Psycho come non l’avete mai letto

Una delle cose che affascinano di più gli spettatori della prima stagione di Fleabagè il fatto che la protagonista nei momenti più intensi e improbabili – un vertiginoso dialogo, una scopata come si deve – si gira verso la camera, verso di noi, e ci spara una battuta micidiale, aggiungendo ulteriori layer di lettura e di ironia. Questo costante abbattimento della quarta parete è più divertente che dirompente, come negli a parte dei commedianti a teatro – e in effetti Phoebe Waller-Bridge dal teatro viene, dal teatro ha adattato la serie TV.

Una delle cose che affascinano di più gli spettatori della seconda stagione di Fleabag è che questo giochino continua ma il coprotagonista, il prete di cui la ragazza si innamora, sembra accorgersi di qualcosa. Non capisce appieno, non sente quello che lei dice, ma percepisce un’assenza, una distrazione (non dice cos’hai detto o con chi parlavi, chiede: dov’eri). Perché? Come cacchio fa?

Possiamo fare diving in spiegazioni al limite dell’esoterico: ci azzeccano bene interpretazioni di tipo psicanalitico, o di stampo religioso, perché il prete è in contatto con Dio e quindi avverte la presenza di un altrove rispetto alla realtà della serie-mondo (e l’altrove siamo noi: questo a sua volta può essere letto in senso cattolico, giansenista, gnostico), o semplicemente in chiave romantica.

Guarda in camera anche Belmondo per tutto Fino all’ultimo respiro. Guarda in camera, ma solo alla fine, sollevando gli occhi mentre l’inquadratura stringe, Norman Bates in Psycho. Guarda “in camera” uno dei due vecchioni che spiano Susanna prima di provare a insidiarla, nella versione del mito biblico dipinta dal Guercino, ed è una chiamata in correità: ehi tu porco, anche tu, mio caro spettatore del quadro, stai spiando la ragazza nuda come noi, quindi non fare tanto l’anima candida, non ci giudicare. Ma forse, anche quelle di Belmondo e Bates (per non parlare di Waller-Bridge), più che a parte teatrali, più che richieste di aiuto o dialogo, sono chiamate in correità.

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Dogperson

(Questo racconto è stato pubblicato dalla rivista online Minima & moralia il 5 giugno 2019)

Dice che quando vedi un cane che ti viene incontro, la cosa che non devi proprio fare anche se hai paura, anche se l’animale ti sembra aggressivo – soprattutto se tieni paura, soprattutto se l’animale è aggressivo – l’ultima cosa che devi fare è metterti a correre. O perlomeno, così mi dicevano a me quando ero piccolo, e avevo paura dei cani (anche ora ho paura dei cani, ma ho imparato a evitarli, o forse sono loro che stanno alla larga, perché sono anni che non ne vedo in giro). Il cane, mi spiegavano, fiuta la tua paura, e questa cosa lo eccita, gli risveglia il cacciatore pure se non era partito con idee cattive: anzi no, si contraddicevano, il cane pensa che vuoi giocare e ti insegue, tentavano di rassicurarmi. Tutta sta predica non ha mai impedito che, all’atto pratico, ogni volta mi mettessi a correre: con le conseguenze che potete immaginare. Il problema del cane è che è una bestia, che non ci puoi parlare; è che non capisci mai che cosa vuole fare, fino a che non lo ha fatto. Ci ripensavo proprio l’altro giorno perché oh, sentite che mi è successo.

Tornavo a casa in pullman, stanco e stressato come ogni finale di giornata, e pensavo ai cazzi miei, ma ci pensavo così forte che per poco non mi perdevo la fermata, e sono sceso a porte quasi chiuse, nel buio del controviale. Sono sceso all’ultimo momento e perciò non l’ho vista subito, era già un po’ lontana, al buio non l’ho vista finché lei non ha visto me, guardandomi di sfuggita e poi girandosi e mettendosi a camminare a testa bassa. Quello è stato l’unico momento in cui l’ho vista in faccia, i nostri sguardi non si sarebbero mai più toccati, neanche dopo. Per quel breve momento mi è sembrato che assomigliasse a Lei, anche se era ovvio che non poteva essere Lei, per una serie di motivi di ordine storico e geografico, ma poi da dietro, con i capelli castani e lisci, e il taglio medio, assomigliano tutte a Lei, e quindi in un certo senso, non so se mi spiego, era Lei. Camminava, stava quella ventina di metri avanti a me, quel vantaggio che le aveva dato l’essere scesa dal pullman come una persona normale, e non come uno stonato. Purtroppo andava nella mia stessa direzione: non ci ho messo neanche un attimo a capire che, qualsiasi cosa avessi fatto, ero comunque fottuto.

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Questo pomodoro ti spiegherà come funziona il capitalismo

pomodori

Ci voleva una strage, dodici braccianti africani morti in un incidente stradale in Puglia, per richiamare l’attenzione su condizioni di lavoro, e vita, che non sono tanto differenti dalla schiavitù: mancano solo le catene di ferro in senso materiale (e non sempre).

Ci vuole sempre una strage, e uno è persino tentato di dire ben venga, il sacrificio di vite umane (basta che si tratti di vite che non sono la mia), se serve a far capire qualcosa, a cambiare qualcosa. Addirittura il ministro dell’ordine pubblico, che se i negretti non stanno dietro al grilletto di solito tacet, ha fatto la voce grossa, ha detto caporali ha detto sfruttamento ha detto mafia. Allora uno dice vedi, menomale, anche lui farà qualcosa di buono come quell’altro, sgomineremo il caporalato. Perché la colpa è dei caporali, no? No.

I caporali di fatto sono la penultima ruota del carro: sono quelli che provvedono alla logistica, diciamo così, in una situazione senza regole e organizzazione. Dal reclutamento per il lavoro a giornata, tutti in fila prima dell’alba tu vieni tu no (uh? Come nell’ottocento? Sì, proprio come nell’Ottocento), al trasporto per e dai campi, fino alla sistemazione per la notte, baracche a 5 stelle com’è noto. Perché non vanno ai centri per l’impiego? Magari al contrario di quello che si dice, qualche italiano che questi lavori li vuole ancora fare c’è, che ne sai, e sta iscritto al collocamento. Non ci vanno perché sanno che i proprietari delle terre offrono poco e niente, qualche euro a giornata, se non qualche centesimo a quintale, e quindi a fare la raccolta ci può andare solo chi è veramente disperato. Ah, ok. Allora la colpa è dei proprietari terrieri, no? No.

I proprietari delle terre – che sarebbe eccessivo chiamare agricoltori anche se spesso godono delle agevolazioni e delle sovvenzioni destinate ai coltivatori diretti, ma sarebbe forse ingeneroso definire latifondisti – sono costretti a cercare di pagare tutti il meno possibile, perché i loro margini di guadagno sono bassi, e si riducono sempre di più. Infatti nella maggior parte dei casi i venditori non possono stabilire i prezzi, ma li subiscono. Sembra strano ma è così, di solito chi vende una cosa la mette a un certo prezzo, ma qua è il contrario.

Dipende dalla particolare situazione: in ogni zona esistono poche, o addirittura una sola industria di trasformazione (quella che fa i pelati per capirci). Quella arriva da te e dice oggi per un quintale di pomodori non ti do più 2 euro, te ne do uno. Non ti sta bene? Non compro. E i pomodori ti marciscono in casa. In economia si chiama monopsonio, fa ridere ma è il contrario del monopolio, dove c’è un solo venditore, qua c’è un solo compratore, e può essere anche peggio. Allora, evviva, la colpa è dell’industria, no? No.

L’industria a sua volta è schiava della GDO. Se il nome non ti dice niente, sappi che è quella che ti mette in tavola il 90% delle cose che mangi. È la Grande Distribuzione Organizzata, quella che fa da intermediario tra l’industria e il venditore diretto, ovvero i supermercati e le catene. La GDO fa esattamente come fa l’industria con gli agricoltori, anzi peggio. Il meccanismo è quello delle aste, perché i venditori sono tanti e il compratore è uno: e sono aste al ribasso, o al doppio ribasso. Che senza entrare nei dettagli tecnici, già il nome fa paura. Quindi, eureka, la colpa è della GDO, no? No.

La GDO,  poverina… No aspetta, rifacciamola. La GDO sostiene che lei, poverina, non può farci niente. È il mercato che è cattivo, perché e questo che vuole la gente, dice, un po’ come dicono i direttori di palinsesto della tv spazzatura. Solo che mentre lì la qualità può essere un elemento opinabile, qui alla fine c’è una sola cosa che conta, ed è misurabile: il prezzo. Come faccio a metterti i pelati a 29 cent, quando quello è un altro poco il costo solo della lattina vuota? Come faccio a mettere il supermercato in condizione di farti l’offerta, la superofferta, il 3×2, il sottocosto? Allora, eccoci arrivati: la colpa è tua, no?

Eh no, dai. No. Non voglio mica scaricarti addosso il peso di tutto. Perché è vero, come dice Stefano Liberti su Internazionale, che “quando noi compriamo sottocosto, c’è sempre qualcun altro che quel costo lo sta pagando”. Però come faccio a darti la colpa, quando so che non arrivi a fine mese, tra il lavoretto in agenzia e la pensione d’invalidità della nonna, e l’offertona della pummarola in lattina ti risolve il problema della cena. Oppure, anche se a fine mese ci arrivi sereno, mica puoi sempre comprare dal biologico o dal contadino, è vero che la qualità si paga ma a te sinceramente quel sugo dell’ipercoop t’è sembrato buono uguale a quello del gruppo d’acquisto solidale, se non meglio. E poi uno si deve rilassare almeno quando va a fare la spesa, mica puoi sempre stare nel mood fa’ la cosa giusta.

E allora? Di chi è la colpa? Di tutti. E di nessuno. Perché è proprio così che funziona questo sistema economico. Il capitalismo non redistribuisce le ricchezze, redistribuisce le colpe. Frammenta le responsabilità, fino a ridurle in pezzettini così piccoli da essere invisibili, irrilevanti. E poi dà un pezzettino a ognuno, ognuno se lo guarda, il suo frammento, e dice, io? Ma figurati. E ha ragione. E ha torto. E ha ragione.

Di chi è la colpa? Del sistema, si sarebbe detto una volta. Ma il sistema è solo un concetto astratto, un modo di dire, una metafora, un’invenzione dei noglobal sessantottini, il Sistema non esiste, ahahaha, ciao, vado a farmi una pasta al pomodoro.

(articolo uscito su Minima&moralia il 9 agosto 2018)


La nostra garanzia si chiama complottismo

(Questo racconto è stato pubblicato il 13 aprile 2018 dalla rivista online Minima&Moralia)

Allora, mio caro Generale, come va?

Bene, Eminenza, molto bene, grazie. Un po’ in ansia per quel piccolo conflitto, laggiù…

Quell’ultimo che è esploso, dice? Oh misericordia divina, certo nonostante quei popoli ci siano più che abituati, è sempre triste vederli sterminarsi a vicenda… Speriamo che finisca al più presto, vero?

Presto? E perché mai… Ah, sì giusto, lei dice per i civili, per le vittime accidentali. Per quanto, definire civili quelle genti… Ma sa, vanno anche salvaguardate esigenze di stabilità, gli equilibri internazionali, la geopolitica, la filiera produttiva, le forniture delle industrie… La mia preoccupazione era proprio per questo. Lei piuttosto, cosa mi racconta? Tutto bene dal punto di vista, come si dice, spirituale?

Sì, senza dubbio. Siamo molto felici del fatto che la terra sia stata liberata dall’oscura minaccia incombente da Est. C’è giustizia all’altro mondo, ma a volte anche in questo mondo. E soprattutto siamo soddisfatti di come sia stata liberata, grazie all’intercessione del Vicario di Nostro Signore… Lei è conscio, non è vero, che la Storia ha già attribuito il merito a lui, molto più che a voi soldati.

Eh, certo certo, come no. E cosa dice lui, Sua…

Santità, caro Generale. Sua Santità è sempre molto impegnato, ma sta benone: riesce ancora a soddisfare, ad un occhio esterno, tutti i crismi dell’autonomia di corpo e spirito. Sembra perfettamente indipendente, insomma, e quindi, di fatto, lo è, non so se mi spiego.

Alla perfezione, Eccell… volevo dire, Eminenza.

Non si preoccupi, Colonnello, siamo tra amici. Oh, scusi.

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