Il giro di vite fa ancora paura

Nelle catacombe dove si riuniscono gli appassionati di racconti – nicchia di una nicchia, quella dei lettori – ogni tanto si gioca alle classifiche: i 10 racconti di fantascienza più belli, i 5 migliori racconti del terrore, il best of italiano, il top delle flash stories. Ma quando si disputa il campionato maggiore, il racconto più bello di sempre senza limiti di tempo e spazio, il titolo che s’impone quasi sempre è uno. Certo, ogni tanto viene fuori Il nuotatore di John Cheever, più raramente qualcosa (ma cosa? Questo è il problema) di Borges; ma il nome su cui quasi tutti concordano è: Il giro di vite di Henry James.

Ora, che si tratti di un racconto a me lascia un po’ perplesso: sono più di 40.000 parole, contandola all’inglese; 167 pagine, nell’edizione tascabile che ho io. Insomma sarebbe un racconto lungo, ancora meglio un romanzo breve, o novella, e infatti si trova quasi sempre come volume a sé. Ma lasciamo stare le questioni terminologiche e ammettiamolo: Il giro di vite ha terrorizzato milioni di lettori. Ha fatto litigare accademici e studiosi per più di un secolo, ma litigare pesantemente e non su filosofeggiamenti astrusi o interpretazioni esoteriche, proprio sull’abc della vicenda; addirittura a un certo punto ha propiziato la nascita di un intero movimento di critica letteraria, il New criticism. Infine ha ispirato innumerevoli adattamenti su altri media: radiodrammi, opere liriche (Britten) e balletti, pellicole cinematografiche (The innocents e il suo prequel The Nightcomers con Marlon Brando) e film TV, telefilm e serie. Fino all’ultima uscita Netflix, The Haunting of Bly Manor, che è la prosecuzione di The Haunting of Hill House con altri mezzi. 

Il successo di questa storia è in parte misterioso, inspiegabile; in parte deriva proprio dal carattere misterioso e ambiguo della vicenda che racconta, e di come la racconta, senza spiegarla.

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Halloween, quell’americanata di origini campane

Stavolta, lo ammetto, devo essere grato al Presidente della Campania Vincenzo De Luca. Perché quando ha annunciato che imporrà la chiusura dei locali alle 22 nelle ultime settimane di ottobre, scagliandosi contro Halloween, ha definito questa festa “un’idiozia”, un “monumento all’imbecillità”, ma soprattutto ha usato una parola-madaleine: “americanata”. Che bello, erano 35 anni che non la sentivo pronunciare senza layer ironici. Improvvisamente ho di nuovo il grembiule blu delle elementari, c’è ancora l’URSS anche se non rappresenta più una valida alternativa, esce un film di Rocky ogni 3 anni e McDonald’s si appresta a invadere l’Italia. 

Ora, tu vedi un poco il destino com’è beffardo: chi l’avrebbe mai detto che nel 2020 sarei finito a difendere Halloween, cioè una roba che quando ero piccolo io si usava più o meno come si usa mangiare il tacchino al Thanksgiving. Già l’anno passato, su questo stesso sito, mi era capitato di ricordare come usanze simili al “dolcetto o scherzetto” fossero presenti in molte zone d’Italia già dal Medioevo. Mi appoggiavo a Carlo Ginzburg e ai suoi scritti sui beneandanti, figure della tradizione mitteleuropea che si diffusero fino al nostro nord-est.

Ma che ne direste se addirittura trovassimo delle simil Halloween, con tanto di zucche e lucine, addirittura nel sud Italia, nientedimeno che in Campania? Ecco quanto scrive l’antropologo Marino Niola, in un articolo del 2005 poi ripreso nel libro Si fa presto a dire cotto (Il Mulino):

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Il pesto di Stanisław Lem e l’agrodolce di Petrarca

E il giallo dell’estate? Fino ad alcuni anni fa, qualche incomprensibile nostalgico si lamentava del fatto che non ci fossero più i tormentoni estivi, quelle canzoni dal ritornello fastidiosamente orecchiabile che per due o tre mesi sentivi dappertutto e poi sparivano nel nulla da cui erano venute. Ma adesso direi KARAOKE GUANTANAMERA che questo non costituisce più un problema.
Nessuna notizia invece – e neanche questa ormai è più una notizia – dal fronte della letteratura: il giallo dell’estate è un topos che sembra scomparso per sempre. Sopravvive come caso di cronaca che infiamma la nostra sete di sangue per quindici giorni. Ma che fine hanno fatto invece quei tomazzi tipo Io uccido di Faletti, che in certi anni letteralmente tutti ci portavamo in spiaggia? O i più maneggevoli Montalbàn, o i comodissimi Camilleri, che avevano l’unico difetto di finire troppo in fretta, massimo due o tre bagni?

Quest’anno di disgrazia 2020 un buon candidato poteva essere Riccardino, l’ultimo Montalbano lasciatoci in eredità da Andrea Camilleri, ma non mi pare sia stato mandato a memoria come i dpcm di Conte. Il mio giallo dell’estate è stato Febbre da fieno di Stanisław Lem, lo scrittore polacco famoso per Solaris, una delle più grandi menti di sempre. Pubblicato nel 1976 con il titolo originale di Katar, è uscito per la prima volta in Italia (grazie a Voland e alla traduzione di Lorenzo Pompeo).
Credevo fosse un libro di fantascienza – se pure coltissima e incline più alla speculazione che alle battaglie di astronavi, come tutti i capolavori di Lem – e invece l’unico collegamento è dato dal fatto che il protagonista è un’astronauta in pensione. E anche dallo scenario di fondo: un universo parallelo in cui gli attentati terroristici sono all’ordine del giorno, e domina un sistema ossessivo di tecnologie e architetture del controllo (scenario che dall’11 settembre fino all’altroieri sarebbe suonato inquietante e profetico, che tenerezza). Ma per il resto, è una storia che potrebbe svolgersi ai giorni nostri, o meglio in giorni qualunque. Una serie di morti misteriose, che potrebbero come non potrebbero essere collegate, che potrebbero come non potrebbero essere intenzionali. Persone che impazziscono all’improvviso, scienziati che sperimentano nell’ombra, indagini che non devono apparire tali. È una vicenda in cui la verità viene ribaltata più volte, anzi in cui più volte viene messa in discussione l’esistenza stessa di una verità. È tutto un complotto di forze oscure e malefiche? Oppure siamo in balia del caos che ci sballotta e strangola in modo altrettanto crudele, e per di più senza neanche un disegno, un’intenzione, una cattiveria?
Queste domandine da niente porta a farci Lem con Febbre da fieno. (A pensarci bene, in tempi di attivisti russi avvelenati e teorie del complotto che entrano nelle stanze dei bottoni, uno scenario non di meno inquietante e profetico.)

Ma si è fatta ora di pranzo, torniamo coi piedi per terra, parliamo di cibo. 

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Funghi che mangiamo / funghi che mangiano

Molti anni dopo, davanti a un barattolino di pasta madre, ti saresti ricordato di quella mattina in cui tuo padre ti aveva portato a raccogliere funghi. No non è vero, questo è un falso ricordo, perché tuo padre aveva un terrore atavico dei funghi, non li comprava, neanche i prataioli coltivati, altrimenti detti champignon (Agaricus bisporus), e quando vi regalavano un cestino di quelli selvatici, magari mazze di tamburo (Macrolepiota procera), di nascosto li andava subito a buttare. La censura sui funghi a casa tua era così stringente da sfiorare la damnatio memoriae: nonostante in famiglia si fosse tutt’altro che a digiuno di cultura scientifica, veniva tramandata ancora l’obsoleta partizione in tre Regni, animale vegetale minerale. Solo più tardi, a scuola, avresti imparato che accanto ad Animalia e Plantae, dignità e autonomia hanno, tra i viventi, i Fungi (insieme a Protista, Chromalveolata, Bacteria, Archaea).

E ancora più tardi, grazie alle cattive compagnie, avresti conosciuto non solo la summa divisio tra funghi alimentari e funghi velenosi, ma anche una terza categoria (intermedia?) di funghi commestibili, che però nutrono, più che il corpo, la mente – come Psilocybe cubensis, ma se ne parla meglio altrove. E ancora più tardi, andato a vivere da solo, al Nord, avresti apprezzato la possibilità di un intero menu a base di funghi: per antipasto una insalata di ovuli reali (Amanita caesarea) addirittura crudi; per primo una tagliatella con ragù di finferli (Cantharellus cibarius); per secondo delle sbalorditive cotolette di porcini (Boletus edulis); per contorno dei chiodini (Armillaria mellea) trifolati, in Piemonte anche detti famiòle. E ancora più tardi, in una vertigine di layers e debunking che si annullano a vicenda, avresti capito che non è vero che il tartufo non è un fungo come tutti pensano ma un tubero al pari della patata (Solanum tuberosum), a dispetto del nome scientifico è proprio un fungo, e questo vale sia per il pregiatissimo bianco d’Alba (Tuber magnatum) sia per il nero invernale (Tuber melanosporum) sia per lo scorzone (Tuber aestivum).

Ma solo alla fine, e per puro caso, anzi per un’ancestrale fame di pane, ti saresti imbattuto nei funghi più piccoli e più importanti, più diffusi e più sottovalutati dell’intero creato. Non hanno eleganti cappelli come quelli dei boschi, e neppure formano visibili e repellenti strati come le muffe, anzi sono composti di una sola cellula; non si mangiano, anzi siamo noi a dar loro da mangiare, eppure presiedono alla creazione dei cibi più raffinati e fondamentali della civiltà umana: pane e vino, pizza e birra. Sono funghi, avresti scoperto con meraviglia crescente, i lieviti: denominazione impropria, relativa più che altro agli effetti ricercati dai loro allevatori umani, effetti che paradossalmente derivano dagli scarti, dai residui del loro pasteggiare. L’aumento di volume nel pane e nelle brioche, dovuto alla produzione di gas (anidride carbonica, CO2), l’effetto inebriante delle bevande, causato dalla presenza di alcol (etanolo, C2H6O). Il più famoso ed efficace è il lievito di birra (Saccharomyces cerevisiae, letteralmente fungo dello zucchero – che è quello che mangia – della birra), con le sue molteplici varietà specializzate nella panificazione o nella vinificazione; ma ce ne sono di altri, cugini stretti (Saccharomyces exiguus) o parenti lontani (Candida humilis) altrettanto importanti. Saresti così caduto nel tunnel delle fermentazioni, saresti diventato un nerd della microbiologia applicata, ovvero un panificatore casalingo, e un home brewer. E dopo una lunga frequentazione, questi funghi unicellulari ti sarebbero sembrati gli esseri più intelligenti del pianeta: per crearsi un ambiente sempre più favorevole, e risorse di cibo sempre più abbondanti, prima si sono alleati con cereali (Triticum aestivum, Hordeum vulgare) e alberi da frutta (Vitis vinifera) spingendo l’uomo a “inventare” l’agricoltura; poi sono entrati direttamente in gioco, diventando indispensabili nella produzione degli alimenti più basilari e creatori di dipendenza. Sono loro che hanno allevato e selezionato noi nel corso dei millenni, avresti concluso mentre mescoli acqua e farina per creare una pasta madre (nient’altro che una coltura di lieviti selvaggi e batteri). E la stessa cosa avresti pensato di nuovo, durante la pandemia (a proposito, anche i virus sono esseri viventi, secondo alcuni biologi: costituirebbero l’ottavo Regno) quando il lockdown e l’improvvisa febbre da panificazione domestica avrebbero portato all’esaurimento delle scorte di lievito di birra fresco. Perché non solo in mezzo agli alberi della foresta, ma anche tra gli scaffali di un supermercato si può andare a caccia di funghi.

(Il mio contributo al numero zero della rivista Axolotl)