Parole che non lo erano: da autocertificazione a Zoom, la neolingua della pandemia
Pubblicato: 9 giugno 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: CheFare, coronavirus, dai giornali, lingua, media Lascia un commento“Il Coronavirus viaggia nei droplet ma permane anche in aerosol, e gli asintomatici non sono meno pericolosi per cui più ancora delle FFP2 è raccomandato il distanziamento sociale”. Oppure. “Zoom va bene per la Didattica a distanza, ma dopo il bollettino delle 18 vediamoci per un aperiskype”.
Dice un adagio – suggestivo ma non sempre corretto – relativo ai cibi confezionati: leggi l’etichetta, se ci trovi più di tre ingredienti che tua nonna non capirebbe, non comprarlo. Ora, in meno di sei mesi, noi siamo diventati i nostri nonni. Prendiamo le frasi qui sopra, scriviamole su un foglietto e con la macchina del tempo spediamole a inizio gennaio 2020: nessuno ci capirebbe un accidente. Eppure oggi ci sembrano perfettamente sensate, anzi sono linguaggio di uso comune.
La pandemia, tra le tante cose, ha cambiato la lingua. Per sempre? Staremo a vedere, come per le altre cose. Parlare di parole non sembri ozioso, uno sterile esercizio intellettuale, mentre lì fuori a milioni si ammalano e muoiono, a miliardi sprofondano nella povertà: le parole sono il modo in cui ci raccontiamo le cose; secondo i più estremisti, il modo in cui creiamo le cose. Qual è allora la nuova lingua della pandemia?
Non siamo certo i primi a chiedercelo: la Treccani, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità, ha realizzato un elenco dei 100 vocaboli più usati durante l’epidemia di Covid-19; ma dentro, come si può immaginare, c’è di tutto. La linguista Vera Gheno ha fatto un’analisi altrettanto tecnica, ma partendo da un rilievo empirico: ha chiesto a ognuno dei suoi contatti Facebook di indicare le 3 parole personalmente più importanti. Dal lato opposto, l’artista Jacopo Rinaldi ha scritto un bellissimo mantra della fase 1, una poesia d’avaguardia, un rap silenzioso, una lista omerica.
Più modestamente, vorrei qui far notare una cosa: ci sono vari livelli di novità nel linguaggio della pandemia, che funzionano in modo diverso. Possiamo dividere le parole in tre categorie: i neologismi veri e propri, spesso crasi di parole esistenti, quasi sempre calchi dall’inglese (coronabond, aperiskype, infodemia); i termini tecnici usati in un ambito ristretto e improvvisamente note a tutti (cluster, codice ateco, droplet, FFP2, R0, sierologico, spillover); infine le parole più interessanti, quelle in uso già prima, con un significato generico e neutro, che improvvisamente hanno subito un’accelerazione, una torsione, e ora hanno un senso ben preciso, nella maggior parte dei casi minaccioso.
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Come finiscono le pandemie
Pubblicato: 27 Maggio 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: coronavirus, dai giornali, pandemie Lascia un commento“It turns out it wasn’t the giant asteroid that killed the dinosaurs. It was stress about the giant asteroid that killed the dinosaurs.”
La vignetta del New Yorker di David Sipress (del 12 maggio 2020) è fulminante: “Si è scoperto che non fu l’asteroide a uccidere i dinosauri. Fu lo stress per l’asteroide a uccidere i dinosauri”.
Negli ultimi mesi, molti di noi si sono sentiti così: sul punto di essere distrutti, non dal virus, ma dalla paura del virus, e da tutta una serie di ansie che ci girano attorno, e che hanno a che fare con la salute, sì, ma anche con il lavoro, con l’economia, con la socialità, con lo svago, con il clima – insomma, con la vita.
Quando tutto questo sarà finito è la frase che abbiamo detto o sentito dire più volte, da quando tutto questo è iniziato. Ma per l’esattezza, quando è che tutto questo sarà finito? La scienza è categorica: vaccino, o immunità di gregge. Il primo, un giorno sembra tutto sommato a portata di mano, quello dopo, una prospettiva utopica il cui orizzonte è da valutarsi in decenni. La seconda, beh, per arrivarci in tempi brevi, dovremmo passare prima per un’ecatombe.
In realtà altre possibilità esistono, meno drastiche: la mutazione del virus in senso meno aggressivo, per esempio, come nel caso della Spagnola; o la messa a punto di farmaci molto efficaci per curare, se prevenire resta impossibile, com’è successo per l’Hiv. Ma c’è anche qualcosa di completamente diverso. Per scoprirlo però, facciamo qualche passo indietro. Perché se questa è la prima pandemia del millennio, non è certo la prima della storia. Come sono finite, le altre?
Tutte le pesti la peste
Peste. Un termine generico, vago. Anche scherzoso, oggi: piccola peste, si dice di un bambino, senza pensare a che terribile sostrato. È così anche in altre lingue: plague, in inglese, che viene da piaga, dalle piaghe d’Egitto, forse più che dai sintomatici bubboni. Vago, tanto che molte epidemie di peste del mondo antico, probabilmente peste non erano. Per esempio la peste di Atene del V sec a.C. – quella che si portò via Pericle e che addirittura fece scappare dalla paura gli spartani, lì lì sul punto di far strame dell’odiata rivale – era quasi certamente un’altra cosa. Le cause di quell’epidemia, che stando a Tucidide in quel periodo colpì un po’ tutta l’area orientale del Mediterraneo, sono ricostruibili: avanzando l’esercito di Sparta, tutta la popolazione rurale si rifugiò dentro le mura della città, centuplicandone l’affollamento; contemporaneamente, l’unico canale di approvvigionamento era il porto del Pireo, e da lì probabilmente arrivò un carico di batteri. O virus? In celebri pagine lo storico greco descrive gli atroci sintomi della malattia: a partire da questi, gli studiosi di storia della medicina hanno ipotizzato che potesse trattarsi di vaiolo, morbillo, antrace, addirittura ebola o altra febbre emorragica. Attualmente le ipotesi più accreditate sono il tifo detto esantematico o petecchiale, e la febbre tifoide dovuta al batterio Salmonella enterica: sono stati anche analizzati frammenti di DNA antico, ma senza arrivare a certezze.
Anche quella che è passata alla storia come peste Antonina (165-180 d.C.) era probabilmente vaiolo o morbillo. Portata dai soldati romani di ritorno dalle campagne in Asia minore, si diffuse lentamente – non c’era la rapidità di mezzi di comunicazione di oggi – ma inesorabilmente in tutto l’Impero, ovvero nella maggior parte del mondo conosciuto, tanto che si può parlare senz’altro di pandemia. Fu una delle più terribili, se non la peggiore di tutte: le stime vanno dai 5 ai 30 milioni di morti, numeri pazzeschi se rapportati al totale della popolazione, all’epoca molto minore. Fonti parlano di 2000 vittime al giorno nella sola Roma, e di interi villaggi e cittadine in cui non sopravvisse neanche un abitante.
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Un viaggio nel 1° maggio dei lavoratori essenziali, quelli che continuano a lavorare
Pubblicato: 30 aprile 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: 1 maggio, CheFare, coronavirus, dai giornali, interviste, lavoro, quarantena Lascia un commentoFacile dire #iorestoacasa. Non è una questione di volere, ma di potere. Viviamo in una bolla, e questo era noto da tempo, ma è incredibile come pur sapendolo, non riusciamo a cambiare la percezione: la nostra percezione di smartworker da divano, in questo momento, è che l’Italia si è fermata. Il mondo si è fermato. E invece.
I dati delle forze dell’ordine lo raccontano bene: su tutti i cittadini controllati, il 95% ha un valido motivo per uscire di casa. E nella maggior parte dei casi, quel motivo è: andare al lavoro. Lo conferma, ben più tragicamente, la sovrapposizione delle aree di maggior contagio con quelle di maggior produttività: fabbriche aperte, calche sui mezzi di trasporto.
Alla luce di questi fatti, la retorica governativa che tende a colpevolizzare il singolo cittadino per la sua irresponsabile disobbedienza – ieri il padrone di cani, oggi il runner, domani il genitore di bimbi piccoli – appare sempre più per quello che è: propaganda. Anzi, victim blaming.
Comprensibile l’incertezza sulle politiche da adottare, quando anche gli epidemiologi sono spesso in disaccordo e avanzano in territorio ignoto (non è la sconfitta della scienza, è la scienza), ma questo martellare su una sola nota ha il doppio effetto di sviare l’attenzione dalle vere responsabilità, e offrire capri espiatori alla gente sempre più esasperata. (Altra retorica: si è iniziato a dire che non bisogna parlare di social distancing ma di distanziamento fisico, però è proprio una frattura sociale, una frattura multipla, quella che stiamo vivendo.)
Coronavirus e lavoro: strano 1 maggio, quello del 2020, per esempio. Il primo in 130 anni (con la parentesi del Ventennio fascista in Italia) senza manifestazioni e piazze piene. Ma ci sono effetti meno clamorosi, e più pesanti. Il coronavirus, amplificatore di disagi e disuguaglianza, ha diviso il mondo del lavoro in tre segmenti.
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Le fasi del cibo in quarantena spiegate con la Trilogia dell’Area X
Pubblicato: 29 marzo 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: coronavirus, dai giornali, Dissapore, food, Jeff VanderMeer, libri, quarantena, trilogia dell'area x Lascia un commentoVoi che siete gente studiata le conoscete meglio di me, le cinque fasi di elaborazione del lutto. Identificate dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross, fondatrice della psicotanatologia ed esponente di punta dei death studies(allegria), sono: negazione, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione. La teoria delle cinque fasi è stata sviluppata osservando le reazioni delle persone cui viene fornita una prognosi mortale, malati terminali e incurabili insomma. Riguarda quindi la propria fine, anche se viene utilmente applicata anche a chi deve elaborare un lutto nel senso comunemente inteso, cioè la perdita di una persona cara, e persino un lutto ideologico.
E noi, che tipo di elaborazione dovremo mettere in atto. Ovviamente, è troppo presto per parlarne: è sempre troppo presto per parlarne, finché non è troppo tardi. Secondo gli alfieri del “quando tutto questo sarà finito”, a un certo punto il virus scomparirà all’improvviso così come magicamente è apparso; le misure restrittive saranno tolte da un giorno all’altro; di botto, mentre un attimo prima ci guardavamo in cagnesco dai balconi, scenderemo tutti in strada abbracciando gli sconosciuti. Vi pare possibile?
Ma di perdite, se non vogliamo parlare di lutti, ne dovremo affrontare, e anche grosse. La perdita delle vittime, il lutto letterale: che andando avanti così, prima o poi a ognuno di noi verrà a mancare un caro, un amico, un conoscente. Poi ci saranno le conseguenze psicologiche dei mesi di clausura: saranno pesanti e a scoppio ritardato per i bambini costretti in casa, per le persone con disagi psichici – per non parlare di quelle che subiscono violenze domestiche. Ci saranno le conseguenze economiche, che la crisi del 2008 sarà una passeggiata di salute al confronto: magari servirà a mettere in discussione il modello di crescita infinita e drogata che finora abbiamo sempre considerato l’unico possibile – i più ottimisti già parlano di “fine del neolibersimo”, quel che è certo è che niente tornerà come prima, e questo per certi versi è un bene.
Infine, continuando ad allargare il cerchio, ci saranno conseguenze sul nostro stile di vita in generale: forse invece di abbracciarci, continueremo a mantenere le distanze, a guardarci con un po’ di diffidenza. Anche, e soprattutto, a tavola: forse smetteremo di affollarci ai banconi dell’apericena, forse i ristoranti – come ora sta succedendo in Cina, che è due mese avanti a noi – dimezzeranno i coperti. Forse, forse, forse. Ma poi, fondamentalmente, quello che succederà non lo sappiamo.
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Cosa succederebbe se scomparissimo tutti dalla faccia della Terra?
Pubblicato: 25 marzo 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Alan Weisman, animali, CheFare, coronavirus, dai giornali, Il mondo senza di noi, la terra dopo di noi, libri, scienza, Telmo Pievani Lascia un commentoQualche giorno fa, in questo tempo che sembra un’ininterrotta domenica pomeriggio silenziata da una coltre di neve, e invece era martedì e c’erano già 22 gradi, ho sentito un uccello cantare fuori dalla finestra, e non l’ho riconosciuto. Non era uno degli amabili piccioni, e neanche una delle ancor più adorabili cornacchie; non era il passero solito, e non era neppure il merlo che da qualche settimana bazzica il cortile. Giurerei di non averlo mai sentito, ma non sono un ornitologo e non ho un grande orecchio musicale, ho attribuito il tutto alla suggestione, al riverbero nelle strade vuote.
Ho riabbassato lo sguardo sul computer, lì dove succedono le cose, ma per una di quelle strane coincidenze – come quando da bambino imparavi una parola nuova e da quel momento iniziavi a sentirla dappertutto – tra le news sui nuovi contagiati e le polemiche sui fantomatici farmaci che funzionano, hanno iniziato a spuntare loro: gli animali. Prima in estremo oriente, dove tutto è iniziato: un esercito di scimmie che invade le piazze deserte di Bangkok, i cervi del Nara park in Giappone che girano per la città.
Ma presto il lockdown è arrivato anche da noi, con le sue conseguenze, immaginabili o sorprendenti. La pianura padana subito meno inquinata, come era successo anche in Cina, e okay. Ma anche le acque trasparenti della laguna di Venezia: ah, quindi il beige fogna non era il colore di default?
E poi, e soprattutto, gli animali: i delfini più intrepidi che mai nel porto Cagliari, e su fino a Trieste, le anatre nella barcaccia in Piazza di Spagna a Roma e i daini nelle piscine ancora in Sardegna. A Milano vengono filmate lepri nei giardini e persino cigni sui navigli. È come se gli animali non fossero scomparsi, ma se ne stessero ben nascosti negli angoli, pronti a balzare fuori alla prima occasione, non appena noi umani facciamo un passo indietro.
“La natura che si riprende i propri spazi” è diventato un vero e proprio genere giornalistico: da quando ho avuto l’idea di questo articolo al momento in cui lo sto scrivendo, gli avvistamenti e i conseguenti articoli e post di social si sono moltiplicati. Sono parentesi per rifiatare in mezzo a tante notizie ansiogene; sono manna dal cielo per gli ambientalisti: “quando tutto questo sarà finito”, come dice il mantra del momento, dovremo riconsiderare il nostro posto nella natura, insieme a mille altre cose, dall’organizzazione della sanità al reddito di base universale (vaste programme, ma speriamo).
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Una giornata da recluso: diario della quarantena e guida alle risorse culturali open
Pubblicato: 13 marzo 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: CheFare, coronavirus, media, quarantena Commenti disabilitati su Una giornata da recluso: diario della quarantena e guida alle risorse culturali openStamattina mi sono svegliato con l’angoscia. E non era l’ansia generica da contagio, o il basso continuo della preoccupazione per certi familiari lontani, persone anziane e con patologie pregresse, come si dice. Era una cosa più sottile.
Non so a voi, ma a me non mi sta pesando tanto la quarantena fisica, quanto quella mentale. Uscire, uscivo poco già prima: certo ricordarsi l’autocertificazione quando si scende a buttare l’immondizia, pensare di dover dare una giustificazione credibile se si fanno due passi in più nelle strade deserte, non aiuta.
Aggiungete che qui in Piemonte le scuole non hanno mai aperto da prima delle vacanze di carnevale (21 febbraio), per cui di fatto siamo in mezza clausura da tre settimane, e quando leggo altrove “quarantena giorno 3”, quel che penso è: tsk, pivelli. Ma quello che mi sta stressando – e non credevo, o almeno non credevo così presto – è la gabbia mentale. Non si parla d’altro, non si pensa ad altro. Anche volendo, anche sforzandosi.
Oggi, stranamente, avevo qualche ora libera: bene, mi sono detto, mi metto a scrivere quel longform che rimando da settimane. Non era neanche una cosa leggera, o inattuale: climate change e apocalissi, estinzioni e de-estinzioni, fini dei mondi conosciuti e strategie di sopravvivenza. Be’, mi sono fatto forza per cercare un barlume di quell’entusiasmo che avevo quando lo proposi ma niente, l’idea mi rendeva felice come se avessi dovuto fare un pezzo sulle fantasie dei copri-divano.
Passerà? Passerà. Come ne usciremo? Non si sa. Per ora saltabecchiamo dalle timeline dei social ai siti dei giornali: la pandemia è prima di tutto infodemia, compulsione da refresh.
Dice ma dovrai pure lavorare: eh sì, peccato che quando non leggo scrivo, e indovinate un po’?, scrivo di libri che parlano di epidemie, per esempio. Certo, c’è modo e modo di informarsi sullo stesso argomento: ci sono le intelligenti divulgazioni di Oggiscienza e di Roberta Villa, ci sono interessanti riflessioni su come il Coronavirus stia mettendo a nudo le fragili impalcature della nostra industria culturale e delle nostre stesse vite. Sta sorgendo tutta una letteratura dell’emergenza, con consigli utili pratici e psicologici, con teorie e approfondimenti generali. Okay, ma non si sfugge. Si seleziona, ma non si scappa.
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Febbre non è il romanzo del Coronavirus, ma qualcosa ci insegna
Pubblicato: 10 marzo 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Anna Mioni, codice edizioni, coronavirus, dai giornali, Esquire, febbre, libri, Ling Ma, recensioni Lascia un commentoLa febbre di Shen è un ceppo particolarmente aggressivo. Si contrae inalando. L’area di origine della febbre è Shenzhen, in Cina.
Nelle sue fasi iniziali, la febbre di Shen è difficile da individuare. I primi sintomi includono mal di testa, respiro faticoso e spossatezza. Poiché questi sintomi sono spesso scambiati per un raffreddore comune, di rado i pazienti sono consapevoli di aver contratto la febbre di Shen. A volte possono sembrare produttivi e sono ancora in grado di eseguire le normali attività quotidiane. Tuttavia, ben presto i sintomi iniziali peggiorano.
Al momento la febbre di Shen è considerata un focolaio, non un’epidemia. La velocità di trasmissione non è abbastanza rapida. Per ora è piuttosto contenuta.
Sounds familiar? Queste frasi, che sembrano provenire da una cronaca delle ultime settimane, sono invece tratte dal romanzo Febbre, di Ling Ma (Codice edizioni, traduzione di Anna Mioni), uscito in America nel 2018 e da noi a metà 2019. Cioè appena qualche mese prima che iniziasse l’era del coronavirus. Gli elementi in comune sono così tanti che mettono i brividi: più che una suggestiva somiglianza, sembra una terribile profezia.
(Facile profezia, si dirà, dato che almeno dalla Sars dei primi anni zero, la comunità scientifica si attende il contagio da oriente. Basta leggere quello che scrive Agnese Codignola in un libro che parla di tutt’altro, Il destino del cibo, pubblicato a febbraio 2020 ma ovviamente ‘chiuso’ prima: “La Cina (…): con un miliardo e mezzo di cittadini da sfamare, il paese cerca affannosamente fornitori, per la carne come per il latte e per gli altri alimenti basilari le cui produzioni locali oggi, oltre a essere del tutto insufficienti, sono pericolosissimi serbatoi per infezioni che potrebbero innescare pandemie, che molti temono e che qualcuno ritiene ormai inevitabili”.)
Purtroppo, o per fortuna, la similitudine tra la febbre di Shen e l’epidemia da Covid-19 finisce presto. L’infezione del romanzo infatti non è causata da un virus ma da spore fungine. Soprattutto, non si trasmette da persona a persona ma tramite le cose: l’esatto opposto del Coronavirus. E poi, porta a un collasso totale della società, disegnando uno scenario post-apocalittico in cui pochi sopravvissuti si aggirano tra le rovine delle metropoli: cosa che qui, insomma, nonostante il crollo delle borse mondiali e qualche inquietante segnale di isteria di massa, spereremmo di evitarci. Con tutte le differenze, però, qualcosa Febbre può insegnarci. Come e più delle altre pandemie letterarie.
(Continua su Esquire)
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