The power of the trio

brainkillerStavolta facciamo una prova: allarghiamo lo sguardo, allunghiamo i tempi. Tre dischi al posto di uno: tre gruppi insoliti, tutti da scoprire; tre tipi di musica diversi, ma con molte cose in comune. A partire dal numero dei musicisti: indovinate? Esatto, tre. Il trio è una strana bestia: senza il respiro ampio del collettivo che hanno i gruppi dai quattro elementi in su, da un lato; e senza la corrispondenza d’amorosi sensi, il dialogo telepatico che si stabilisce nel duo, dall’altro. Quando poi la potenza di fuoco espressa dall’esile manipolo eguaglia e supera quella di un intero battaglione orchestrale, si usa parlare di power trio: tali furono la Jimi Hendrix Experience, o i Cream di Eric Clapton con Baker e Bruce. E ben calzano questi richiami, perché i trii di cui stiamo per parlare, benché di estrazione jazz, hanno molto del rock, del potere, della potenza. Altro elemento in comune, l’insolito accostamento degli strumenti: perché normalmente il trio si basa su una solida e fissa sezione ritmica di basso&batteria, su cui poi lo strumento solista fa leva, primeggia, e determina il carattere (pianoforte nel trio jazz, chitarra elettrica nel rock, sax o altro nelle combinazioni più avanzate). Qui invece in tutti e tre i casi vengono rimescolate le carte in vario modo, ma con la presenza fissa della batteria, e con l’assenza fissa del basso, consentendo gli accrocchi più insoliti tra fiati, tastiere e sei corde. Ulteriori trait d’union: sono tutti dischi che travalicano i generi e mescolano le influenze; sono stranamente composti da pezzi di breve durata, insomma non si abbandonano a interminabili esibizioni muscolari; sono in maggior parte strumentali, e curiosamente dove appaiono inserti cantati, la voce è più un elemento di disturbo e straniamento che di orecchiabilità.

Eponymous-230x230Quanto detto vale per tutti e tre, ma vediamoli ora nel dettaglio, con il consiglio di ascoltarli di fila e nell’ordine indicato: faranno da sottofondo a un magnifico “lungo” in tutto il suo dolore e la sua gloria. Si parte con i Brainkiller, Colourless Green Superheroes (RareNoise Records), che sono Jacob Koller al piano e Fender Rhodes, Brian Allen al trombone ed Hernan Hecht alla batteria. Ed è una partenza bella vivace come si conviene: un torrente di idee e situazioni, un fuoco d’artificio continuo, che prende dai vari generi quanto offrono di più creativo e stimolante. Il jazz moderno, in particolare quello più geometrico e ragionato del progressive; il rock anni ’70 con i suoi sfrenati programmi e le sue fredde incazzature (a volte sembra di sentire i secondi King Crimson); le avanguardie classiche; le suggestioni dance elettroniche. Ogni tanto il ritmo ha come delle tachicardie, delle extrasistole, dei salti di battito; il che ci porta diretti alla parte centrale della nostra corsa, al secondo cd della nostra sequenza. Hobby Horse, Eponymous (Parco della Musica Records), ovvero Dan Kinzelman e Joe Rehmer, americani residenti in Umbria, e Stefano Tamborrino, batterista di Firenze. Dei tre, è il trio più jazz, più tendente all’improvvisazione, all’instabilità: un suono che in certi momenti sembra sul punto di frantumarsi, di disgregarsi e perdersi; proprio come nel bel mezzo di un allenamento, a traguardo ancora lontano, le forze sembrano smarrirsi, le gambe cedere. Ma poi la forza di volontà, l’esperienza e l’energia hanno la meglio: perciò anche il free, il rumorismo acquistano un senso, perché proprio come la sofferenza fisica non sono fini a se stessi, ma funzionali a proseguire la corsa.
Che infatti continua con rinnovata lena grazie a Third Reel, Third Reel (Ecm), cioè Nicolas Masson sax e clarinetto, Roberto Pianca chitarra, Emanuele Maniscalco batteria. Un perfetto trio alla pari; uno splendido album che inizia in maniera abbastanza sostenuta e scattante, per poi addolcirsi man mano, sfumare in atmosfere più tipicamente Ecm, senza mai perdere mordente ma accompagnandoci morbido verso la fine dell’allenamento, quando ormai il peggio è passato, e si è sempre più in pace con se stessi, sempre più leggeri.

(Articolo uscito sul numero di agosto del mensile sportivo Correre)


Caravan (senza titolo)

Ci sono cose che all’improvviso capisci che sei vecchio. E non è tanto il fatto che ti fanno vomitare gli idols e l’emo di mo’, quello è sempre stato così fin dagli anni ottanta, si vabbè all’epoca si chiamavano divi e si chiamava dancepop, ma era la stessa munnezza, non ci raccontiamo palle nostalgiche. Neanche è tanto quando torni a casa dei tuoi, e ti rendi conto che è tutto uguale a come l’hai lasciato, gli stessi accordi sbagliati appuntati su un foglietto, gli stessi ultimi cd mai messi a posto, un reliquiario praticamente, a figlio vivo, ma solo una cosa non c’è più, la sensazione è evaporata e non riesci a richiamarla, altro che maddalena, una sola cosa non c’è, quindi tutto. E manco è, pure se una bella botta gliela dà anche quello, che a pasqua&pasquetta per due giorni consecutivi ti è capitata una cosa che non era mai successa in quarant’anni di onorato metabolismo, se non per cause di forza maggiore, leggi impossibilità economico-pratiche o influenza gastrointestinale: saltare la cena, senza neanche poi svegliarti di notte con la fame. Capisci che sei vecchio quando tutto contento ti metti a sentire l’ultimo disco dell’Orchestra di Piazza Vittorio e buttando l’occhio leggi che è stato realizzato per il decennale del progetto. Bum! Dieci anni, di già.

opv_copAll’epoca, l’idea dell’Avion travel Mario Tronco fu veramente coraggiosa e innovativa, nel momento in cui il secondo folk revival – quello degli anni ’90, che aveva trovato benzina dall’alto in Peter Gabriel e dal basso nel movimento noglobal – stava vivendo una fase di stracca. Fu la dimostrazione che un’altra world è possibile: non quella neocoloniale – l’uomo biango che si va a prendere i suoni esotici nella savana – ma quella immigrante, che fa di necessità orchestra e si trova un mondo già ricostruito sotto casa, a piazza Vittorio appunto. Riscattando così da una parte il musicista di strada dalla condanna, novello Sisifo, dell’eterna Besame mucho, e dall’altra non dimenticando che l’unico terreno comune di dialogo tra il flautista andino, il timbalero cubano, il liutista arabo e il korista senegalese, non poteva che essere il substrato già globalizzato del pop-rock-chiamatelocomevolete occidentale. Dieci anni. Inevitabile allora che si faccia un bilancio, al suon della domanda: com’è cambiata, cos’è cambiato nell’Opv da allora a oggi? Ovvio, molti musici entrano ed escono, ma l’identità del collettivo, come si sarebbe detto una volta, rimane: è questo il bello del gruppo, nevvero. Altrettanto ovvio, il sound è più maturo, più compatto: forse si è persa un po’ della surreale allegria degli esordi (come dimenticare il testo di Tarareando…), un po’ di quella scombinata improvvisazione da festa autogestita ioportolebirre-tuportilepizzette-leiportailgelato (che forse era solo una fantasia dell’ascoltatore). In compenso si producono vere delizie di amalgama, come l’afro-brasiliana Tughel, o le altrettanto multilingui Chicken in the kitchen e Limoncello, scanzonate filastrocche firmate dalla new entry Sylvie Lewis, prima voce femminile nella storia dell’orchestra, tant’è. Per il resto, tema ricorrente è quella sorta di autobiografismo corale che è la cifra di chi, volente o nolente, con storie diverse arriva qui a condividere la stessa realtà: tema declinato in chiave ora umoristica (Simon il gladiatore) ora drammatica (Preludio). Musicalmente, al solito un po’ d’Africa in giardino, un po’ di rumba in pista, un po’ di te lo do io il Brasile, una cover della mitica Si Dìos fuera negro, e l’oud e la voce di Ziad Trabelsi che sono i miei preferiti, ma si sa, che il medioriente qui da me ha molta fortuna. Certo, appunto, la novità è che non è più una novità, non ti puoi aspettare lo stesso impatto dirompente di dieci anni fa, con il susseguente trend involontariamente lanciato, e il fiorire delle orchestre multietniche in ogni città e quartiere, che ci vorrebbe un censimento, anzi c’è stato…

(Era la prima parte della mia rubrica Caravan, sul numero di maggio di Blow Up. Continua in edicola)

TAPPE PRINCIPALIbailam_cop coen_cop

Orchestra di Piazza Vittorio, L’isola di legno, Parco della Musica records

Orchestra Bailam e Compagnia di Canto Trallalero, Galata, Felmay

Gabriele Coen, Yiddish melodies in jazz, Tzadik


Il fantasma della libertà

… solita collection di canzoni antiche e anonime dai quattro angoli del mondo: sussurrata e notturna come una ninnananna, e allora da qui converrà continuare (non partire, perché model d’emploi, lo dico mo’ e non lo dico più, questa Caravan si muove in cerchio, per cui potete scegliere di iniziare in un qualsiasi punto, fare il giro completo e fermarvi nello stesso punto o non fermarvi mai), cioè dalla fine (della giornata) ovvero dall’inizio (della vita), insomma dal momento in cui si mettono a nanna i bambini. L’idea è venuta a Giulia Lorimer, cantante dei mitici Whisky Trail che in ere storiche iniziarono a lavorare sul folk american-irish (oggi ha ottant’anni, auguri, quando iniziò nel ’75 con i Whisky ne aveva più di cinquanta, Camilleri non è l’unico evidentemente); Giulia Lorimer, un mappamondo vivente, nata in Svizzera cresciuta in Bulgaria sposata negli Stati Uniti, e un mappamondo di famiglia, per cui la sua ricerca sul campo è stata poco più che un giro di telefonate tra i parenti. È venuta fuori anche una vecchia cassetta con la voce della nonna di sua figlia, a sua volta ora mamma, e quindi in Nana’s lullaby cantano ben quattro generazioni, di donne, manco a dirlo. Nord America, Scozia e Irlanda, ma pure la Norvegia, guarda un po’, e dall’altro lato Spagna e America spagnola, e ovviamente Italia, anzi Toscana, compresa l’inquietante Coscine di pollo, e come il cacio a merenda ci azzecca un vecchio hit dei Whisky Trail su versi di Yeats (Fairy nurse). Arrangiamenti rispettosi, un vago sentore di polvere ma buona, un certo ovvio déjà entendu, per il momento a casa l’ho sentito solo io ma mi riprometto di fare la prova del nove (anzi del quattro, che tanti sono a fine mese, auguri) e vi dico. Ci sta pure Duerme negrito (uno dei punti più alti della poesia civile popolare: “Si el negro no se duerme / viene el diablo blanco…”) che non è – e la mancata coincidenza come mi fece innervosire secoli fa quando la non-scoprii – Duerme negrita di Eliseo Grenet, compositore cubano tra le due guerre. Questa, e non la prima, compare in un altro disco di ninnenanne che, curioso caso, esce pure in questo periodo; e, curioso caso ma forse no, quattordici pezzi nell’uno e diciannove nell’altro, nemmeno uno è in comune. Bonne nuit è un progetto di Diego Baiardi e Antonio Crepax, poi vediamo perché. Forse non è un caso dato che la scelta qui è molto più internazional-popolare, ci sta la tradizionale trentina e sarda e veneta e berbera, ma spuntano e impazzano le Lullaby famose, quella dei Cure, quella dei Creed, e poi Bregovic, Billy Joel, persino Buscaglione, e non mancano perle rare (su tutte, a confermare la superiorità della musica brasileira, la stupenda Pro nené nanar dove per una volta a cullare è un padre che però alla fine è lui che ma basta con la critica ombelicale). E anche l’approccio musicale è diverso – perché diverso l’approccio generale, nella Lorimer genuinamente tradizionale, nel senso di finalizzato a tramandare una conoscenza, qui di rivisitazione moderna e artistica, come risulta ovvio guardando il progetto complessivo ma non corriamo – il quartetto di Baiardi è affiancato da ospiti di prestigio (tipo Fresu, De Piscopo, Salis) e alla voce si alterna la meglio gioventù (tra cui Cristina Zavalloni, Petra Magoni, Patrizia Laquidara), come si vede di ambito jazzistico allargato. È il jazz il punto di riferimento di queste ninnenanne, come modalità operativa prima ancora che come finalità espressiva, il sogno sta al sonno come il jazz sta alla musica, scrive a un certo punto Antonio Crepax, e sì, è lui, il fratello di Valentina. Il cd è accompagnato da (meglio: il cd accompagna) un bel volumetto in hardcover dove con grafica curata e impaginazione colorita sono inseriti i testi delle canzoni, le presentazioni e le esplicitazioni firmate da Antonio, e ovviamente i disegni di papà Guido: Valentina da piccola, Valentina da grande, in tutte le situazioni più assurde e, appunto, oniriche.

(Era il non-incipit della mia rubrica Caravan, sul numero di novembre di Blow Up. No, i puntini all’inizio non sono un refuso, è pensata proprio così, come una struttura circolare. Peccato non poterla riportare tutta ma… come sempre, continua in edicola)

TAPPE PRINCIPALI

Giulia Lorimer & Whisky Trail, Nana’s lullaby, Materiali sonori

Diego Baiardi e Antonio Crepax, Bonne nuit, Incipit records

Mauro Ottolini Sousaphonix, Bix Factor, Parco della musica records

Béla Fleck and the Marcus Roberts trio, Across the imaginay divide, Rounder

Arianna Savall / Petter Udland Johansen, Hirundo maris, Ecm

           


I lampi di Tesla e quelli di Ornette

Per la seconda puntata della rubrica radiofonica Il libro che suona nella trasmissione Flatlandia su Radio onda d’urto (qui la prima puntata e la spiegazione di che cos’è) ho proposto questa accoppiata

Jean Echenoz, Lampi, Traduzione di Giorgio Pinotti, Adelphi 2012, pp. 176, euro 17,00

Giovanni Falzone, Around Ornette, Parco dela musica/Egea

Primo tratto in comune: non solo sono due opere dedicate ad altri – il libro a Nikola Tesla, il disco a Ornette Coleman – ma sono all’interno di serie dedicate ad altri. Il trombettista siciliano Falzone è uscito due anni fa con Around Jimi (Hendrix, s’intende, e Miles Davis – ne scrissi qui), mentre in questi giorni sta presentanto un progetto dedicato ai Led Zeppelin; lo scrittore francese Echenoz viene da due libri intitolati Ravel (altro collegamento con la musica) e Correre, dedicato all’atleta ceco Emil Zàtopek.

Nikola Tesla (1856-1943): inventore, genio, visionario, pazzo. Autore di pensate futuribili (un cavo sotto l’oceano per portare posta pneumatica) e di altre francamente assurde (un anello panoramico attorno alla terra). Un genio multiforme e distratto, disinteressato ai soldi, disinteressato alle donne, e disinteressato anche alle sue stesse invenzioni, un attimo dopo averle fatte: ne brevetta di innumerevoli, ma livello di bozza, e poi le lascia lì, facile preda di altri scienziati. Per dire le più eclatanti: pur avendo intuito i raggi X, titolarità e merito andranno a Roentgen; e addirittura la paternità della radio, che nessuno di noi si sognerebbe di revocare a Marconi, gli fu riconosciuta dalla Corte Superema americana. Ma quarantadue anni dopo, peccato.

Lo stile che Echenoz usa per raccontare questa storia di splendori (alla lettera) e miserie è ammirevole: infatti lui prima si fa il culo quadrato a raccogliere informazioni e leggere tutto il leggibile (il suo metodo romanzesco, lo ha raccontato, non è basato sul cambiare i fatti, ma sull’aggiungere interpretazioni, ipotesi negli interstizi, dove i fatti storici mancano). Poi però riesce a usare una leggerezza invidiabile, un tono colloquiale (come niente, a un certo punto può scrivere una frase tipo “a me però sta cosa inizia ad annoiarmi”) e divulgativo. Per esempio quando spiega che cos’è questa benedetta corrente alternata, per cui dobbiamo ringraziare Tesla se non c’è una centrale elettrica ogni tre chilometri, come sarebbe successo con la corrente continua: una paginetta, senza scendere in particolari tecnici e senza farti sentire un ignorante. O quando, en passant, ricorda di come la sedia elettrica sia stata il prodotto collaterale di una battaglia commerciale (in breve: Edison, che aveva il brevetto della continua, per screditare l’alternata organizzò prima folgorazioni pubbliche di animali, poi riuscì a convincere un penitenziario che l’elettricità fosse un metodo più veloce e indolore rispetto a fucili e cappio; naturalmente, sperava che non lo fosse, e non lo fu – non lo è).

E trovano spazio anche le fissazioni di Tesla. I numeri: contava tutto e tutti, e voleva solo cose (tipo il numero della camera) con il multiplo di tre. L”igiene: si lavava le mani centinaia di volte al giorno e consumava decine di asciugamani. E, in contrasto, i piccioni, che nutriva al parco, e poi curava, e infine iniziò a ospitare negli alberghi dove viveva. Ma ora let’s jazz.

Anche se non è questo il brano di Falzone che abbiamo ascoltato in radio, bensì Blues Connotation, una pietra miliare di Ornette Coleman. Comunque.  Un tratto in comune tra libro e disco è  il tono divulgativo, così per dire. Infatti il trombettista cosa fa: prende pezzi originali e cover dell’omaggiato, li alterna, li incrocia, li intreccia. Se si ascolta tutto il cd di seguito, prestando orecchio al mood più che ai temi, si ricava un’ottima impressione di compattezza: in altre parole il trombettista riesce a ornettizzare le proprie composizioni e a falzonizzare i brani di Ornette.

Ma i paralleli si possono estendere dalle opere ai protagonisti: cioè all’arte e alla vita di Tesla e Coleman. Il sassofonista afroamericano è stato per una vita (è vivo lui, eh) frainteso, equivocato: imbalsamato nell’immagine di inventore del free jazz, fu artefice prima e dopo di un movimento di rinnovamento musicale continuo. Come Tesla, ha inventato molte cose curandosi poco della paternità, e come Tesla ultimamente si è fissato su cose astruse o impossibili, come la concezione armolodica, una roba che l’ha capita solo lui.

Spesso bistrattato, considerato un millantatore, da pubblico critici e colleghi: suona strano non per scelta ma perché non sa suonare, quante volte gliel’hanno detto. Ma in realtà è professionista serio e preparatissimo. Proprio come Tesla, che anche se con idee bislacche, era uno scienziato, con nulla di esoterico: non si è mai presentato come un mago, con poteri soprannaturali (anche quando voleva usare i lampi per comunicare con gli alieni, ne era convinto da un punto di vista scientifico), però amava stupire il pubblico organizzando rappresentazioni spettacolari e non-divulgative.

E a questo punto in trasmissione ho letto un brano con la descrizione  di uno spettacolo a base di lampi e scariche da 200mila volt. Con il sottofondo di Lonely woman, altro capolavoro di Ornette: un po’ schizzato, ma adeguato alla scrittura frammentata, disuguale e colloquiale del libro. Com’è venuto? Ci azzecca? Ascoltate e ditemi voi.

(Altre cose, suggestioni, collegamenti: guardate questi due video curiosi sul blog Adelphi, tra cui uno che stabilisce un altro link con la musica, i White Stripes in un film di Jim Jarmusch. Altro riferimento musicale: i Tesla, band heavy metal anni ’80. E infine, sapete come si chiama il locale dove Falzone presenta i suoi progetti? Indovinate un po’…)