Che cos’è il colonialismo climatico (e come rovesciarlo)

Un bianco Natale sotto una coltre di candida neve, un Capodanno più casalingo e cozy che mai, i giorni delle feste passati sul divano sotto la copertina di flanella appena avuta in regalo, a leggere o guardare una serie TV, sorseggiando una tisana calda o un buon whisky, mentre il ceppo sfrigola nel camino… Piccole grandi verità universali, valide in ogni tempo – e rinforzate dalla pandemia, quest’anno – e in ogni luogo, no? No. Quando ad ogni celebrazione festiva, come a ogni cambio di stagione, ci ripetiamo – l’industria culturale e del consumo ci ripete – questi mantra, non solo ricadiamo in un cliché, ma contribuiamo a imporre, nel mondo globalizzato, il nostro punto di vista e il nostro ritmo a miliardi di persone che stanno vivendo tutt’altra esperienza.

La giornalista Alicia Kennedy, newyorkese che ora vive a Portorico, ne ha parlato nella sua newsletter a proposito dell’autunno: io vivo ai tropici, e qui le stagioni semplicemente non esistono, ma ci becchiamo ugualmente le narrazioni a base di copertine e whisky, moda autunno/inverno e october blues e november rain. I food blog ci bombardano con ricette a base di funghi e modi per cuocere la zucca, ma chi le ha mai viste queste cose. Questo nella fascia equatoriale, ma peggio ancora va a quelli dell’emisfero sud, con le stagioni completamente invertite: pensate a come può essere surreale per i cattolicissimi brasiliani o argentini festeggiare il nostro White Christmascon 30 gradi all’ombra.

È vero, indubbiamente l’emisfero boreale contiene più terre emerse e quindi più popolazione rispetto a quello australe, ma non ci prendiamo in giro: è una questione di dominio, di rapporti di forza. Tanto che Alicia Kennedy tira in ballo un’espressione che si usa da qualche tempo, colonialismo climatico, e conclude dicendo che la definizione del soggetto privilegiato (e inconsapevole dei propri privilegi) andrebbe aggiornata: maschio bianco etero cisgender… e abitante di una zona temperata. (Ehm, ce lo ho tutte.)

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Lo spettatore è un visionario

Che cosa deve fare il pubblico? Qual è il ruolo dello spettatore rispetto all’opera d’arte? La domanda può sembrare oziosa, puramente teorica, ma lo è solo in parte. La concezione classica attribuisce al fruitore dell’opera – libro, mostra, spettacolo, film – un ruolo passivo rispetto a quello attivo del creatore: un ruolo di mera stazione ricevente.

Il pubblico legge/guarda/ascolta, e gode dell’arte, o non ne gode, a seconda delle conoscenze oggettive e delle preferenze soggettive: può anche sollevare dubbi e critiche, ma nel suo foro interiore, e comunque ex post, dopo la fruizione. Il suo spazio d’azione, la sua libertà d’iniziativa, è esplicabile tutt’al più nel futuro, quando può scegliere di andare a vedere o non andare a vedere un altro spettacolo dello stesso autore.

Eppure, anche accettando la posizione dello spettatore come semplice punto di arrivo, non si può negare che il pubblico sia una componente essenziale nell’opera d’arte, un elemento costitutivo, come direbbero i giuristi. Ci si chiede infatti che senso abbia un libro i cui caratteri non vengono decodificati da nessuno che li assembla in parole e frasi di senso compiuto; che senso abbia una pièce che viene recitata in un teatro vuoto. Ci si potrebbe chiedere, estremizzando ma non troppo, se l’opera in questione esista, proprio come ci si chiede se esiste il rumore prodotto da un albero che cade in una foresta dove non c’è nessuno.

La concezione classica è stata quindi messa in crisi in epoca moderna, sotto la spinta di motivazioni sia teoriche sia politiche, per così dire, nel senso di essere sorte in opposizione a uno status subordinato e inferiore del pubblico. Saggi come Opera aperta di Umberto Eco (1962) e La morte dell’autore di Roland Barthes (1968) suggerirono che gli aspetti volutamente incompleti o necessariamente indeterminati di un’opera stimolano la necessaria interpretazione attiva del fruitore, che assurge al rango di co-creatore. Per Barthes la morte dell’autore è propedeutica alla nascita del lettore, “luogo in cui si produce l’unità del testo”.

Oggi la carica eversiva di queste teorie è da un lato stemperata, dall’altro assimilata: non abbiamo nessun problema ad accogliere letture di opere che vanno al di là delle intenzioni dell’autore, per esempio.

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Oltre il Rinascimento psichedelico, per un mondo totalmente stupefacente

Mi ritengo sfortunato: sono cresciuto nel mezzo degli anni bui, nel pieno del medioevo psichedelico; gli anni della criminalizzazione e dell’ignoranza, quelli in cui il refrain dominante era “non esistono droghe leggere e droghe pesanti, esiste LA DROGA”, e il percorso, progressivo quanto inevitabile, iniziava con gli spinelli, saliva di livello arrampicandosi sulla scaletta di pasticche e acidi, culminava con il lancio dal trampolino della cocaina, e si concludeva con lo schianto sul fondo dell’eroina (non era così, ovviamente, ma il fatto stesso di pensarlo, di essere immersi in una società che lo pensava, molto spesso lo faceva succedere: vedi alla voce “profezia che si autoavvera”, ma anche alla scritta “fuori lo Stato dalle vene”).

Mi ritengo fortunato: nel pieno degli anni bui, ho avuto una luce, una guida, un maestro. Era un ragazzo come me, diciotto anni appena fatti, ma con l’esperienza (poca) e l’intelligenza (tanta) di mettere in atto dei set e dei setting perfetti per i miei primi viaggi. Vivevamo nel medioevo, e lo sapevamo, perciò guardavamo all’epoca classica, e pre-classica: ascoltavamo i Doors, i Soft Machine, e Gesualdo da Venosa, leggevamo Huxley, Castaneda, e Baudelaire. Di giorno – nelle occupazioni, nei centri sociali, nei raduni no global – combattevamo “il sistema”, sognavamo di costruire un mondo migliore, più giusto, più vero; di notte – nei viaggi, nella musica, nelle parole e nei silenzi – cercavamo di andare oltre la realtà quotidiana, di trascendere le apparenze, di scorgere una versione migliore – di noi stessi e del tutto – più giusta, più vera. E in queste due cose non vedevamo alcuna contraddizione, anzi: il massimo della coerenza, anzi: la stessa cosa. (Ora so che non avevamo ragione: avevamo ragionissima.) Poi, si sa come succede, ci siamo persi di vista; ma non ci siamo persi d’animo, né di cuore: siamo sempre fratelli. Poi, quella strada l’abbiamo abbandonata, ma quella strada esiste ancora, quella strada arriva fino a oggi.

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Autonomi dell’editoria, la sfida di Redacta parte dalle tariffe

C’è una categoria che sta più inguaiata di quella dei giornalisti? (Giù le pistole, parliamo pur sempre di professioni intellettuali nel primo mondo, lo so anch’io che non siamo paragonabili ai bambini congolesi schiavi nelle miniere, ma appunto).

Così a occhio, direi i cugini dell’editoria libraria. Editor, correttori di bozze, traduttori: anche loro colpiti da una doppia crisi, diventata ormai endemica. Da un lato la situazione generale, da 30 anni in qua: la precarizzazione, lo smantellamento del welfare e delle strutture aziendali, la creazione di un metodo basato su rapporti di lavoro liquidi, in cui l’autonomia è una condizione subìta, non scelta, e le relazioni sono sempre sbilanciate.

Dall’altro, lo specifico editoriale: un mondo traballante, che da sempre si regge su passione e dedizione più che sulle intenzioni di profitto – bella cosa, per carità, ma che spesso pone gli editori, medi e piccoli in particolare, nella doppia posizione di sfruttati e sfruttatori, innanzitutto di sé stessi.

Nell’ambito di Acta, associazione di freelance che in generale si occupa di questi temi da quindici anni, è nata da circa un anno Redacta, sezione specificamente dedicata all’editoria. Che proprio in questi giorni ha lanciato il suo sito autonomo, dove ha pubblicato il “Manifesto redactiano”.

Rimandiamo quindi a questi link per farsi un’idea dei contenuti e delle intenzioni, mentre qui approfondiamo alcuni aspetti con Mattia Cavani, membro di Redacta e del Consiglio direttivo di Acta.

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La vera novità del giornalismo: riflessioni a partire dal sondaggio Acta – Slow News

Per un giornalista, parlare di giornalismo dovrebbe essere la cosa più facile del mondo. E invece, c’è sempre un quid di reticenza, o meglio di resistenza: la stessa che mi ha portato a procrastinare per vari giorni la stesura di questo articolo.

È una perplessità soggettiva, innanzitutto, una remora: il timore di essere troppo coinvolti, un residuo scrupolo nei confronti di quello che una volta si chiamava conflitto d’interessi, un’eco della massima tramandata dai vecchi maestri per cui “le fatiche del cronista non fanno notizia”, e che decenni di personal essay e gonzo journalism hanno scalfito ma evidentemente non espulso dal super-io.

C’è poi un ostacolo oggettivo: il fatto che per riflettere su noi stessi e la nostra professione, usiamo gli stessi strumenti (la parola scritta o orale) e gli stessi media (testate cartacee e online, blog, radio e podcast, tv e video, social) che usiamo per svolgere la nostra professione; cosa che un ingegnere e un pittore, un musicista o un chirurgo, non fanno. Ci si sente un po’ come il fotone della meccanica quantistica, che illuminando ciò che deve studiare, siccome ne condivide la natura, inevitabilmente lo distorce.

Il risultato? I due estremi: o una eccessiva timidezza, il relegare macro questioni nelle 15 righe di comunicato del C.d.r. a pagina 42; oppure una esagerata autoreferenzialità, che allargando troppo il discorso lo annacqua, e contemporaneamente rende ancora meno credibile la categoria.

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Parole che non lo erano: da autocertificazione a Zoom, la neolingua della pandemia

“Il Coronavirus viaggia nei droplet ma permane anche in aerosol, e gli asintomatici non sono meno pericolosi per cui più ancora delle FFP2 è raccomandato il distanziamento sociale”. Oppure. “Zoom va bene per la Didattica a distanza, ma dopo il bollettino delle 18 vediamoci per un aperiskype”.

Dice un adagio – suggestivo ma non sempre corretto – relativo ai cibi confezionati: leggi l’etichetta, se ci trovi più di tre ingredienti che tua nonna non capirebbe, non comprarlo. Ora, in meno di sei mesi, noi siamo diventati i nostri nonni. Prendiamo le frasi qui sopra, scriviamole su un foglietto e con la macchina del tempo spediamole a inizio gennaio 2020: nessuno ci capirebbe un accidente. Eppure oggi ci sembrano perfettamente sensate, anzi sono linguaggio di uso comune.

La pandemia, tra le tante cose, ha cambiato la lingua. Per sempre? Staremo a vedere, come per le altre cose. Parlare di parole non sembri ozioso, uno sterile esercizio intellettuale, mentre lì fuori a milioni si ammalano e muoiono, a miliardi sprofondano nella povertà: le parole sono il modo in cui ci raccontiamo le cose; secondo i più estremisti, il modo in cui creiamo le cose. Qual è allora la nuova lingua della pandemia?

Non siamo certo i primi a chiedercelo: la Treccani, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità, ha realizzato un elenco dei 100 vocaboli più usati durante l’epidemia di Covid-19; ma dentro, come si può immaginare, c’è di tutto. La linguista Vera Gheno ha fatto un’analisi altrettanto tecnica, ma partendo da un rilievo empirico: ha chiesto a ognuno dei suoi contatti Facebook di indicare le 3 parole personalmente più importanti. Dal lato opposto, l’artista Jacopo Rinaldi ha scritto un bellissimo mantra della fase 1, una poesia d’avaguardia, un rap silenzioso, una lista omerica.

Più modestamente, vorrei qui far notare una cosa: ci sono vari livelli di novità nel linguaggio della pandemia, che funzionano in modo diverso. Possiamo dividere le parole in tre categorie: i neologismi veri e propri, spesso crasi di parole esistenti, quasi sempre calchi dall’inglese (coronabond, aperiskype, infodemia); i termini tecnici usati in un ambito ristretto e improvvisamente note a tutti (cluster, codice ateco, droplet, FFP2, R0, sierologico, spillover); infine le parole più interessanti, quelle in uso già prima, con un significato generico e neutro, che improvvisamente hanno subito un’accelerazione, una torsione, e ora hanno un senso ben preciso, nella maggior parte dei casi minaccioso.

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Un viaggio nel 1° maggio dei lavoratori essenziali, quelli che continuano a lavorare

Facile dire #iorestoacasa. Non è una questione di volere, ma di potere. Viviamo in una bolla, e questo era noto da tempo, ma è incredibile come pur sapendolo, non riusciamo a cambiare la percezione: la nostra percezione di smartworker da divano, in questo momento, è che l’Italia si è fermata. Il mondo si è fermato. E invece.

I dati delle forze dell’ordine lo raccontano bene: su tutti i cittadini controllati, il 95% ha un valido motivo per uscire di casa. E nella maggior parte dei casi, quel motivo è: andare al lavoro. Lo conferma, ben più tragicamente, la sovrapposizione delle aree di maggior contagio con quelle di maggior produttività: fabbriche aperte, calche sui mezzi di trasporto.

Alla luce di questi fatti, la retorica governativa che tende a colpevolizzare il singolo cittadino per la sua irresponsabile disobbedienza – ieri il padrone di cani, oggi il runner, domani il genitore di bimbi piccoli – appare sempre più per quello che è: propaganda. Anzi, victim blaming.

Comprensibile l’incertezza sulle politiche da adottare, quando anche gli epidemiologi sono spesso in disaccordo e avanzano in territorio ignoto (non è la sconfitta della scienza, è la scienza), ma questo martellare su una sola nota ha il doppio effetto di sviare l’attenzione dalle vere responsabilità, e offrire capri espiatori alla gente sempre più esasperata. (Altra retorica: si è iniziato a dire che non bisogna parlare di social distancing ma di distanziamento fisico, però è proprio una frattura sociale, una frattura multipla, quella che stiamo vivendo.)

Coronavirus e lavoro: strano 1 maggio, quello del 2020, per esempio. Il primo in 130 anni (con la parentesi del Ventennio fascista in Italia) senza manifestazioni e piazze piene. Ma ci sono effetti meno clamorosi, e più pesanti. Il coronavirus, amplificatore di disagi e disuguaglianza, ha diviso il mondo del lavoro in tre segmenti.

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Cosa succederebbe se scomparissimo tutti dalla faccia della Terra?

Qualche giorno fa, in questo tempo che sembra un’ininterrotta domenica pomeriggio silenziata da una coltre di neve, e invece era martedì e c’erano già 22 gradi, ho sentito un uccello cantare fuori dalla finestra, e non l’ho riconosciuto. Non era uno degli amabili piccioni, e neanche una delle ancor più adorabili cornacchie; non era il passero solito, e non era neppure il merlo che da qualche settimana bazzica il cortile. Giurerei di non averlo mai sentito, ma non sono un ornitologo e non ho un grande orecchio musicale, ho attribuito il tutto alla suggestione, al riverbero nelle strade vuote.

Ho riabbassato lo sguardo sul computer, lì dove succedono le cose, ma per una di quelle strane coincidenze – come quando da bambino imparavi una parola nuova e da quel momento iniziavi a sentirla dappertutto – tra le news sui nuovi contagiati e le polemiche sui fantomatici farmaci che funzionano, hanno iniziato a spuntare loro: gli animali. Prima in estremo oriente, dove tutto è iniziato: un esercito di scimmie che invade le piazze deserte di Bangkok, i cervi del Nara park in Giappone che girano per la città.

Ma presto il lockdown è arrivato anche da noi, con le sue conseguenze, immaginabili o sorprendenti. La pianura padana subito meno inquinata, come era successo anche in Cina, e okay. Ma anche le acque trasparenti della laguna di Venezia: ah, quindi il beige fogna non era il colore di default?

E poi, e soprattutto, gli animali: i delfini più intrepidi che mai nel porto Cagliari, e su fino a Trieste, le anatre nella barcaccia in Piazza di Spagna a Roma e i daini nelle piscine ancora in Sardegna. A Milano vengono filmate lepri nei giardini e persino cigni sui navigli. È come se gli animali non fossero scomparsi, ma se ne stessero ben nascosti negli angoli, pronti a balzare fuori alla prima occasione, non appena noi umani facciamo un passo indietro.

“La natura che si riprende i propri spazi” è diventato un vero e proprio genere giornalistico: da quando ho avuto l’idea di questo articolo al momento in cui lo sto scrivendo, gli avvistamenti e i conseguenti articoli e post di social si sono moltiplicati. Sono parentesi per rifiatare in mezzo a tante notizie ansiogene; sono manna dal cielo per gli ambientalisti: “quando tutto questo sarà finito”, come dice il mantra del momento, dovremo riconsiderare il nostro posto nella natura, insieme a mille altre cose, dall’organizzazione della sanità al reddito di base universale (vaste programme, ma speriamo).

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Una giornata da recluso: diario della quarantena e guida alle risorse culturali open

Stamattina mi sono svegliato con l’angoscia. E non era l’ansia generica da contagio, o il basso continuo della preoccupazione per certi familiari lontani, persone anziane e con patologie pregresse, come si dice. Era una cosa più sottile.

Non so a voi, ma a me non mi sta pesando tanto la quarantena fisica, quanto quella mentale. Uscire, uscivo poco già prima: certo ricordarsi l’autocertificazione quando si scende a buttare l’immondizia, pensare di dover dare una giustificazione credibile se si fanno due passi in più nelle strade deserte, non aiuta.

Aggiungete che qui in Piemonte le scuole non hanno mai aperto da prima delle vacanze di carnevale (21 febbraio), per cui di fatto siamo in mezza clausura da tre settimane, e quando leggo altrove “quarantena giorno 3”, quel che penso è: tsk, pivelli. Ma quello che mi sta stressando – e non credevo, o almeno non credevo così presto – è la gabbia mentale. Non si parla d’altro, non si pensa ad altro. Anche volendo, anche sforzandosi.

Oggi, stranamente, avevo qualche ora libera: bene, mi sono detto, mi metto a scrivere quel longform che rimando da settimane. Non era neanche una cosa leggera, o inattuale: climate change e apocalissi, estinzioni e de-estinzioni, fini dei mondi conosciuti e strategie di sopravvivenza. Be’, mi sono fatto forza per cercare un barlume di quell’entusiasmo che avevo quando lo proposi ma niente, l’idea mi rendeva felice come se avessi dovuto fare un pezzo sulle fantasie dei copri-divano.

Passerà? Passerà. Come ne usciremo? Non si sa. Per ora saltabecchiamo dalle timeline dei social ai siti dei giornali: la pandemia è prima di tutto infodemia, compulsione da refresh.

Dice ma dovrai pure lavorare: eh sì, peccato che quando non leggo scrivo, e indovinate un po’?, scrivo di libri che parlano di epidemie, per esempio. Certo, c’è modo e modo di informarsi sullo stesso argomento: ci sono le intelligenti divulgazioni di Oggiscienza e di Roberta Villa, ci sono interessanti riflessioni su come il Coronavirus stia mettendo a nudo le fragili impalcature della nostra industria culturale e delle nostre stesse vite. Sta sorgendo tutta una letteratura dell’emergenza, con consigli utili pratici e psicologici, con teorie e approfondimenti generali. Okay, ma non si sfugge. Si seleziona, ma non si scappa.

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Rivoltare Napoli: Arrevuoto

Napoli è una città impossibile. Impossibile da vivere, dice chi ci campa, e spesso a ragione. Impossibile da raccontare, anche e soprattutto per chi (come me) la guarda ormai dall’esterno, dalla posizione tutt’altro che privilegiata dell’emigrante. Anima da Capitale e stracci da slum; paradiso abitato da diavoli secondo l’ormai abusato paradosso, ma a volte inferno abitato da angeli, che sopportano tutto, santa pazienza.

È proprio in questo magma rovente e indistinto, che ogni tanto spuntano qua e là isole di senso, che provano a connettere e a connettersi. A Napoli fare qualcosa di sensato è impossibile, e quindi doveroso. Qualche tempo fa su queste pagine abbiamo parlato dell’ex Asilo Filangieri. Stavolta tocca ad Arrevuoto: che è teatro, è periferia, è creatività, è adolescenza, è connessione, è rom, è sperimentazione, è rischio.

Arrevuoto è un progetto teatrale-pedagogico di attivazione sociale dal basso. È nato a Napoli ormai 14 anni fa, nel 2005, con il supporto del Mercadante, il Teatro Stabile di Napoli, e qualche anno dopo si è costituito in Associazione Culturale. Il punto di partenza è stato Scampia, il famigerato quartiere delle Vele e della criminalità, la terra di nessuno, la periferia oltre la periferia.

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