Nuovo DNA Antico
Pubblicato: 6 agosto 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Adam Rutherford, Bollati Boringhieri, Breve storia di chiunque sia mai vissuto, Chi siamo e come siamo arrivati fin qui, dai giornali, David Reich, DNA, neanderthal, Raffaello Cortina, scienza, tascabile Lascia un commento
articolo che state per leggere è scritto in italiano, ma il suo autore è italiano solo in minima parte. Almeno questo è quanto si dovrebbe evincere dal mio DNA: 35% greco, 22% mediorientale, 16% sardo, 10% dell’Asia occidentale, e gli spiccioli rimanenti italiano, iberico, nordafricano. Un paio di anni fa mia moglie ed io abbiamo lasciato dei residui organici su dei tamponi – in sostanza ci siamo strofinati in bocca una specie di cotton fioc, per non contaminare il reperto l’abbiamo fatto dopo alcune ore di digiuno – che poi abbiamo inviato per posta a una società americana specializzata. Per 50 euro o poco più, dopo qualche mese ci sono arrivati via email i risultati. Il responso mi ha permesso di fantasticare sui miei antenati. Tutto molto suggestivo, ma quasi completamente sbagliato, e non solo perché l’affidabilità scientifica di questi test casalinghi è ancora bassa.
La genetica contemporanea, infatti, non è davvero capace di questo – svelare nel dettaglio il percorso genealogico di ognuno di noi –, ma allo stesso tempo è capace di molto di più. C’è una branca, in particolare, che negli ultimi anni ha portato una nuova ondata di ricerche e, come succede in questi casi, molti entusiasmi e qualche scetticismo: l’analisi del DNA antico, che sta fornendo nuove prove utili alla ricostruzione del sentiero di Homo sapiens, delle sue migrazioni, delle parentele evolutive e le convivenze con altre e differenti forme umane.
La scienza dell’evoluzione è un percorso interdisciplinare che comprende il dialogo tra tante discipline: ecologia, geologia, linguistica, paleoantropologia, anatomia comparata. In questo puzzle, la genetica è diventata una tessera decisiva proprio grazie allo studio del DNA antico, di quelle parti di genoma rintracciabili nei siti paleoantropologici da fossili di decine di migliaia di anni fa, possibile oggi grazie a tecniche di campionamento e analisi sempre più raffinate.
Proviamo a raccontare questo campo di ricerca, ancora in espansione, usando come guida due libri divulgativi di successo: Chi siamo e come siamo arrivati fin qui di David Reich (Raffaello Cortina, 2019) e Breve storia di chiunque sia mai vissuto, di Adam Rutherford (Bollati Boringhieri, 2017). Rutherford, scrittore e divulgatore, racconta il lavoro di vari scienziati, tra cui lo stesso Reich. Reich è stato allievo di Luigi Luca Cavalli-Sforza – decano della genetica delle popolazioni scomparso nel 2018 – e ha iniziato la sua carriera lavorando nel laboratorio di Svante Pääbo, tra i fondatori della paleogenetica e primo esploratore del DNA neanderthaliano. Oggi ha la sua equipe di ricerca ed è uno dei capofila dello studio del DNA antico. Per orientarci ancora meglio, abbiamo fatto qualche domanda a Guido Barbujani, genetista e autore tanto di ricerche scientifiche quanto di capisaldi della divulgazione in Italia (da L’invenzione delle razze, all’ultimo Sillabario di genetica).
(Continua su Il Tascabile)
Cosa succederebbe se scomparissimo tutti dalla faccia della Terra?
Pubblicato: 25 marzo 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Alan Weisman, animali, CheFare, coronavirus, dai giornali, Il mondo senza di noi, la terra dopo di noi, libri, scienza, Telmo Pievani Lascia un commentoQualche giorno fa, in questo tempo che sembra un’ininterrotta domenica pomeriggio silenziata da una coltre di neve, e invece era martedì e c’erano già 22 gradi, ho sentito un uccello cantare fuori dalla finestra, e non l’ho riconosciuto. Non era uno degli amabili piccioni, e neanche una delle ancor più adorabili cornacchie; non era il passero solito, e non era neppure il merlo che da qualche settimana bazzica il cortile. Giurerei di non averlo mai sentito, ma non sono un ornitologo e non ho un grande orecchio musicale, ho attribuito il tutto alla suggestione, al riverbero nelle strade vuote.
Ho riabbassato lo sguardo sul computer, lì dove succedono le cose, ma per una di quelle strane coincidenze – come quando da bambino imparavi una parola nuova e da quel momento iniziavi a sentirla dappertutto – tra le news sui nuovi contagiati e le polemiche sui fantomatici farmaci che funzionano, hanno iniziato a spuntare loro: gli animali. Prima in estremo oriente, dove tutto è iniziato: un esercito di scimmie che invade le piazze deserte di Bangkok, i cervi del Nara park in Giappone che girano per la città.
Ma presto il lockdown è arrivato anche da noi, con le sue conseguenze, immaginabili o sorprendenti. La pianura padana subito meno inquinata, come era successo anche in Cina, e okay. Ma anche le acque trasparenti della laguna di Venezia: ah, quindi il beige fogna non era il colore di default?
E poi, e soprattutto, gli animali: i delfini più intrepidi che mai nel porto Cagliari, e su fino a Trieste, le anatre nella barcaccia in Piazza di Spagna a Roma e i daini nelle piscine ancora in Sardegna. A Milano vengono filmate lepri nei giardini e persino cigni sui navigli. È come se gli animali non fossero scomparsi, ma se ne stessero ben nascosti negli angoli, pronti a balzare fuori alla prima occasione, non appena noi umani facciamo un passo indietro.
“La natura che si riprende i propri spazi” è diventato un vero e proprio genere giornalistico: da quando ho avuto l’idea di questo articolo al momento in cui lo sto scrivendo, gli avvistamenti e i conseguenti articoli e post di social si sono moltiplicati. Sono parentesi per rifiatare in mezzo a tante notizie ansiogene; sono manna dal cielo per gli ambientalisti: “quando tutto questo sarà finito”, come dice il mantra del momento, dovremo riconsiderare il nostro posto nella natura, insieme a mille altre cose, dall’organizzazione della sanità al reddito di base universale (vaste programme, ma speriamo).
(Continua si CheFare)
Siamo tutti razzisti?
Pubblicato: 5 luglio 2018 Archiviato in: Articoli | Tags: Adelphi, dai giornali, Esquire, l'arte della matematica, libri, razzismo, scienza, simone weil Lascia un commento“Terroni di merda!”
“È finita la pacchia!”
“Senti che puzza / scappano anche i cani / stanno arrivando i napoletani”
Io lo so cosa state pensando: ecco, un pezzo di attualità politica, il solito pezzo di attualità politica, la polemica, anzi la polemichetta. E invece no. Questo pezzo nasce dallo stupore che ho provato quando mi sono trovato davanti a una frase scritta nel 1940, e dalle conseguenti riflessioni che arrivano a scavare nelle radici preistoriche di certi comportamenti. Attualità, come vedete, poca. Polemichetta, forse.
La frase è la seguente:
Come, hai preso il mio coadiutore per un napoletano! Che bestemmia! È mai venuto fuori da quelle parti, in quanto a geni politici, qualcosa che non sia un vile intrigante? Non trasuda forse, lui, Firenze da ogni poro? E non ricordi Palazzo Gondi, a Firenze, in piazza della Signoria, un po’ in fondo a sinistra guardando il Palazzo della Signoria? È quasi disadorno, ma bellissimo. L’abate napoletano di cui parli tu è, suppongo, l’abate Galliani; di lui ho letto solo alcuni estratti di lettere; ma sono più che sicura che somigliava a ben poco a Retz.
Ma chi l’ha scritta? È stata Simone Weil, la grande pensatrice, una delle menti più brillanti e stravaganti del 900. Lo ha fatto in una lettera al fratello André, insigne matematico, che all’epoca si trovava in carcere perché renitente alla leva (“ritengo mio dovere fare il matematico, non la guerra”). La corrispondenza tra i due è stata pubblicata di recente da Adelphi, in un librino che si chiama L’arte della matematica, nell’edizione italiana curato da Maria Concetta Sala. Un libro smilzo e pieno di meraviglie, di quelli che per ogni pagina potresti stare a pensare per una giornata.
Il sanscrito, l’algebra babilonese vs la geometria greca, la politica dei cardinali a corte nel ‘600, la fisica e l’epica: questi gli argomenti, questo il tono dei discorsi tra i due. Simone Weil è capace di condire le sue lettere con disegni di triangoli e dimostrazioni matematiche; ma il suo è sempre un meta-discorso: come quando fa discendere dalla scoperta dell’incommensurabilità tra il lato del quadrato e la sua diagonale (il problema più noto come “quadratura del cerchio”, che secondo la leggenda venne tenuto segreto dai pitagorici perché scalfiva la perfezione dell’universo) una serie di conseguenze prima filosofiche e poi politiche, che sfoceranno nel crollo della civiltà greca.
Perciò Simone scrive al fratello: visto che di tempo libero nei hai, perché non mi spieghi a cosa lavori, su cosa si stanno spaccando la testa i matematici contemporanei? E André, che pure doveva essere un bel tipino, uno che nelle pause di lavoro si rilassava leggendo Balzac, non si fa incantare da cotanto sfoggio di cultura e replica: tentare di spiegare il mio lavoro a te, come a tutti i non addetti, sarebbe come far ascoltare una sinfonia a un sordo. Tié. Ma poi ne parla eccome: e in termini che rendono la lettura al profano non solo possibile, ma proficua – in termini artistici, da cui il titolo.
Bene. Com’è possibile allora che due delle migliori menti della loro generazione, un rigo dopo aver fatto acutissime osservazioni sulla misurazione delle piramidi, cadano in generalizzazioni come “napoletano = vile ed intrigante”? Stiamo parlando di ottanta anni fa, non ottocento o ottomila; di evo moderno, e di una epoca travagliata e oscura in cui uguaglianza e libertà venivano messe in discussione, e nessuno può testimoniarlo meglio di Simone Weil, che avrebbe sacrificato non solo il proprio pensiero ma la propria stessa vita. Eppure. Eppure anche André, in un altro scritto, avrebbe affermato:
Continuo sempre la lettura del cardinale… può essere anche simpatico, ma non si combina niente di grande con una mente così contorta. Ho fatto inorridire mia sorella quando le ho domandato se fosse originario di Napoli; sembra invece che i Gondi venissero da Firenze. Non possiede però lo spirito fiorentino, che è semplice e grande. Rimango dell’idea che nelle vene debba aver avuto sangue meridionale (intendo dell’Italia del Sud, ovviamente).
La domanda quindi è semplice: il razzismo è inevitabile? Il quesito è in qualche modo complementare a quello che qui Fabio Deotto ha sollevato partendo dal film Suburbicon di George Clooney: il razzismo è inconsapevole? Ora invece ci chiediamo: se anche una open minded come Simone Weil scivola nel pregiudizio razziale, che speranza c’è? Siamo tutti razzisti?
(disclaimer: non ho tanti amici neri, ma quei pochi mi perdoneranno se oso accostare uno stereotipo all’altro, una discriminazione all’altra. Napoletani e afroamericani non sono la stessa cosa, chiaro; ma ricordiamo che proprio per colpa dei meridionali, gli italiani che tra 800 e 900 emigravano in America non erano classificati come razza bianca ma “negroide”.)
(continua, in una versione modificata, su Esquire)
L’uomo è l’unico animale in grado di dire che l’uomo è l’unico animale in grado di dire che l’uomo è l’unico…
Pubblicato: 17 giugno 2018 Archiviato in: Articoli | Tags: Adelphi, al di là delle parole, Alfabeta2, animalia, aristide maselli, carl safina, dai giornali, libri, recensioni, scienza Commenti disabilitati su L’uomo è l’unico animale in grado di dire che l’uomo è l’unico animale in grado di dire che l’uomo è l’unico…(Per gentile concessione dell’autore, pubblico questo articolo di Aristide Maselli uscito sulla rivista online Alfabeta2)
C’è una pubblicità televisiva di qualche anno fa che mi torna in mente ogni volta che penso a Wittgenstein. È la pubblicità di una merendina, ma all’inizio si vedono solo due camionisti affaticati e sudati nel deserto; si fermano a un passaggio a livello, ma il treno non arriva, allora scendono per vedere che succede, il paesaggio è da allucinazione, sui binari passa un pinguino che fa andare un carrello. “Squeck squeck!”, fa il pinguino – “Squeck squeck!”, risponde pronto uno dei due umani. I quali poi si guardano, deducono di aver bisogno di una pausa rinfrescante, e aprono la cella frigo del camion, ristorandosi con lo snack di cui è inutile vi dica il nome, a questo punto. Snebbiata la mente, un camionista fa all’altro, quello che aveva risposto al pinguino: “Ma che vi siete detti?”. E lui: “Squeck squeck!”.
La frase di Wittgenstein è quella famosa: “Se un leone potesse parlare, non lo capiremmo”. Ora io non voglio fare la fine di quelli che su Amazon lasciano una stella a Joyce perché non sa usare le virgole, però mi pare che stavolta il grandissimo pensatore tedesco abbia toppato. Non lo capiremmo? E certo! È esattamente questo il motivo per cui non può parlare. Il leone non parla, ruggisce. Proprio come il pinguino fa squeck (almeno quello della pubblicità). E dietro il ruggito non ci sono delle parole che non riescono a uscire: perciò fanno ridere e un po’ pena quei “traduttori” dal linguaggio dei cani o dei gatti che ogni tanto saltano fuori. Quando il pinguino dice squeck, quello che vuole dire è precisamente: squeck.
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Breve storia del silenzio
Pubblicato: 5 giugno 2018 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, egg, Esquire, jennifer egan, letizia pezzali, libri, musica, naked city, robert fripp, scienza, sting Lascia un commentoChe suono fa il silenzio? La domanda potrà sembrare oziosa. Ma d’altra parte quale domanda – se escludiamo quelle due o tre fondamentali sul senso della vita e dell’universo (“come ti chiami?”, “quanti anni hai?”, “che fai stasera?”) – quale domanda non lo è.
Siamo abituati ad associare il silenzio a valori positivi. Dipende dal fatto che viviamo in una società iper tecnologica, iper connessa, iper stimolante. Il silenzio diventa allora il rifugio, la pausa, l’oasi: 5 minuti di silenzio, lasciatemi un po’ in silenzio. Diventa lo chalet in montagna, la cuffia con rumore bianco. È a partire dagli anni 60 che si inizia a parlare di “inquinamento acustico”, e che negli studi scientifici viene fuori che la vicinanza a fonti di rumore forte e costante (autostrade, aeroporti) comporta danni alla salute, in termini di pressione alta e disturbi cardiaci vari, perdita del sonno, acufeni.
Il silenzio quindi è considerato un’assenza, una mancanza di stimoli, negativi o positivi che siano. E come tale viene utilizzato in molte ricerche scientifiche: finché non ci si accorge che, be’, non è proprio così. Nel 2006 una ricerca condotta da Luciano Bernardi vuole indagare gli effetti fisiologici della musica: scopre, come c’era da aspettarsi, che a determinati tipi di suoni il corpo umano reagisce in modo determinato, e diverso. Quello che sorprende i ricercatori è che nelle pause tra un brano e l’altro il silenzio, usato come “controllo”, produce invece degli effetti come la musica. Sono effetti rilassanti, e sono maggiori rispetto a quelli prodotti da un silenzio “assoluto”: una pausa, una interruzione tra due suoni, stimola positivamente il cervello più che un periodo prolungato di calma.
(continua su Esquire)
Storia di due post verità, tre racconti fantastici e un sacco di lemming (ancora vivi)
Pubblicato: 6 febbraio 2017 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Disney, lemming, libri, prismo, scienza Lascia un commentoSono tempi duri, sono tempi fantastici. Insomma, sono tempi di post verità. Che è stata puntigliosamente definita come una cosa che non è una semplice bugia – le palle ci sono sempre state, da che l’uomo parla – ma è una bugia che anche quando viene sgamata come tale, continua a produrre i suoi effetti, insomma la gente continua a crederci. O peggio, alla gggente non interessa proprio sapere se quella cosa sia vera o falsa, siamo oltre la verità, nella post verità, appunto. Ora questa definizione molto precisa contiene una trappola, che si cela nella logica del prima/dopo: prima c’erano solo le falsità, adesso ci sono le post verità. Come se fossero una invenzione tutta contemporanea insomma: colpa di facebook, e degli hacker bielorussi.
E invece. Nel 1957, giusto sessant’anni fa, James Algar (un regista che aveva esordito come animatore nel seminale Biancaneve del 1937) girava il documentario White wilderness (Artico selvaggio in italiano), che sarebbe uscito l’anno dopo per la Disney, e nel ’59 avrebbe addirittura vinto l’Oscar e l’Orso d’oro a Berlino. Bene, questo documentario spacciava il mito del suicidio di massa dei lemming, roditori dell’estremo nord. Si vedevano questi topastri correre disperatamente e infine buttarsi in mare in grandi quantità. La cosa appare clamorosa: come, delle bestie che non hanno l’istinto di sopravvivenza! E che neanche si lasciano morire, come singoli individui malati e depressi, ma attivamente corrono verso la morte. E in orde, per di più!
Peccato che fosse tutto finto. A partire dalla location: l’Alberta, in Canada, dove non ci sono lemming per niente – e dove non c’è neanche il mare, infatti quello dove le povere bestie sono tuffate è un fiume. Bestie portate lì apposta da chissà dove. Costruito anche il setting: un meccanismo rotante dove i poverini correvano come criceti, per farli sembrare una massa sterminata quando invece erano quattro gatti, pardon topi. Infine il salto, mortale. (La storia è stata raccontata nel dettaglio nel 2002 da Paolo già all’epoca Attivissimo contro le bufale d’ogni tempo e luogo; e che tenerezza fa guardare quelle vecchie pagine internet, sono dieci anni, sembra un secolo).
Sennonché, per completezza di informazione, bisogna aggiungere.
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