La classe

Queste due foto sono girate sui social negli ultimi giorni. Due foto parallele, con molti punti in comune. In entrambe il soggetto è un ragazzino con la pelle scura. In entrambe ci sono dei libri. Entrambe sono diventate, come si dice, virali. Ma poi le somiglianze finiscono e iniziano le differenze, anzi le opposizioni. Perché queste due immagini raccontano due storie opposte. Il primo, il ragazzino che legge a Wimbledon, è stato spernacchiato, diventando lo zimbello di tutto l’internet: ma come, è in corso una delle partite più belle di sempre, forse l’ultima sfida di una rivalità che ha segnato un’era del tennis, e tu tieni gli occhi bassi su un libro? E che libro potrà mai essere se è meglio di Federer-Nadal, lo voglio anche io, hanno ironizzato alcuni (e altri hanno fatto come capita sempre, l’ironia dell’ironia: voglio proprio vedere se lo sfottevate così, se invece di un libro si fosse distratto con un telefonino). Il secondo, il ragazzino che porta via i libri nello sgombero di Primavalle, è diventato eroe e simbolo per l’italico popolo del web: simbolo di dignità, schiaffo morale ai poliziotti, speranza per il futuro che è dei bambini, e dei bambini che studiano ecc ecc.

Ma ovvio, nella realtà è tutto il contrario: la rete in questo caso non è lo specchio, pur deformante, della realtà, ma ne costituisce il negativo fotografico, il fantasma in controluce. Il ragazzino di Wimbledon è il vero vincitore, perché può permettersi di essere lì, dove tutti volevamo essere, e può permettersi di annoiarsi, di fare altro, di non volerci essere (ed è inutile fare ironie, è capitato a tutti noi, bambini o meno, di voler scappare da quello che per altri era lo spettacolo più bello del mondo: di addormentarsi all’opera, di sentirsi impazzire in discoteca, di guardare il telefonino al cinema). Il ragazzino di Primavalle, passata rapidamente l’ondata di sdegno social, rimarrà senza un tetto, sballottato qua e là a decine di chilometri di distanza dalla sua scuola. Allora, qual è la differenza? I SOLDI, direte voi. Naturale, certo. Ma torniamo all’inizio: qual è la prima cosa in comune? Sono due ragazzini, due bambini. In quella situazione – in quella nazione, in quella famiglia, con quel portafoglio – ci sono nati. Non hanno scelto niente, non hanno fatto niente: è una cosa che si ritrovano, e che stanno cercando di gestire – entrambi – come meglio possono. Allora, qual è la vera differenza? Esatto.


Questo pomodoro ti spiegherà come funziona il capitalismo

pomodori

Ci voleva una strage, dodici braccianti africani morti in un incidente stradale in Puglia, per richiamare l’attenzione su condizioni di lavoro, e vita, che non sono tanto differenti dalla schiavitù: mancano solo le catene di ferro in senso materiale (e non sempre).

Ci vuole sempre una strage, e uno è persino tentato di dire ben venga, il sacrificio di vite umane (basta che si tratti di vite che non sono la mia), se serve a far capire qualcosa, a cambiare qualcosa. Addirittura il ministro dell’ordine pubblico, che se i negretti non stanno dietro al grilletto di solito tacet, ha fatto la voce grossa, ha detto caporali ha detto sfruttamento ha detto mafia. Allora uno dice vedi, menomale, anche lui farà qualcosa di buono come quell’altro, sgomineremo il caporalato. Perché la colpa è dei caporali, no? No.

I caporali di fatto sono la penultima ruota del carro: sono quelli che provvedono alla logistica, diciamo così, in una situazione senza regole e organizzazione. Dal reclutamento per il lavoro a giornata, tutti in fila prima dell’alba tu vieni tu no (uh? Come nell’ottocento? Sì, proprio come nell’Ottocento), al trasporto per e dai campi, fino alla sistemazione per la notte, baracche a 5 stelle com’è noto. Perché non vanno ai centri per l’impiego? Magari al contrario di quello che si dice, qualche italiano che questi lavori li vuole ancora fare c’è, che ne sai, e sta iscritto al collocamento. Non ci vanno perché sanno che i proprietari delle terre offrono poco e niente, qualche euro a giornata, se non qualche centesimo a quintale, e quindi a fare la raccolta ci può andare solo chi è veramente disperato. Ah, ok. Allora la colpa è dei proprietari terrieri, no? No.

I proprietari delle terre – che sarebbe eccessivo chiamare agricoltori anche se spesso godono delle agevolazioni e delle sovvenzioni destinate ai coltivatori diretti, ma sarebbe forse ingeneroso definire latifondisti – sono costretti a cercare di pagare tutti il meno possibile, perché i loro margini di guadagno sono bassi, e si riducono sempre di più. Infatti nella maggior parte dei casi i venditori non possono stabilire i prezzi, ma li subiscono. Sembra strano ma è così, di solito chi vende una cosa la mette a un certo prezzo, ma qua è il contrario.

Dipende dalla particolare situazione: in ogni zona esistono poche, o addirittura una sola industria di trasformazione (quella che fa i pelati per capirci). Quella arriva da te e dice oggi per un quintale di pomodori non ti do più 2 euro, te ne do uno. Non ti sta bene? Non compro. E i pomodori ti marciscono in casa. In economia si chiama monopsonio, fa ridere ma è il contrario del monopolio, dove c’è un solo venditore, qua c’è un solo compratore, e può essere anche peggio. Allora, evviva, la colpa è dell’industria, no? No.

L’industria a sua volta è schiava della GDO. Se il nome non ti dice niente, sappi che è quella che ti mette in tavola il 90% delle cose che mangi. È la Grande Distribuzione Organizzata, quella che fa da intermediario tra l’industria e il venditore diretto, ovvero i supermercati e le catene. La GDO fa esattamente come fa l’industria con gli agricoltori, anzi peggio. Il meccanismo è quello delle aste, perché i venditori sono tanti e il compratore è uno: e sono aste al ribasso, o al doppio ribasso. Che senza entrare nei dettagli tecnici, già il nome fa paura. Quindi, eureka, la colpa è della GDO, no? No.

La GDO,  poverina… No aspetta, rifacciamola. La GDO sostiene che lei, poverina, non può farci niente. È il mercato che è cattivo, perché e questo che vuole la gente, dice, un po’ come dicono i direttori di palinsesto della tv spazzatura. Solo che mentre lì la qualità può essere un elemento opinabile, qui alla fine c’è una sola cosa che conta, ed è misurabile: il prezzo. Come faccio a metterti i pelati a 29 cent, quando quello è un altro poco il costo solo della lattina vuota? Come faccio a mettere il supermercato in condizione di farti l’offerta, la superofferta, il 3×2, il sottocosto? Allora, eccoci arrivati: la colpa è tua, no?

Eh no, dai. No. Non voglio mica scaricarti addosso il peso di tutto. Perché è vero, come dice Stefano Liberti su Internazionale, che “quando noi compriamo sottocosto, c’è sempre qualcun altro che quel costo lo sta pagando”. Però come faccio a darti la colpa, quando so che non arrivi a fine mese, tra il lavoretto in agenzia e la pensione d’invalidità della nonna, e l’offertona della pummarola in lattina ti risolve il problema della cena. Oppure, anche se a fine mese ci arrivi sereno, mica puoi sempre comprare dal biologico o dal contadino, è vero che la qualità si paga ma a te sinceramente quel sugo dell’ipercoop t’è sembrato buono uguale a quello del gruppo d’acquisto solidale, se non meglio. E poi uno si deve rilassare almeno quando va a fare la spesa, mica puoi sempre stare nel mood fa’ la cosa giusta.

E allora? Di chi è la colpa? Di tutti. E di nessuno. Perché è proprio così che funziona questo sistema economico. Il capitalismo non redistribuisce le ricchezze, redistribuisce le colpe. Frammenta le responsabilità, fino a ridurle in pezzettini così piccoli da essere invisibili, irrilevanti. E poi dà un pezzettino a ognuno, ognuno se lo guarda, il suo frammento, e dice, io? Ma figurati. E ha ragione. E ha torto. E ha ragione.

Di chi è la colpa? Del sistema, si sarebbe detto una volta. Ma il sistema è solo un concetto astratto, un modo di dire, una metafora, un’invenzione dei noglobal sessantottini, il Sistema non esiste, ahahaha, ciao, vado a farmi una pasta al pomodoro.

(articolo uscito su Minima&moralia il 9 agosto 2018)


Ma allora la gente non è davvero cattiva?

Le foto dei migranti sbarcati sulla spiaggia di Crotone e soccorsi dai bagnanti, ieri sono state molto condivise. E ri-condivise. E condivise ancora. Con evidente sollievo. Il sottotesto, neanche tanto latente, era: allora vedi, le persone non sono davvero così cattive. Fanno i leoni da tastiera, fanno buh e bah sui social, ributtiamoli a mare, gli africani fingono di morire, e altre sconcezze. Ma poi alla prova dei fatti, un cuore grande così. Italiani brava gente, il solito refrain.

La cosa sembrerebbe trovare pezze d’appoggio reali. Perché a stare nel mondo virtuale, c’è da aver paura sul serio. Negli ultimi anni l’escalation è stata impressionante. Protetti dal filtro dello schermo, dalla distanza fisica, e spesso dall’anonimato, si scatenano i peggiori istinti: devi morire, ti deve stuprare un branco di ne*ri.

Ho appena finito di leggere La festa nera di Violetta Bellocchio (ne parliamo diffusamente qui), una distopia horror/fantascientifica ambientata in un futuro molto prossimo, in un mondo allo sfacelo: una via di mezzo tra Black Mirror e Cannibal Holocaust, per intenderci. Insomma una cosetta non proprio rasserenante, piena di profezie angosciose e immagini truci. Ma vi assicuro che in tanto orrore profetizzato, la parte che mi ha fatto stare più male è quella per così dire verista: lo shit storming, la tempesta di insulti e minacce che distrugge letteralmente la vita delle protagoniste.

(continua su Esquire)


Ventun anni

(Racconto scritto la scorsa estate: qualche giorno dopo la strage di Otoya i giornali titolarono che Anders Breivik rischiava solo ventun anni di prigione; in quegi stessi giorni, nelle brevi di cronaca, appariva un’altra notizia riguardante un detenuto)

Ventun anni. Solo ventun anni, come hanno scritto i giornali. Si fa presto a dirlo, ma ventun anni in galera sono una vita. Io posso dirlo, perché ci sono stato. Ora sto per lasciare questa cella dove sono entrato quando ne avevo diciannove, ed ero appena un ragazzo. Ora ne ho quaranta, e dovrei essere un uomo: l’uomo che avrei potuto diventare se non fossi stato chiuso ventun anni qui dentro.

No, non sono innocente, mio padre l’ho ucciso proprio io, con la sua Smith&Wesson. Non sono un errore giudiziario. Ma dico lo stesso che ventun anni sono una vita, la vita che io avrei potuto avere e non ho avuto. Pensate a quante cose possono succedere in ventun anni. Pensate a voi ventun anni fa, a quello che avevate fatto, a quello che eravate. Ecco, io mi sono fermato lì.

Pensate a quante cose si possono fare, nel tempo materiale di ventun anni. Si possono prendere tre lauree in medicina. Si può piantare un albero di prugne e riuscire a fare il primo raccolto e la prima marmellata. Ci si può ubriacare ventun volte nello stesso modo e nello stesso posto per ventun capodanni. Si possono costruire e abbattere case, aziende, storie d’amore. Si può avere un figlio che fa in tempo a prendere la patente, ad andare a votare scheda bianca, a ubriacarsi legalmente, a prendere il porto d’armi, a imparare a sparare con la tua Smith&Wesson.

Tutto questo non mi è successo, e ora questi ventun inutili anni sono passati, sto per uscire di qui. Ma no, non per recuperare la libertà, almeno non nel senso che pensate voi. Lascio questa cella non per uscire all’aria aperta, ma per entrare in un’altra stanza. Perché ventun anni non è la durata della mia condanna. Ma il tempo che ci è voluto per il processo, l’appello, la revisione, la richiesta di grazia, i ricorsi e tutte le lungaggini burocratiche che non mi hanno evitato di finire qui, sulla soglia della stanza delle esecuzioni. Perché il mio nome è William Zed, e sono di Phoenix, Arizona.