Come finiscono le pandemie
Pubblicato: 27 Maggio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: coronavirus, dai giornali, pandemie Lascia un commento“It turns out it wasn’t the giant asteroid that killed the dinosaurs. It was stress about the giant asteroid that killed the dinosaurs.”
La vignetta del New Yorker di David Sipress (del 12 maggio 2020) è fulminante: “Si è scoperto che non fu l’asteroide a uccidere i dinosauri. Fu lo stress per l’asteroide a uccidere i dinosauri”.
Negli ultimi mesi, molti di noi si sono sentiti così: sul punto di essere distrutti, non dal virus, ma dalla paura del virus, e da tutta una serie di ansie che ci girano attorno, e che hanno a che fare con la salute, sì, ma anche con il lavoro, con l’economia, con la socialità, con lo svago, con il clima – insomma, con la vita.
Quando tutto questo sarà finito è la frase che abbiamo detto o sentito dire più volte, da quando tutto questo è iniziato. Ma per l’esattezza, quando è che tutto questo sarà finito? La scienza è categorica: vaccino, o immunità di gregge. Il primo, un giorno sembra tutto sommato a portata di mano, quello dopo, una prospettiva utopica il cui orizzonte è da valutarsi in decenni. La seconda, beh, per arrivarci in tempi brevi, dovremmo passare prima per un’ecatombe.
In realtà altre possibilità esistono, meno drastiche: la mutazione del virus in senso meno aggressivo, per esempio, come nel caso della Spagnola; o la messa a punto di farmaci molto efficaci per curare, se prevenire resta impossibile, com’è successo per l’Hiv. Ma c’è anche qualcosa di completamente diverso. Per scoprirlo però, facciamo qualche passo indietro. Perché se questa è la prima pandemia del millennio, non è certo la prima della storia. Come sono finite, le altre?
Tutte le pesti la peste
Peste. Un termine generico, vago. Anche scherzoso, oggi: piccola peste, si dice di un bambino, senza pensare a che terribile sostrato. È così anche in altre lingue: plague, in inglese, che viene da piaga, dalle piaghe d’Egitto, forse più che dai sintomatici bubboni. Vago, tanto che molte epidemie di peste del mondo antico, probabilmente peste non erano. Per esempio la peste di Atene del V sec a.C. – quella che si portò via Pericle e che addirittura fece scappare dalla paura gli spartani, lì lì sul punto di far strame dell’odiata rivale – era quasi certamente un’altra cosa. Le cause di quell’epidemia, che stando a Tucidide in quel periodo colpì un po’ tutta l’area orientale del Mediterraneo, sono ricostruibili: avanzando l’esercito di Sparta, tutta la popolazione rurale si rifugiò dentro le mura della città, centuplicandone l’affollamento; contemporaneamente, l’unico canale di approvvigionamento era il porto del Pireo, e da lì probabilmente arrivò un carico di batteri. O virus? In celebri pagine lo storico greco descrive gli atroci sintomi della malattia: a partire da questi, gli studiosi di storia della medicina hanno ipotizzato che potesse trattarsi di vaiolo, morbillo, antrace, addirittura ebola o altra febbre emorragica. Attualmente le ipotesi più accreditate sono il tifo detto esantematico o petecchiale, e la febbre tifoide dovuta al batterio Salmonella enterica: sono stati anche analizzati frammenti di DNA antico, ma senza arrivare a certezze.
Anche quella che è passata alla storia come peste Antonina (165-180 d.C.) era probabilmente vaiolo o morbillo. Portata dai soldati romani di ritorno dalle campagne in Asia minore, si diffuse lentamente – non c’era la rapidità di mezzi di comunicazione di oggi – ma inesorabilmente in tutto l’Impero, ovvero nella maggior parte del mondo conosciuto, tanto che si può parlare senz’altro di pandemia. Fu una delle più terribili, se non la peggiore di tutte: le stime vanno dai 5 ai 30 milioni di morti, numeri pazzeschi se rapportati al totale della popolazione, all’epoca molto minore. Fonti parlano di 2000 vittime al giorno nella sola Roma, e di interi villaggi e cittadine in cui non sopravvisse neanche un abitante.
(Continua su L’Indiscreto)
Il quadrato magico che potrebbe spiegare il mistero di Tenet
Pubblicato: 26 Maggio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Christopher Nolan, dai giornali, Esquire, film, Sator Arepo, tenet, trailer Lascia un commento“Per te ho una sola parola: Tenet. Ti aprirà le porte giuste. E anche alcune sbagliate”
Il primo trailer di Tenet, prossimo film di Christopher Nolan, è uscito a fine 2019 – sembra un’era fa, adesso. Fino a quel momento, se ne sapeva pochissimo: il titolo, qualche attore. A fine maggio, con una peste in mezzo, abbiamo visto il secondo, su Fortnite: morale, se ne sa ancora di meno. Il segreto che circonda la produzione – scelta di marketing e/o adesione alla spoiler-fobia – è fittissimo; trapela solo ogni tanto qualche notizia secondaria, e sempre dello stesso segno, tipo che gli stessi attori non hanno avuto accesso al copione completo ma solo alla loro parte. E i due trailer, anche visti uno dopo l’altro, più che fornire elementi, fanno ammuina.
Spionaggio, pistole, inseguimenti, azione. Ma anche misteri, enigmi da risolvere, fantascienza e soprannaturale (“Benvenuto nell’aldilà”, si sente dire dopo un traumatico risveglio John David Washington: questo Afterlife sarà da intendersi alla lettera o come nome di una società offshore?). Bene: qualcuno per caso ha detto Inception? In effetti, è stata fatta notare più di una somiglianza con il mood di quel controverso film di Nolan. E tra l’altro, Tenet esce a luglio, a 10 anni esatti di distanza dalla pellicola con DiCaprio. Quindi, che sia un sequel? O uno spinoff, una storia ambientata “nell’universo di”? Mah. Come ha giustamente detto qualcuno, sarebbe la prima volta per Nolan, se si esclude la saga del Cavaliere oscuro, pensata ab origine come trilogia. E allora? Facciamo così, ascoltiamo il suggerimento: “Una sola parola: tenet”. Torniamo al titolo.
“Deve ancora succedere”
Tenet è una parola latina, ovvio. Ed è un palindromo, cioè una parola che resta uguale anche se letta dalla fine all’inizio. Questa cosa già comincia ad avere dell’esoterico, ma è un esoterico ormai pop (i dischi che letti al contrario contengono messaggi satanici, tipo, che è un po’ come dire gli sconosciuti che regalano le caramelle di droga fuori dalla scuola: non sono mai esistiti se non nella testa di mamma e papà). E, casomai non se ne fosse accorto nessuno, il titolo l’hanno scritto con le ultime due lettere rovesciate, per rendere graficamente evidente il concetto. Enigmistica for dummies.
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La vera storia del Signore delle mosche: forse non facciamo così schifo?
Pubblicato: 18 Maggio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Esquire, Factfulness, feltrinelli, Hans Rosling, Hobbes, Humankind, Il signore delle mosche, libri, Rizzoli, Rousseau, Rutger Bregman, Utopia per realisti, William Golding Lascia un commentoRutger Bregman: il nome non ci dice molto. Magari vedendo la sua faccia, una scintilla potrebbe accendersi. Ma sicuramente, guardando o anche solo nominando questo famoso video, torna in mente tutto: è lui, lo storico olandese che fece saltare il banco al Forum di Davos l’anno scorso. Quello che ai ricchi e potenti della Terra disse chiaro e tondo: non fatevi belli con la beneficenza, pagate le tasse. E che riferendosi a quel prestigioso consesso e al suo convitato di pietra, il riscaldamento globale, notò: è come un raduno di pompieri dove è vietato usare la parola acqua.
Accadeva a gennaio 2019: quest’anno, ha sottolineato lui stesso qualche mese fa, a Davos non mi ci hanno invitato, guarda un po’. Video virale a parte, Rutger Bregman non è certo un fuoco di paglia: classe 1988, è considerato uno dei più promettenti pensatori europei. Ha scritto vari libri di argomento storico e filosofico, ma uno in particolare ha avuto una certa risonanza internazionale: Utopia per realisti. Come costruire davvero il mondo ideale. Le sue proposte sono semplici e radicali: reddito di base universale, libertà di movimento globale, settimana lavorativa di quindici ore.
Bregman è un inguaribile ottimista, questo è il punto. Non un tecno-entusiasta come gli anarco-capitalisti della Silicon Valley, intendiamoci. E neanche un difensore dello status quo travestito da debunker, come l’Hans Rosling di Factfulness. Il mondo per lui va cambiato, ma farlo è possibile. Perché, udite udite, l’uomo non è così cattivo come si dipinge. Da qualche anno, va a caccia di storie che supportino la sua idea: lo fa per lavoro, è infatti giornalista del sito olandeseDe Correspondent, ma con il ruolo di battitore libero, senza cioè l’obbligo di stare dietro alla stretta attualità (tossica per la mente come lo zucchero è per il corpo, dice lui, perché ti fa concentrare sugli aspetti eccezionali della realtà, cioè quelli negativi).
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Possiamo salvare il mondo, a cena
Pubblicato: 18 Maggio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Agnese Codignola, dai giornali, feltrinelli, food, Il futuro del cibo, La ricerca, libri, recensioni Lascia un commentoC’è quel meme degli squali, non so se avete presente, potrebbe sembrare un meme benaltrista ma invece no, è catastrofista: non dice infatti che ben altro è il problema, ma che per ogni problema terrificante ce n’è uno ancora più orribile. La sua versione “ai tempi del coronavirus” – virgolette ammiccanti per far capire che la frase fatta non ci piace – è questa:
Covid-19 < Crisi economica < riscaldamento globale. A pensarci bene poi, fuori dall’inquadratura ci starebbe un altro squalo, ancora più grande. Come definirlo? Sovrappopolamento fa troppo Malthus, anche se in sostanza di quello si tratta: ma arrivati alle soglie degli otto miliardi, situazione attuale, e proiettati verso i 10 – secondo alcune stime addirittura entro il decennio – il discorso dell’affollamento umano sul pianeta si articola su più dimensioni.
C’è l’aspetto alimentare, quello di cui si preoccupava appunto il malthusianesimo classico, ovvero: ce la farà l’orto della Terra a sfamare tutta ‘sta gente? E poi c’è il movimento contrario, e cioè: ce la farà tutta ‘sta gente che mangia a non distruggere la Terra? I due discorsi sono intrecciati, naturalmente. E le due facce della medaglia, sovrappopolamento/sfruttamento, sono poi collegate agli altri squali: il collasso climatico, la crisi economica, le stesse zoonosi come il coronavirus; tanto che dovremmo parlare, più che di squalo ulteriore, di un meta-squalo.
Da questi dati di fatto prende le mosse Agnese Codignola per parlare di quello che mangeremo nel futuro, ed è un futuro prossimo: Il destino del cibo (Feltrinelli) è un libro che contiene una impressionante mole di dati, che stimola incessanti riflessioni, che trasporta in un viaggio alla scoperta di incredibili – ma tutt’altro che improbabili – invenzioni in campo alimentare. Agnese Codignola, ricercatrice e poi giornalista scientifica, è un po’ la nostra Michael Pollan; anche se il leggendario food writer americano è partito con dei bellissimi libri sul cibo (Il dilemma dell’onnivoro, Cotto) per poi approdare agli psichedelici (Come cambiare la tua mente), mentre Codignola ha fatto il percorso inverso, passando dalla monumentale ricerca sull’acido lisergico (LSD è del 2018) a questo. Secondo Jonathan Safran Foer Possiamo salvare il mondo, prima di cena; secondo Codignola possiamo salvare il mondo, a cena.
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Libri sull’estinzione
Pubblicato: 6 Maggio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, E.B. Hudspeth, Esquire, estinzione, Il codice delle creature estinte, Il giorno in cui tutto finisce, il Saggiatore, La malinconia del mammut, libri, massimo sandal, Mauro Maraschi, Mike Pearl, Mondadori, Moscabianca edizioni, Octavia Butler, recensioni, Ultima Genesi, Urania Lascia un commentoEstinzione, ci meritiamo l’estinzione! Così ruggiamo con voce tremula, ogni volta che qualcuno dice o fa qualcosa che non ci trova d’accordo. Forza asteroide, sei la nostra unica speranza! Ragliamo invocando la soluzione finale. Poi, arriva un’epidemia con un tasso di mortalità dello 0,002%, e tutti impazziamo di paura. Giustamente, eh: qui non si sta minimizzando il problema, o sostenendo che è poco più di un’influenza. Che la pandemia da coronavirus sia la cosa peggiore che ci è capitata dalla fine della seconda guerra mondiale – almeno in Italia, almeno in Europa se si esclude l’ex Jugoslavia – è certo. Altrettanto certo è che, ancheconsiderando le sole epidemie, quella attuale si piazza molto indietro (attorno al 25esimo posto) come mortalità rispetto al totale della popolazione: per capirci la peste del ‘300, in cima alla classifica, sterminò più del 40% degli abitanti del mondo.
Il fatto è che l’estinzione è inconcepibile: non riusciamo a pensarla, a livello di specie, proprio come a livello individuale nessuno riesce a concepire la propria morte. Come sarebbe il mondo senza di noi? È un giochino che possiamo fare solo come esercizio retorico, come simulazione sci-fi. L’estinzione è un concetto a ndimensioni, che per quanto ci giriamo a attorno non riusciamo ad osservare nella sua completezza, un iperoggetto secondo la definizione di Timothy Morton, proprio come il climate change. Eppure ci viviamo in mezzo, a un’estinzione di massa: non riguarda la nostra specie (per ora) ma un numero molto alto di specie, significativamente più alto della media. E al riscaldamento globale la sesta estinzione di massa è collegata, perché ne è figlia, anzi sorella: dato che entrambe hanno lo stesso ascendente, che è – indovinate un po’ – l’azione dell’uomo.
Concepire l’inconcepibile: perché non è che uno si affaccia alla finestra e dice toh, c’è un’estinzione in corso. Facile allora cadere preda del negazionismo, del tutto sommato che vuoi che sia. Serve uno sguardo laterale, mediato. Ecco allora un percorso tra alcuni libri che affrontano il tema dell’estinzione: alcuni prendendolo di petto, altri in maniera trasversale; ci sono saggi scientifici appassionanti come romanzi e opere di fiction che potrebbero diventare realtà.
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