti a farci, di questi tempi.
Quando sono entrato 30 secondi per pagare, ho osservato due cose che avevo già notato le altre volte, dall’inizio della seconda ondata, ma che non smettono di sorprendermi: il silenzio surreale, per cui si sentono anche i sussurri dei pizzaioli dall’altro lato della sala, un po’ come si sentono i sospiri dei calciatori nelle partite con gli stadi vuoti; e i cartoni. Dietro al bancone della pizzeria, sui tavoli tristemente sgombri, sugli sgabelli come sulle mensole più alte: decine, centinaia di cartoni già montati e impilati, pronti ad accogliere i dischi fumanti. “Beh”, ho detto al gestore che mi prendeva l’ordine, “buon segno no? Vuol dire che nonostante tutto si lavora”. Mi ha fissato con uno sguardo in cui si mescolavano la stanchezza fisica, la preoccupazione economica e l’affanno psicologico, o almeno questo è quello che mi è sembrato di vederci, dato che lui continuava a esitare in cerca di parole prive di bestemmie, e a quel punto io mi sarei volentieri rimangiato le mie.
Il giorno dopo ho letto questo articolo, A nation turns to pizza. Introdotto dalla foto di una pizza orribile – ma non ci fermiamo alle apparenze, so’ americani – il pezzo parla di come questo cibo negli USA sia diventato il piatto nazionale, e abbia rafforzato la sua leadership durante le crisi: già nella recessione economica del 2008, e ancora di più in questo casino di pandemia. In America la pizza sta salvando il settore della ristorazione, un settore in depressione nerissima, o almeno il suo proprio comparto.
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La guerra dei dazi: aerei che non volano più e prezzo del cibo
Pubblicato: 12 novembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, dazi, Dissapore, food Lascia un commentoVe la ricordate la guerra dei dazi? Era poco più di un anno fa, i bei tempi a.C. (avanti Covid), quando il nostro maggiore problema era che al super non si trovavano i Nutella biscuits. O che gli USA potessero tassare olio, vino e pasta, tagliando le gambe alle esportazioni del Made in Italy più prestigioso insieme al fashion: il food. Fu allarme, fu panico, furono titoloni: Trump (ve lo ricordate, Trump?) affossa il cibo italiano, l’America rinuncia al pomodoro e condirà le pizze solo con l’ananas, e amenità simili. Di fatto i dazi furono applicati più che altro a formaggi, Parmigiano Reggiano in testa, e latticini vari; ma soprattutto colpirono forse più la Francia e il Regno Unito (all’epoca ancora nell’UE: ve lo ricordate?) che l’Italia. Un bel danno comunque: carichi fino al 25%, conseguente crollo delle esportazioni e perdite per milioni di euro.
Ah ma l’Europa non perdona, l’Europa non dimentica: ha preparato la sua vendetta per dodici lunghi mesi, e ora la serve in tavola, freddissima. Ritorsioni, contro-dazi: su ketchup, cheddar, noccioline e patate dolci made in USA, per restare al food, e poi anche sui videogiochi. Peccato che nel frattempo sia successo un po’ di tutto: da una piccola pandemia a un’altra roba da niente come il cambio della guardia alla Casa Bianca. Insomma, non solo un riflesso da bradipi nel rispondere colpo su colpo, ma anche la scelta di un momento che non poteva essere politicamente meno opportuno, per il muro contro muro. Infatti sono arrivate le proteste delle associazioni di categoria, giustamente preoccupate per l’escalation. Coldiretti per bocca del suo presidente Ettore Prandini ha detto che con Joe Biden “ci sono le condizioni per superare i dazi aggiuntivi Usa che colpiscono le esportazioni agroalimentari Made in Italy per un valore di circa mezzo miliardo di euro”. E la Cia – gli Agricoltori Italiani, non l’intelligence americana – con Dino Scanavino: “I 4 miliardi di dazi Ue sulle merci Usa non rappresentano una compensazione per i nostri produttori agricoli, sono solo il prolungamento di una lunga battaglia commerciale che noi auspichiamo possa terminare prima possibile con la nuova amministrazione Biden”.
Sembra tutto leggermente assurdo, in effetti, ma non è così: è peggio. Perché in realtà le cose non stanno proprio come sembra: tecnicamente non si può parlare né di compensazione né di ritorsione, e la questione è un po’ più complessa, oltre che annosa. Ma se proprio ci tenete, tappiamoci il naso e facciamo questa immersione, tuffiamoci negli abissi della geopolitica economica e del diritto commerciale internazionale: temi meno appetibili di una pastina in bianco, perciò non vi prometto che sarà divertente, ma senz’altro getterà luce sui paradossi di una burocrazia capace di prevalere sulla politica, oltre che sul buon senso.
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La PAC dell’Unione europea è un pacco per il clima
Pubblicato: 5 novembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Dissapore, food, PAC, riscaldamento globale Lascia un commentoIl futuro del pianeta si decide a tavola, si sa. O meglio, nei campi e nelle officine dove si produce quello che ci arriva a tavola. Riscaldamento climatico e filiera agroalimentare sono talmente connessi che anche solo elencare i punti d’intersezione – dal metano che emettono le mucche alla deforestazione dell’Amazzonia per fare spazio ai campi di soia – prenderebbe ben più di un articolo. Il destino del cibo è di salvare il mondo, nientedimeno, barcamenandosi tra due obiettivi in apparenza contrastanti: porre un freno al global warming, e nutrire 10 miliardi di persone (di come si potrebbe fare, degli alimenti del futuro parla Agnese Codignola in un bel libro che si chiama appunto Il destino del cibo). Insomma, come dice Safran Foer Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Ma non è solo diventando vegetariani uno alla volta che lo faremo: la questione è anche, e soprattutto, politica. Come sempre.
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Halloween, quell’americanata di origini campane
Pubblicato: 19 ottobre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Dissapore, food, halloween Lascia un commentoStavolta, lo ammetto, devo essere grato al Presidente della Campania Vincenzo De Luca. Perché quando ha annunciato che imporrà la chiusura dei locali alle 22 nelle ultime settimane di ottobre, scagliandosi contro Halloween, ha definito questa festa “un’idiozia”, un “monumento all’imbecillità”, ma soprattutto ha usato una parola-madaleine: “americanata”. Che bello, erano 35 anni che non la sentivo pronunciare senza layer ironici. Improvvisamente ho di nuovo il grembiule blu delle elementari, c’è ancora l’URSS anche se non rappresenta più una valida alternativa, esce un film di Rocky ogni 3 anni e McDonald’s si appresta a invadere l’Italia.
Ora, tu vedi un poco il destino com’è beffardo: chi l’avrebbe mai detto che nel 2020 sarei finito a difendere Halloween, cioè una roba che quando ero piccolo io si usava più o meno come si usa mangiare il tacchino al Thanksgiving. Già l’anno passato, su questo stesso sito, mi era capitato di ricordare come usanze simili al “dolcetto o scherzetto” fossero presenti in molte zone d’Italia già dal Medioevo. Mi appoggiavo a Carlo Ginzburg e ai suoi scritti sui beneandanti, figure della tradizione mitteleuropea che si diffusero fino al nostro nord-est.
Ma che ne direste se addirittura trovassimo delle simil Halloween, con tanto di zucche e lucine, addirittura nel sud Italia, nientedimeno che in Campania? Ecco quanto scrive l’antropologo Marino Niola, in un articolo del 2005 poi ripreso nel libro Si fa presto a dire cotto (Il Mulino):
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Da Zero, il Cilento sulla pizza
Pubblicato: 6 giugno 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: da zero, Dissapore, food, pizzerie, recensioni Lascia un commentoQuando all’inizio del 2019 ho saputo che mi stava per aprire una pizzeria sotto casa – al posto del fine dining dello chef Nicola Di Tarsia, Berbel, ottimo posto, ma non di uso quotidiano, come dire – sono stato contento. Quando ho iniziato a vedere, sbirciando a lavori in corso, che si parlava di pizza cilentana, il mio entusiasmo è scemato di molto.
Intendiamoci: io sono mezzo cilentano. Sono nato e cresciuto a Napoli, ma mio padre era di un paesino del Cilento, dove io ho passato praticamente tutte le estati della mia vita da quando avevo tre mesi: per me è casa, oltre che pezzo di cuore. E come di casa mia, ne so a memoria lo splendore e i lati oscuri. Specchio fedele, as usual, la gastronomia e la cucina: la mozzarella di bufala della piana di Paestum, del Cilento è solo il biglietto da visita, la porta d’ingresso – da un punto di vista geografico come di fama.
Il Cilento a tavola è una serie di miti: la dieta mediterranea, i centenari pescatori di Pollica, Ancel Keys, la superiorità dell’olio d’oliva, poca carne e molte verdure. Ma per me, ancora prima, è una cosmogonia, quei ricordi d’infanzia che saranno i pilastri del mondo a venire: i fusilli cavati con antichissimi ferretti da mia zia, il vino fatto in casa torbido e asperrimo (ma solo perché non sapevamo chiamarlo “vino naturale”), i fichi colti da uno dei pochi alberi che ancora riescono a farsi spazio tra i rovi, riempirsi le mani di spine per un cestino di more, le nocciole a fine agosto e le castagne a novembre quando tornavamo per i morti, le reti sotto gli ulivi e le capre ovunque. E le sagre, le soppressate durissime, il pane biscotto (che non è una fresella), i fiorilli regalati a quintali. Ma anche i ricordi di ricordi, tratti dai racconti di mio padre e degli altri vecchi: di lievito madre anzi pasta di riporto (crìscito, o llevàto) passato di massaia in massaia, del puorco macellato in fretta nei giorni più freddi dell’anno, di una terra avara che ti restituisce poco più di quello che semini, della guerra, della fame – soprattutto della fame.
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La verità sul lievito di birra
Pubblicato: 20 aprile 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Dissapore, food, lievito di birra, pasta madre Lascia un commentoIl lievito di birra ci sta ghostando? Fa l’offeso? Si prende la sua rivincita, dopo che per anni abbiamo associato la parola “naturale” al cugino lievito madre. Lo abbiamo trattato male, come si considera il prodottaccio industriale: ora che tutti lo vogliono, per panificare occupando il tempo come dei disperati, in tempi di Coronavirus, lui non si fa più trovare.
In verità sta succedendo una cosa assolutamente normale, ma che non credevamo possibile rispetto a quei cubetti puzzolenti: la domanda è talmente superiore all’offerta, che invece di far schizzare i prezzi in alto, ha provocato la carestia. Chi se lo immaginava, che la curva del lievito di birra fosse così anelastica? Certo per un prodotto naturale riusciamo a figurarcelo: se un campo di grano produce tot tonnellate, non gliene si può chiedere di più. Ma una roba chimica, industriale, fatta in laboratorio? Ecco, è proprio questo il punto: l’equivoco ruota attorno al concetto di “naturale” vs “artificiale”.
Saccharomyces alla riscossa, l’ ingrediente bistrattato si prende una rivincita contro il contendente nobile, negli ultimi anni oggetti di un culto irrefrenabile: il lievito madre. Di questo tema, l’assurdo razzismo contro il cubetto compresso, ci siamo già occupati, spiegando come, tecnicamente, non sia razionale considerare la pasta madre migliore per pane e pizza.
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Le fasi del cibo in quarantena spiegate con la Trilogia dell’Area X
Pubblicato: 29 marzo 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: coronavirus, dai giornali, Dissapore, food, Jeff VanderMeer, libri, quarantena, trilogia dell'area x Lascia un commentoVoi che siete gente studiata le conoscete meglio di me, le cinque fasi di elaborazione del lutto. Identificate dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross, fondatrice della psicotanatologia ed esponente di punta dei death studies(allegria), sono: negazione, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione. La teoria delle cinque fasi è stata sviluppata osservando le reazioni delle persone cui viene fornita una prognosi mortale, malati terminali e incurabili insomma. Riguarda quindi la propria fine, anche se viene utilmente applicata anche a chi deve elaborare un lutto nel senso comunemente inteso, cioè la perdita di una persona cara, e persino un lutto ideologico.
E noi, che tipo di elaborazione dovremo mettere in atto. Ovviamente, è troppo presto per parlarne: è sempre troppo presto per parlarne, finché non è troppo tardi. Secondo gli alfieri del “quando tutto questo sarà finito”, a un certo punto il virus scomparirà all’improvviso così come magicamente è apparso; le misure restrittive saranno tolte da un giorno all’altro; di botto, mentre un attimo prima ci guardavamo in cagnesco dai balconi, scenderemo tutti in strada abbracciando gli sconosciuti. Vi pare possibile?
Ma di perdite, se non vogliamo parlare di lutti, ne dovremo affrontare, e anche grosse. La perdita delle vittime, il lutto letterale: che andando avanti così, prima o poi a ognuno di noi verrà a mancare un caro, un amico, un conoscente. Poi ci saranno le conseguenze psicologiche dei mesi di clausura: saranno pesanti e a scoppio ritardato per i bambini costretti in casa, per le persone con disagi psichici – per non parlare di quelle che subiscono violenze domestiche. Ci saranno le conseguenze economiche, che la crisi del 2008 sarà una passeggiata di salute al confronto: magari servirà a mettere in discussione il modello di crescita infinita e drogata che finora abbiamo sempre considerato l’unico possibile – i più ottimisti già parlano di “fine del neolibersimo”, quel che è certo è che niente tornerà come prima, e questo per certi versi è un bene.
Infine, continuando ad allargare il cerchio, ci saranno conseguenze sul nostro stile di vita in generale: forse invece di abbracciarci, continueremo a mantenere le distanze, a guardarci con un po’ di diffidenza. Anche, e soprattutto, a tavola: forse smetteremo di affollarci ai banconi dell’apericena, forse i ristoranti – come ora sta succedendo in Cina, che è due mese avanti a noi – dimezzeranno i coperti. Forse, forse, forse. Ma poi, fondamentalmente, quello che succederà non lo sappiamo.
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Quarantena con bambini? Guida alla sopravvivenza alimentare
Pubblicato: 18 marzo 2020 Archiviato in: Uncategorized | Tags: corona, dai giornali, Dissapore, food, quarantena Lascia un commentoComincio autodenunciandomi. Il 23 febbraio, quando l’emergenza Coronavirus era appena all’inizio, il Piemonte e la Lombardia decidevano di chiudere scuole e università per una settimana; in realtà era un prolungamento di soli due giorni dato che da lunedì 24 a mercoledì 26 erano già previste le cosiddette vacanze di carnevale. Il giorno dopo io – che lavoro da casa e che già per tappare il buco di quei tre giorni con due bambini mi ero fatto tutto un programma con largo anticipo – scrivevo su Facebook:
Scuole chiuse.
Io non so se stanno sopravvalutando le potenzialità omicide del cornavirus. Ma di certo stanno sottovalutando quelle dei genitori.
Faccio qui pubblica ammenda perché non mi sbagliavo una volta, ma due. Stavo sottovalutando – facile dirlo col senno di poi – la terribile infettività e l’elevata mortalità del virus, da un lato. Ma dall’altro, sottostimavo anche la mia, la nostra capacità di resistenza. Altro che due giorni in più: è passato quasi un mese, e a casa mia siamo ancora tutti vivi. Certo ci mandiamo seriamente a quel paese venti volte al giorno, e sembriamo sempre a un passo dal metterci le mani addosso – ma per fortuna non ci siamo ancora sbranati.
E lo so che molti di voi vivono da soli e quindi pagherebbero per fare due chiacchiere con un essere umano in 3D, vi capisco e non vi invidio, ma vi assicuro che anche io per un giorno alla settimana vorrei fare a cambio con la vostra condizione, almeno quanto voi vorreste stare un po’ al posto mio. Capisco tutti, anche quelli che stanno sclerando (io sto sclerando). E lo so anche che oltre a esserci gente che vive sola, c’è gente che muore sola, in un reparto di terapia intensiva senza il conforto di un parente, e che se ne va all’altro mondo senza neanche un funerale: insomma se vogliamo fare la gara del benaltrismo, ci sta sempre una situazione davvero grave, o comunque più grave della nostra.
Se invece vogliamo sopravvivere non solo fisicamente, cerchiamo di prendere quello che c’è di buono nelle specifiche situazioni in cui siamo costretti, di tollerare un po’ di più gli scleri altrui (sì, anche di quelli che escono, e di quelli che se la prendono con quelli che escono, e di quelli che se la prendono con quelli che se la prendono con eccetera eccetera), di accettare che qualcuno ci faccia il predicozzo tipo quello che avete letto finora. E che qualcun altro – sono sempre io, da qui in avanti – si metta a dare consigli gastronomici semiseri per la quarantena con figli.
Mi rendo conto, infine, che per molti di voi siamo a “quarantena giorno 9”, ma qui in Piemonte le misure sono scattate prima, e ancor prima come dicevo hanno chiuso le scuole: ai fini che qui interessano, siamo con i bambini a casa h24 da un mese, fidatevi di chi ha un minimo di esperienza. Tra passare tutta la giornata ai fornelli e lanciare ai figli pacchetti di patatine e würstel crudi senza alzarsi dal divano, una via di mezzo c’è. Potete sopravvivere a una quarantena con i vostri bambini, credetemi, almeno sul fronte del cibo.
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