Storie che si biforcano ti farà tornare la voglia di leggere racconti (intervista su Esquire)

di Federico di Vita

Chi di intervista in chat ferisce, di intervista in chat perisce. È con queste parole che ho annunciato a Dario De Marco che l’avrei intervistato per il suo Storie che si biforcano (Wojtek), un libro di racconti in cui avviene ciò che è descritto nel titolo, e che soprattutto si può leggere aprendo il volume da entrambi i lati, facendo correre lo sguardo solo sulla pagina destra, essendoci sulla sinistra la versione “oltre lo specchio” di ciò che stiamo leggendo, stampata al contrario. La chiacchierata è stata lunga e ci siamo detti molto con Dario su WhatsApp (avrei preferito Telegram, ma almeno questo gliel’ho concesso), a un certo punto però mi sa che non ha preso proprio per il verso giusto un paragone che ho buttato lì con l’esperienza dell’Oulipo, e mi ha proprio chiesto se mi fosse piaciuto il libro. 

Posso dirlo qui: in questo periodo non mi va di leggere narrativa ma Storie che si biforcano l’ho finito in due giorni, quindi direi che mi è piaciuto – al netto del fatto che con Dario ci conosciamo. Per non creare troppe aspettative circa quello che è l’esordio di De Marco in qualità di raccontista, e che – gli piaccia o meno – lo colloca all’interno di un filone letterario di pura riflessione formale (di cui del resto qualcosa ha scritto anche lui), nel corso dell’intervista abbiamo sciorinato i nomi di Jorge Luis Borges, Philip K. Dick, Julio Cortázar, N.K. Jemisin, Riccardo Piglia, Italo Calvino, J. D. Salinger, Giuseppe Pontiggia, Franz Kafka, Anton Checov, Luigi Pirandello, Dino Buzzati, Fredrick Brown, Gabriele Romagnoli, Augusto Monterroso, Lydia Davis, Piergiorgio Paterlini, Raymond Carver, Sandro Veronesi, Omero, Miguel de Cervantes, Raymond Quenau e Georges Perec – che lascio qui come tag, o se volete come astrolabio per prendere le coordinate di quanto ci siamo detti in un intenso pomeriggio in chat.

(Continua su Esquire)


La scommessa collettiva: un’intervista psichedelica

Il Rinascimento psichedelico è la rinnovata attenzione, politica e culturale, verso le sostanze psichedeliche e i loro effetti, dopo decenni di illegalità, oblio, clandestinità. Gli psichedelici vengono sperimentati con successo nella cura di patologie psichiatriche, autorizzati per cerimonie religiose, usati in dosaggi minimi dai creativi del settore tech. Si ristampano vecchi libri e se ne scrivono di nuovi: uno per tutti, Come cambiare la tua mente di Michael Pollan, uscito l’anno scorso e già diventato la Bibbia del settore. Il Rinascimento psichedelico è oggi, è qui.

La scommessa psichedelica è un libro uscito nel novembre 2020 per Quodlibet, curato da Federico di Vita, e firmato da un gruppo eterogeneo di giornalisti e scrittori e intellettuali, a vario titolo esperti della materia, che trattano la materia nei suoi vari aspetti. Non è solo un punto della situazione, ma il tentativo di fare un passo avanti, di indicare la strada, le strade. La scommessa psichedelica è il futuro.

Per dare conto della varietà, ma anche della profondità, invece di riassumere il libro in maniera didascalica, o di approfondire un argomento in maniera arbitraria, ho pensato di fare entrambe le cose. Ho sentito tutti gli autori: uno per volta, con una domanda ciascuno, preceduta da una breve sintesi dell’intervento. Ogni paragrafo è collegato al successivo, seguendo la logica sotterranea che si intravede – o che io ho creduto di vedere – nella disposizione dei saggi. A libro collettivo e psichedelico, intervista psichedelica e collettiva. Una piccola scommessa anche questa, un viaggio che non è breve, ma che è pieno di suoni e colori, come ogni viaggio dovrebbe.

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L’internet di domani digitalizzerà anche l’essere umano

L’Internet of Things la conosciamo: è la possibilità, grazie a una potenza tecnologica sempre crescente, di creare una rete di dispositivi in grado di comunicare con noi e soprattutto tra di loro. Dal frigorifero che ordina la spesa da solo all’automobile autonoma che si ferma a fare rifornimento, la IoT ha aperto un mondo di possibilità che sono ancora tutte da esplorare e che vedremo svilupparsi appieno nei prossimi anni. La relativa novità della IoT non ha però impedito che un’evoluzione successiva iniziasse già ad affacciarsi: la Internet of Skills (internet delle abilità). Di che si tratta? In sostanza, è la capacità della rete di trasmettere in tempo reale non più solo audio e video, ma anche il tocco e il movimento. L’esempio classico è quello del chirurgo che muove la mano in un guanto sensoriale, manovrando una protesi meccanica che opera un paziente dall’altra parte del mondo.

Non saremo ancora arrivati al teletrasporto, ma da un certo punto di vista il risultato è simile: mettere in rete non solo le informazioni (con il web) e gli oggetti (con la IoT), ma anche le persone. Per orientarci in questo nuovissimo ambiente, abbiamo parlato con uno dei pionieri della materia: Mischa Dohler, titolare della cattedra in Wireless Communications al King’s College di Londra. Dohler è autore di studi nei campi della banda larga, dell’Internet of Things e della cybersicurezza, e ora sta lavorando allo sviluppo dell’Internet of Skills.

L’aspetto fondamentale è proprio quello della velocità di banda. Ogni generazione di trasmissione dati ha infatti compiuto un salto qualitativo: il 3G ha portato internet sui telefoni, il 4G ha permesso di collegare anche gli oggetti e il 5G porterà online le persone. “In effetti”, conferma Dohler, “a ogni generazione la potenza si moltiplica per 10: se il 4G forniva in media 10 Mbps per utente, il 5G ci farà navigare come minimo a 100 Mbps. Ciò permetterà di minimizzare l’impatto di un parametro molto importante: la latenza, cioè il tempo necessario affinché due dispositivi entrino in connessione tra di loro. Se con il 4G eravamo nel range di 50 millisecondi, il 5G ci porta a 1 ms. La differenza non è poi così importante se dobbiamo limitarci a caricare una pagina web, ma diventa invece cruciale nelle applicazioni industriali dell’Internet of Skills, che richiedono una latenza sotto i 10 ms”.

(continua su Le macchine volanti)


Rivoltare Napoli: Arrevuoto

Napoli è una città impossibile. Impossibile da vivere, dice chi ci campa, e spesso a ragione. Impossibile da raccontare, anche e soprattutto per chi (come me) la guarda ormai dall’esterno, dalla posizione tutt’altro che privilegiata dell’emigrante. Anima da Capitale e stracci da slum; paradiso abitato da diavoli secondo l’ormai abusato paradosso, ma a volte inferno abitato da angeli, che sopportano tutto, santa pazienza.

È proprio in questo magma rovente e indistinto, che ogni tanto spuntano qua e là isole di senso, che provano a connettere e a connettersi. A Napoli fare qualcosa di sensato è impossibile, e quindi doveroso. Qualche tempo fa su queste pagine abbiamo parlato dell’ex Asilo Filangieri. Stavolta tocca ad Arrevuoto: che è teatro, è periferia, è creatività, è adolescenza, è connessione, è rom, è sperimentazione, è rischio.

Arrevuoto è un progetto teatrale-pedagogico di attivazione sociale dal basso. È nato a Napoli ormai 14 anni fa, nel 2005, con il supporto del Mercadante, il Teatro Stabile di Napoli, e qualche anno dopo si è costituito in Associazione Culturale. Il punto di partenza è stato Scampia, il famigerato quartiere delle Vele e della criminalità, la terra di nessuno, la periferia oltre la periferia.

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Intervista sulla neurosostenibilità: il lavoro culturale alla prova pratica

(Articolo di Ivan Carozzi uscito su CheFare)

Verso la fine del 2018, cheFare pubblicava un mio articolo, dal titolo Dalla sostenibilità economica alla neurosostenibilità. Nel pezzo provavo a sviluppare un ragionamento e una domanda, ovvero: il lavoro culturale, sempre più spesso precario, mal retribuito, pone nella vicenda quotidiana di molti, moltissimi, un tema cruciale, quello della sostenibilità economica della professione e, di conseguenza, della sua sostenibilità esistenziale, specie quando il lavoro comporta un carico significativo di ansia e fatica; ma che cosa accade quando il lavoro precario, o più lavori precari, più commissioni, con il relativo portato di stress e cronica incertezza, si combinano, per esempio, con un utilizzo intensivo dei device? E che cosa succede quando si è costretti ad accettare tutti i piccoli lavori che ci vengono offerti? Quanto a lungo è possibile sostenere un certo ritmo di vita e lavoro? Ecco che forse, mi dicevo, si pone un tema ulteriore: quello della neurosostenibilità del lavoro culturale.

Il pezzo è stato molto letto, condiviso e discusso. Segno che qualcuno si è riconosciuto e che la questione esiste. Perciò abbiamo pensato di provare ad allargare la discussione, inoltrando sette domande a persone e amici che lavorano nella cultura, nella conoscenza, nella formazione etc. Crediamo che valga la pena parlarne, che occorra testimoniare, sollevare una discussione pubblica e che questo spazio, infine, sia il luogo giusto per iniziare. In questa seconda puntata (qui la prima) incontriamo Dario De Marco e Elenia Beretta. Dario è un giornalista, sospetta di soffrire un po’ di FOMO (acronimo di «Fear of Missing Out», ovvero la fobia di non essere a sufficienza sul pezzo quando non si è on line, Ndr) e in un quasi flusso di coscienza, consapevole dei lettori in fuga dai giornali, si chiede: «Quindi, per chi scrivo? Per l’ufficio stampa che segue il libro e così fa contento l’editore […]?». Ottima domanda.

Quanti anni hai e che lavoro fai?

Sono nato nell’aprile 1975, quindi vado per i 45. Giornalista. Attualmente nella redazione del sito di Esquire Italia, ma nella mia ormai lunga esperienza ho fatto un po’ di tutto: sono stato stagista, precario, freelance, consulente, disoccupato… A un certo punto avevo addirittura smesso (cioè, ero uscito dall’industria culturale e facevo un lavoro che non c’entra niente, non era neanche di concetto o, lato sensu, impiegatizio, è stato il periodo più faticoso e sereno della mia vita). Dico questo per dire che so cosa significa, e che la precarietà oramai è interiorizzata, è una condizione mentale, più che economica.

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«Daniele Del Giudice, scienziato della parola»

Nel 2014 il biologo Edward O. Wilson concludeva il suo libro Il significato dell’esistenza umana con un appello lanciato agli uomini di scienza e a quelli di lettere, per riavvicinare i due mondi: auspicava che uno spirito umanistico e letterario animasse la scienza, soprattutto la divulgazione ma non solo; e d’altra parte invitava gli scrittori, specialmente i romanzieri, a interessarsi delle cose di scienza, a trattare biologia evolutiva e fisica quantistica come realtà nelle quali possono sorgere storie.

Esattamente trenta anni prima, nel 1984, Daniele Del Giudice si apprestava a mettere in pratica questo suggerimento. Dopo aver esordito con Lo stadio di Wimbledon, andava a Ginevra, al CERN, per visitare il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle. Vi sarebbe rimasto una settimana, prendendo meticolosi appunti di tutti i suoi incontri, e traendo ispirazione per un romanzo misterioso e affascinante, bellissimo: Atlante occidentale.

La scienza, anche quella dura come la fisica, ha ispirato generazioni di scrittori (oltre che di mistici): universi paralleli e viaggi nel tempo, per nominare due miti fondativi della fantascienza, sono spesso giustificati e corredati nei romanzi anche più pop da pagine e pagine di teorie e formule, affascinanti quanto inverificate. Ma qui Del Giudice fa scienza, non fantascienza: volendo, si potrebbe dire che fa science fiction nel senso più letterale e auspicabile del termine, narrativa sulla scienza.

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«Quella volta che ho bevuto il mescal di Malcom Lowry»

Mettiamo che uno non abbia mai letto Sotto il vulcano. Che ne conosca la posizione, tra i capolavori della letteratura moderna. Che abbia sempre sentito parlare di Malcom Lowry, un Joyce ubriaco, esotico erotico politico. Che sia attratto da questo romanzo ambientato in una città immaginaria di un Messico fin troppo reale, con un protagonista assurdo, diviso tra delirium tremens e antifascismo, amore e morte. Che lo abbia lì in wishlist, insieme a tante, troppe altre cose, e non sia mai riuscito a leggerlo. Può capitare. A me è capitato.

Mettiamo che Feltrinelli decida di ristamparlo, in una veste grafica spartana, e con una nuova traduzione. A questo punto non cogliere l’occasione sarebbe autolesionismo. Mettiamo poi che uno abbia la ventura, addirittura, di conoscere il traduttore: Marco Rossari. Che piano piano sta traducendo tutti i grandi, da Dickens in poi. Che è anche poeta (!) e scrittore eclettico: autore di romanzi candidati allo Strega (Le cento vite di Nemesio), di offerte musicali (Bob Dylan. Il fantasma dell’elettricità), di deliziose disintegrazioni della forma (L’unico scrittore buono è quello morto); e ad aprile 2018 esce Nel cuore della notte per Einaudi, wow.

Con queste premesse, sarebbe stata una fesseria non intervistarlo, e una cosa senza senso non utilizzare ancora il formato dell’intervista via chat. Chat di twitter, ché Rossari mica sta su Facebook. Con generosità, con spirito, lo sventurato rispose.

(continua su Esquire)


Breve intervista a Dario De Marco

(un’intervista che mi ha fatto Stefano Amato, dopo aver pubblicato su A4 il racconto che precede – sempre bello poter usare la funzione “reblog”)

A4

Abbiamo intervistato Dario De Marco, l’autore del racconto contenuto nell’ultimo numero di “A4”, Madonna delle campagne. Ringraziamo l’autore per la disponibilità.

“A4”: Madonne delle campagne è scritto in una lingua, o forse sarebbe meglio dire un dialetto, che nella realtà non esiste, una via di mezzo fra il napoletano e il cilentano. Eppure è comprensibile anche a chi, come me, non è di quelle parti. Come sei riuscito in questo prodigio? Quanto lavoro c’è dietro? È la prima volta che usi questa lingua o l’avevi già “rodata” da qualche altra parte?

Dario De Marco: Mio padre era di un paesino del Cilento, mia mamma è della provincia di Napoli, io sono nato e cresciuto a Napoli. Anche se a casa mia quando ero piccolo non si parlava in dialetto perché i miei avevano paura che crescevo cafone e non m’imparavo bene l’italiano, a un certo punto…

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Intervista a me stesso

(no, non fatta da me, non sono ancora a questi livelli, ma da Marco Parlato sul suo bel blog)