Come in uno specchio
Pubblicato: 2 novembre 2021 Archiviato in: Articoli, Storie che si biforcano | Tags: Alfredo Zucchi, libri, Mucchi editore, Pierre Menard, Una possibilità del linguaggio Lascia un commento
Questa è la storia di un titolo mancato, anzi di due titoli mancati. (Io con i titoli mancati ho una storia, come qualcuno ricorda, problematica.)
Ieri ho finito di leggere “Una possibilità del linguaggio” di Alfredo Zucchi: un saggio, anzi una serie di brevi saggi, di teoria della prosa, che come ognuno sa è una branca della letteratura fantastica. Un libro che a volte è come una sfida per quanto è denso e oscuro in certi passaggi, a volte è come un lampo per quanto ti rende le cose chiare sbattendotele in faccia senza possibilità di fuga. Il libro è pazzissimo e bellissimo, ma non è del libro che voglio parlare, bensì del suo titolo. Un giorno, qualche mese fa, Alfredo mi scrive e mi dice: dammi un parere su questo testo che non hai letto e non voglio farti leggere (tuttappost). E mi sottopone due candidati al titolo: “Una possibilità del linguaggio”, oppure “Curioso pericolo”, quest’ultimo con sottotitolo “Pierre Menard come metodo”. Pierre Menard, l’autore del “Chisciotte”: un riferimento chiarissimo, un programma politico. Io rilancio e dico: ma fai direttamente “Il metodo Pierre Menard”, titolo principale, secco. Lui: uà grande, bombissima, bellissimo, la svolta, mi hai convinto a mostro. Poi non ne so più niente per mesi, finché non mi arriva il libro col titolo e sottotitolo che vedete: cioè una crasi delle idee sue, zero della mia. E vabbè. Spiace per lui.
Qualche mese prima – prima di “qualche mese fa” – era stata la volta del mio, di titolo. Perché Alfredo Zucchi non è solo amico distante, ma anche editor anzi artefice del mio “Storie che si biforcano”. Libro che in origine si chiamava “Bivi”, ma che avevamo deciso di cambiare per non ingenerare confusione con i librogame. Tra le varie ipotesi, una che a un certo punto aveva avanzato lui, anche con abbastanza convinzione e insistenza, era “Specchio riflesso” (un’altra ipotesi, un’altra variazione sul tema, che affascinava invece me, era “Come in uno specchio”, più bergmaniano che borgesiano per una volta). Poi vabbè, convergiamo entrambi sul titolo che sapete. Immaginate ora me ieri, che finisco di leggere i saggi di Alfredo; immaginate la mia stanca sorpresa nel trovare che uno dei pezzi – l’ultimo in verità, quello dove tutte i labirinti pazientemente edificati in precedenza vengono dissolti da una risata mortifera – s’intitola proprio “Specchio riflesso”. Zucchi, ma a che gioco stavi giocando?
Vedete qual è il problema con Alfredo: è che ha questo potere di ispirare pensieri assurdi, un materiale che lui poi riesce a maneggiare benissimo, e io invece esprimo in queste forme contorte. In uno di tali pensieri, il mio libro e il suo si guardano beffardi, come in uno specchio, ma rotto. Uno dei metodi per provare il brivido dell’infinito è quello di immaginare universi paralleli: più che spingere la mente nello spazio, oltre il confine dell’ultima galassia, o nel tempo, indietro all’attimo impossibile che precede il Big Bang, ha successo il gioco dell’infinito presente. Tanti universi paralleli quante sono le possibili varianti, enormi o insignificanti, della storia: un universo in cui la Terra non esiste, un universo in cui esiste ma non ha mai ospitato la vita, un universo in cui i dinosauri non si sono estinti, un universo in cui Hitler ha vinto la guerra; ma anche un universo uguale in tutto e per tutto a quello in cui viviamo, se non per il fatto che Hitler aveva un pelo in più nei baffi; un universo in cui il tuo vicino di casa stamattina non ti ha detto buongiorno ma buondì; un universo in cui non ho cancellato questa virgola che avevo appena scritto per sbaglio; un universo in cui nel 2021 un libro di teoria letteraria si intitola “Bivi” e uno di racconti “Curioso pericolo”. Secondo alcuni, questa infinità si moltiplica ulteriormente, infinitamente, a ogni momento: ogni volta che compi una scelta, e ne compi di continuo anche senza saperlo, ogni volta che imbocchi una via, una versione alternativa di te imbocca l’altra, o resta ferma al bivio; si generano così altre storie, altre realtà, altri universi. In uno di questi, il libro di Alfredo ha il titolo che gli ho suggerito io; in un altro, il mio libro ha il titolo che voleva lui; in un altro universo ancora, il mio preferito, sono vere entrambe le cose, e c’è un libro di storie biforcute che ha lo stesso nome di un capitolo del saggio “Il metodo Pierre Menard”.
Ma il bip della lavastoviglie che ha terminato il suo compito mi riporta alla realtà: devo andare a cucinare, a mangiare, a vivere e a morire. L’universo, disgraziatamente, è uno; io, disgraziatamente, non sono Zucchi.
URL nel silenzio
Pubblicato: 13 febbraio 2021 Archiviato in: Articoli | Tags: Andrea Gentile, Apparizioni, dai giornali, Don DeLillo, Einaudi, federica aceto, La ricerca, libri, Nottetempo, recensioni Lascia un commentoLa vita a volte può diventare così interessante che ci dimentichiamo di avere paura.
Vi capita mai di avere dei falsi ricordi? Certo che vi capita, capita a tutti, la mente lavora in continuazione creando la realtà, e ricreando il passato. Tra tutti i falsi ricordi, ce ne sono alcuni di natura particolare, in quanto contengono degli anacronismi evidenti: sono i più rassicuranti, perché li riconosciamo subito come falsi; sono i più inquietanti, perché continuano a sembrarci veri. Io per esempio ho nella mente l’immagine vivida del passeggino di mia figlia mentre lo spingo per le strade affollate di Marrakech: ma in Marocco ci sono andato alla fine del secolo scorso, mentre lei sarebbe nata solo dieci anni dopo.
Da un po’ di tempo, poi, mi capita di avere dei falsi ricordi pandemici. (Molti, da quando tutto questo è iniziato, hanno dei sogni pandemici; ma evidentemente il virus ha esteso il suo dominio dal sogno all’immaginazione diurna.) Mi ricordo una discussione che ebbi a vent’anni o poco più in un negozio di dischi, a proposito di musica strumentale e musica elettronica, con il gestore di quello spazio angusto, lui con una mascherina nera da cui spuntava la folta barba brizzolata, io con la mia solita chirurgica spelacchiata e maleodorante. Impossibile; vero. Ma la cosa più sconcertante è che insieme ai falsi ricordi pandemici stanno venendo fuori anche dei falsi falsi ricordi pandemici: eventi realmente vissuti che la mia mente, nell’attimo in cui affiorano alla coscienza, istintivamente rubrica come falsi. Mi sembra impossibile, per dire, aver preso un volo intercontinentale, o essere stato pigiato dentro l’anello di uno stadio insieme ad altre novantamila persone (ma davvero ce n’entrano così tante in uno spazio così ristretto?). Mi sono rigirato questi pensieri in testa per settimane. Poi ho letto l’ultimo libro di Don DeLillo: Il silenzio.
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Piacere, e AD10S
Pubblicato: 23 dicembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: art border line, arte, artslife, dai giornali, libri, maradona Lascia un commentoIo non so nulla di arte. Davvero, non è falsa modestia: non sono affatto un esperto, anzi si può dire che di arte non ci capisco un’acca. Non so neanche cosa sia, l’arte. E d’altro canto, chi è che lo sa, con precisione? Chi potrebbe definire l’arte? All’arte si adatta perfettamente quello che Sant’Agostino diceva del tempo: se nessuno me lo chiede, so che cos’è; se dovessi spiegare a chi me lo chiede, non lo so più. È arte una venere paleolitica, o è solo religione? È arte un pisciatoio rovesciato, o è solo provocazione? È più arte quella di Manzoni o quella di Manzoni? L’arte è nell’occhio di chi guarda, o nella mano di chi crea? Questioni spinose, e annose (e anche un po’ noiose). Dare una risposta non è impossibile: è inutile. Ma soprattutto non chiedetela a me: ve l’ho detto che non sono un esperto. Bene, ma allora che ci stai a fare qui? Ve lo dico subito.
L’arte mi appassiona, mi interroga – come tutte le cose che non capisco, proprio perché non le capisco – mi riguarda. Soprattutto l’arte astratta, le avanguardie, il contemporaneo, il concettuale, il performativo, l’immersivo: quelle cose cioè che stanno sul confine, forse proprio perché sono opere ibride, più da pensare che da guardare. E mi stupisce che siano quelli ignoranti come me ad avversare certa arte, a dire “lo potevo fare anch’io” invece di “lo capisco anche io”, parla di me.
Se l’arte ha un confine, una border line, è però una frontiera porosa, permeabile, è una linea mobile, elastica. L’arte può fagocitare qualsiasi cosa del mondo, anche la più refrattaria; e qualsiasi cosa al mondo può invadere il campo dell’arte. In queste righe, in questa rubrica che si chiama appunto Art Border Line, arrivo come un outsider, come un esule, come un alieno: mando dispacci dall’altro lato del confine.

In questi giorni, gli ultimi di un anno spietato, il mondo sta piangendo la scomparsa di un grande artista. Un genio, dotato di tecnica straordinaria e inventiva sublime. Un personaggio controverso e contestato, dalla vita piena di errori ed eccessi, sopraffazione e autodistruzione, come Caravaggio, come De André, come Burroughs. Un reietto che si è riscattato, uno degli ultimi che è diventato primo. Un capopopolo, un simbolo, un mito. Diego Armando Maradona.
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Un regalo di Natale da Shirley Jackson
Pubblicato: 21 dicembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Adelphi, dai giornali, La luna di miele di Mrs. Smith, La ricerca, libri, recensioni, shirley jackson, Simona Vinci Lascia un commentoQuesta storia inizia con un manoscritto ritrovato, un viaggio nel tempo, un regalo da parte di un fantasma: sembra proprio un racconto di Shirley Jackson, invece è la sua vita – anzi, la nostra.
Oltre 25 anni dopo la morte della scrittrice americana, avvenuta nel 1965, dei «raccoglitori coperti di ragnatele ritrovati in un fienile del Vermont» arrivano a casa dei figli. C’è il manoscritto originale di Hill House, ma ci sono anche scritti brevi inediti: a quel punto inizia la quest degli eredi, ed è una missione di successo. Da fratelli e da altri familiari, in archivi e biblioteche pubbliche, spuntano materiali variegati come appunti e diari, ma soprattutto racconti, spesso inediti, o pubblicati solo su riviste. C’è materiale per un libro, alla raccolta segue la selezione: in America il volume è uscito con il titolo Just an Ordinary Day, da noi ci pensa Adelphi, che in La luna di miele di Mrs. Smith (traduzione di Simona Vinci) inserisce gli inediti puri, riservando al prossimo libro gli scritti presi da magazine e antologie.
Come sono questi vecchi/nuovi racconti di Shirley Jackson? I due figli e curatori, nell’introduzione, tengono a sottolineare che «non sono tutti raggelanti capolavori come La lotteria», e ci mancherebbe. Ma, forse proprio per questo mettere le mani avanti, che abbassa le aspettative, io li ho trovati meravigliosi come sempre. Leggendo, ho iniziato a lasciare dei segni in corrispondenza dei pezzi più belli, lo faccio spesso, da quando ho capito che dimentico anche i libri che amo, oltre ai manuali di diritto amministrativo, mi da l’illusione del controllo, di poter ritrovare le cose facilmente in seguito: stavolta, fatica inutile, perché arrivato a metà mi sono accorto di aver segnato come memorabile praticamente ogni racconto.
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“L’ospite”: il bestiario occulto di Amparo Dávila
Pubblicato: 7 dicembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Alfredo Zucchi, amparo davila, dai giornali, Giulia Zavagna, La memoria dell’uguale, La ricerca, libri, recensioni, Safarà editore Lascia un commentoMa come abbiamo fatto a vivere finora senza Amparo Dávila? Una scrittrice formidabile, racconti brevi di potenza inaudita, che non assomigliano a niente, e dicono tutto. Da non credersi come sia arrivata a noi solo ora, dopo la fine di una vita lunga: nata in Messico nel 1928, Dávila è morta quest’anno. In patria per fortuna era già culto, anche se ha scritto pochi libri, e con parecchi anni tra un’uscita e l’altra, e ha ricevuto il meritato riconoscimento molto tardi. Ma viva la nostra ignoranza, se ci permette di avere un regalo così bello in questo 2020 che vabbè lasciamo stare. E viva Safarà, piccolo editore che dopo aver portato in Italia Alasdair Gray (Lanark, seguito di recente da 1982, Janine) e Gerald Murnane (Le pianure, e da poco Tamarisk Row), ora pubblica L’ospite e altri racconti – nella traduzione, come sempre impeccabile, di Giulia Zavagna.
Bene: ma come sono, di che parlano i racconti di Amparo Dávila? Di “insolito”, “terrore”, “quieta disperazione”, “fantastico quotidiano”, “condizione femminile”, “universale”. Non ci si capisce niente? Vediamo allora l’area di riferimento, alcuni nomi a cui è stata accostata. Pronti, via: Edgar Allan Poe, Franz Kafka, Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, Leonora Carrington, César Aira, Shirley Jackson. Niente male, eh? La cosa pazzesca è che questi paragoni non sono iperbolici, anzi a stento rendono l’idea: immaginatevi un ottovolante che passa dall’uno all’altra di questi autori, a tutta velocità in poche righe, e ancora sarete lontani dalla verità.
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Lo spettatore è un visionario
Pubblicato: 4 dicembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: CheFare, dai giornali, libri, Lo spettatore è un visionario, Luca Ricci, Lucia franchi, recensioni, teatro Lascia un commentoChe cosa deve fare il pubblico? Qual è il ruolo dello spettatore rispetto all’opera d’arte? La domanda può sembrare oziosa, puramente teorica, ma lo è solo in parte. La concezione classica attribuisce al fruitore dell’opera – libro, mostra, spettacolo, film – un ruolo passivo rispetto a quello attivo del creatore: un ruolo di mera stazione ricevente.
Il pubblico legge/guarda/ascolta, e gode dell’arte, o non ne gode, a seconda delle conoscenze oggettive e delle preferenze soggettive: può anche sollevare dubbi e critiche, ma nel suo foro interiore, e comunque ex post, dopo la fruizione. Il suo spazio d’azione, la sua libertà d’iniziativa, è esplicabile tutt’al più nel futuro, quando può scegliere di andare a vedere o non andare a vedere un altro spettacolo dello stesso autore.
Eppure, anche accettando la posizione dello spettatore come semplice punto di arrivo, non si può negare che il pubblico sia una componente essenziale nell’opera d’arte, un elemento costitutivo, come direbbero i giuristi. Ci si chiede infatti che senso abbia un libro i cui caratteri non vengono decodificati da nessuno che li assembla in parole e frasi di senso compiuto; che senso abbia una pièce che viene recitata in un teatro vuoto. Ci si potrebbe chiedere, estremizzando ma non troppo, se l’opera in questione esista, proprio come ci si chiede se esiste il rumore prodotto da un albero che cade in una foresta dove non c’è nessuno.

La concezione classica è stata quindi messa in crisi in epoca moderna, sotto la spinta di motivazioni sia teoriche sia politiche, per così dire, nel senso di essere sorte in opposizione a uno status subordinato e inferiore del pubblico. Saggi come Opera aperta di Umberto Eco (1962) e La morte dell’autore di Roland Barthes (1968) suggerirono che gli aspetti volutamente incompleti o necessariamente indeterminati di un’opera stimolano la necessaria interpretazione attiva del fruitore, che assurge al rango di co-creatore. Per Barthes la morte dell’autore è propedeutica alla nascita del lettore, “luogo in cui si produce l’unità del testo”.
Oggi la carica eversiva di queste teorie è da un lato stemperata, dall’altro assimilata: non abbiamo nessun problema ad accogliere letture di opere che vanno al di là delle intenzioni dell’autore, per esempio.
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La scommessa collettiva: un’intervista psichedelica
Pubblicato: 26 novembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Federico di Vita, intervista, La scommessa psichedelica, libri, Quodlibet, Singola Lascia un commento
Il Rinascimento psichedelico è la rinnovata attenzione, politica e culturale, verso le sostanze psichedeliche e i loro effetti, dopo decenni di illegalità, oblio, clandestinità. Gli psichedelici vengono sperimentati con successo nella cura di patologie psichiatriche, autorizzati per cerimonie religiose, usati in dosaggi minimi dai creativi del settore tech. Si ristampano vecchi libri e se ne scrivono di nuovi: uno per tutti, Come cambiare la tua mente di Michael Pollan, uscito l’anno scorso e già diventato la Bibbia del settore. Il Rinascimento psichedelico è oggi, è qui.
La scommessa psichedelica è un libro uscito nel novembre 2020 per Quodlibet, curato da Federico di Vita, e firmato da un gruppo eterogeneo di giornalisti e scrittori e intellettuali, a vario titolo esperti della materia, che trattano la materia nei suoi vari aspetti. Non è solo un punto della situazione, ma il tentativo di fare un passo avanti, di indicare la strada, le strade. La scommessa psichedelica è il futuro.
Per dare conto della varietà, ma anche della profondità, invece di riassumere il libro in maniera didascalica, o di approfondire un argomento in maniera arbitraria, ho pensato di fare entrambe le cose. Ho sentito tutti gli autori: uno per volta, con una domanda ciascuno, preceduta da una breve sintesi dell’intervento. Ogni paragrafo è collegato al successivo, seguendo la logica sotterranea che si intravede – o che io ho creduto di vedere – nella disposizione dei saggi. A libro collettivo e psichedelico, intervista psichedelica e collettiva. Una piccola scommessa anche questa, un viaggio che non è breve, ma che è pieno di suoni e colori, come ogni viaggio dovrebbe.
(Continua su Singola)
Choose your own longform!
Pubblicato: 23 novembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Carlo Mazza Galanti, Cosa pensavi di fare?, dai giornali, effequ, il Saggiatore, l'indiscreto, libri, Lorenzo Fantoni, storie a bivi, Vivere mille vite Lascia un commentoUn saggio a bivi sulle narrazioni a bivi.
Si legge su L’Indiscreto.
Oltre il Rinascimento psichedelico, per un mondo totalmente stupefacente
Pubblicato: 19 novembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: CheFare, dai giornali, Federico di Vita, La scommessa psichedelica, libri, Quodlibet, recensioni Lascia un commento
Mi ritengo sfortunato: sono cresciuto nel mezzo degli anni bui, nel pieno del medioevo psichedelico; gli anni della criminalizzazione e dell’ignoranza, quelli in cui il refrain dominante era “non esistono droghe leggere e droghe pesanti, esiste LA DROGA”, e il percorso, progressivo quanto inevitabile, iniziava con gli spinelli, saliva di livello arrampicandosi sulla scaletta di pasticche e acidi, culminava con il lancio dal trampolino della cocaina, e si concludeva con lo schianto sul fondo dell’eroina (non era così, ovviamente, ma il fatto stesso di pensarlo, di essere immersi in una società che lo pensava, molto spesso lo faceva succedere: vedi alla voce “profezia che si autoavvera”, ma anche alla scritta “fuori lo Stato dalle vene”).
Mi ritengo fortunato: nel pieno degli anni bui, ho avuto una luce, una guida, un maestro. Era un ragazzo come me, diciotto anni appena fatti, ma con l’esperienza (poca) e l’intelligenza (tanta) di mettere in atto dei set e dei setting perfetti per i miei primi viaggi. Vivevamo nel medioevo, e lo sapevamo, perciò guardavamo all’epoca classica, e pre-classica: ascoltavamo i Doors, i Soft Machine, e Gesualdo da Venosa, leggevamo Huxley, Castaneda, e Baudelaire. Di giorno – nelle occupazioni, nei centri sociali, nei raduni no global – combattevamo “il sistema”, sognavamo di costruire un mondo migliore, più giusto, più vero; di notte – nei viaggi, nella musica, nelle parole e nei silenzi – cercavamo di andare oltre la realtà quotidiana, di trascendere le apparenze, di scorgere una versione migliore – di noi stessi e del tutto – più giusta, più vera. E in queste due cose non vedevamo alcuna contraddizione, anzi: il massimo della coerenza, anzi: la stessa cosa. (Ora so che non avevamo ragione: avevamo ragionissima.) Poi, si sa come succede, ci siamo persi di vista; ma non ci siamo persi d’animo, né di cuore: siamo sempre fratelli. Poi, quella strada l’abbiamo abbandonata, ma quella strada esiste ancora, quella strada arriva fino a oggi.
Leggi il seguito di questo post »Il giro di vite fa ancora paura
Pubblicato: 19 ottobre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Esquire, henry james, il giro di vite, libri, the haunting of Bly Manor Lascia un commento
Nelle catacombe dove si riuniscono gli appassionati di racconti – nicchia di una nicchia, quella dei lettori – ogni tanto si gioca alle classifiche: i 10 racconti di fantascienza più belli, i 5 migliori racconti del terrore, il best of italiano, il top delle flash stories. Ma quando si disputa il campionato maggiore, il racconto più bello di sempre senza limiti di tempo e spazio, il titolo che s’impone quasi sempre è uno. Certo, ogni tanto viene fuori Il nuotatore di John Cheever, più raramente qualcosa (ma cosa? Questo è il problema) di Borges; ma il nome su cui quasi tutti concordano è: Il giro di vite di Henry James.
Ora, che si tratti di un racconto a me lascia un po’ perplesso: sono più di 40.000 parole, contandola all’inglese; 167 pagine, nell’edizione tascabile che ho io. Insomma sarebbe un racconto lungo, ancora meglio un romanzo breve, o novella, e infatti si trova quasi sempre come volume a sé. Ma lasciamo stare le questioni terminologiche e ammettiamolo: Il giro di vite ha terrorizzato milioni di lettori. Ha fatto litigare accademici e studiosi per più di un secolo, ma litigare pesantemente e non su filosofeggiamenti astrusi o interpretazioni esoteriche, proprio sull’abc della vicenda; addirittura a un certo punto ha propiziato la nascita di un intero movimento di critica letteraria, il New criticism. Infine ha ispirato innumerevoli adattamenti su altri media: radiodrammi, opere liriche (Britten) e balletti, pellicole cinematografiche (The innocents e il suo prequel The Nightcomers con Marlon Brando) e film TV, telefilm e serie. Fino all’ultima uscita Netflix, The Haunting of Bly Manor, che è la prosecuzione di The Haunting of Hill House con altri mezzi.
Il successo di questa storia è in parte misterioso, inspiegabile; in parte deriva proprio dal carattere misterioso e ambiguo della vicenda che racconta, e di come la racconta, senza spiegarla.
(Continua su Esquire)
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