«Daniele Del Giudice, scienziato della parola»

Nel 2014 il biologo Edward O. Wilson concludeva il suo libro Il significato dell’esistenza umana con un appello lanciato agli uomini di scienza e a quelli di lettere, per riavvicinare i due mondi: auspicava che uno spirito umanistico e letterario animasse la scienza, soprattutto la divulgazione ma non solo; e d’altra parte invitava gli scrittori, specialmente i romanzieri, a interessarsi delle cose di scienza, a trattare biologia evolutiva e fisica quantistica come realtà nelle quali possono sorgere storie.

Esattamente trenta anni prima, nel 1984, Daniele Del Giudice si apprestava a mettere in pratica questo suggerimento. Dopo aver esordito con Lo stadio di Wimbledon, andava a Ginevra, al CERN, per visitare il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle. Vi sarebbe rimasto una settimana, prendendo meticolosi appunti di tutti i suoi incontri, e traendo ispirazione per un romanzo misterioso e affascinante, bellissimo: Atlante occidentale.

La scienza, anche quella dura come la fisica, ha ispirato generazioni di scrittori (oltre che di mistici): universi paralleli e viaggi nel tempo, per nominare due miti fondativi della fantascienza, sono spesso giustificati e corredati nei romanzi anche più pop da pagine e pagine di teorie e formule, affascinanti quanto inverificate. Ma qui Del Giudice fa scienza, non fantascienza: volendo, si potrebbe dire che fa science fiction nel senso più letterale e auspicabile del termine, narrativa sulla scienza.

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Il MeToo spiegato ai miei figli

Essere genitore significa procedere tra consigli non richiesti e luoghi comuni. Uno di questi ultimi recita: “Figli piccoli problemi piccoli, figli grandi problemi grandi”. Benché io continui a credere che chi lo afferma seriamente non ha mai sperimentato tre mesi filati di privazione del sonno causa pianto di neonato, ora che i miei due eredi – 9 anni la femmina, 3 il maschio – non possono più tecnicamente essere definiti infanti, comincio a vedere il punto. Meno fatica fisica, più impegno mentale; meno preoccupazioni pratiche, più ansie teoriche.

Il caso Harvey Weinstein, le molestie e la sopraffazione sessuale elevate a metodo, anzi a sistema, i movimenti come #quellavoltache e #MeToo sorti in contrapposizione: da quando tutto questo è balzato all’attenzione mediatica, effettivamente il problema ce lo siamo posti: come spiegarlo ai bambini? No, non è vero: il problema ce l’hanno posto gli altri, quelli che pensano che i bambini vadano educati, come se l’educazione fosse un programma scolastico, una cosa diversa dalla vita quotidiana. Perché il problema, se sei genitore e vivi in un mondo, non il mondo dello spettacolo, il mondo tout court, in cui un figlio maschio può diventare uno stupratore, una figlia femmina è una potenziale vittima, il problema te lo poni subito. Come l’abbiamo affrontato? Semplice: non l’abbiamo affrontato. Non ancora. Non direttamente.

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Amy Hempel, la donna che scrive racconti

Amy Hempel è una scrittrice americana, nata a Chicago 1951 e operativa a New York a partire dalla metà degli anni 70. È stata allieva e pupilla di Gordon Lish, insegna in varie università e college, ha scritto e pubblicato esclusivamente racconti. Quattro raccolte nell’arco di trent’anni, dal 1985 (Ragioni per vivere) al 2005 (Il cane del matrimonio), 48 pezzi che riuniti, e ora rieditati da Sem nella traduzione di Silvia Pareschi, compongono la sua opera omnia, che riprende il titolo del libro di esordio. Mentre in Usa è di prossima uscita (marzo 2019) una nuova collection, Sing to It: New Stories.

I suoi esordi grazie a Gordon Lish – eminenza grigia, se non anima nera, del minimalismo; la sua dichiarata venerazione per i maggiori esponenti del genere, da Raymond Carver a Mary Robinson; l’evidente vicinanza dei suoi racconti agli stilemi della corrente: tutto congiura a definire Hempel come appartenente al realismo minimalista. (Fun fact: Gordon Lish è stato, dal 1969 al 1977, editor della fiction a Esquire Usa – collega!).

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E dunque: i racconti di Amy Hempel sono molto belli. Ma di fatto, a cosa assomigliano? Questa di fare paragoni, di cercare coordinate, è una fissazione di noi devoti al culto minoritario del racconto. Un vezzo che serve per orientarsi: più che per la costruzione di un canone – onore riservato al romanzo – per certificare l’esistenza in vita, per non sparire. E quindi ad esempio per alcuni, o almeno per me, Cortázar sarà un Borges sotto acido, Dürrenmatt un prosecutore di Kafka con altri mezzi, Primo Levi e Buzzati gemelli diversi e complementari, Barthelme un Carver cui non hanno tolto il vino.

O forse, la mania classificatoria è una fissa tipicamente maschile; sta di fatto che se devo associare Hempel ad altri, mi vengono in mente nomi più o meno pertinenti come: Lydia Davis, Grace Paley (della quale pure è uscita da poco la raccolta completa di Tutti i racconti, per SUR), Shirley Jackson, ma quella delle pagine schiettamente autobiografiche più di quella che si nasconde così bene dietro i propri personaggi posseduti. Cosa accomuna queste scrittrici, mi sono chiesto. Forse nulla, se non appunto l’essere one of a kind. Leggendo per la prima volta Amy Hempel ho provato una sensazione di grata meraviglia: mammamia, questa roba non è uguale a nient’altro. La stessa sensazione che ho avuto ogni prima con: Lydia Davis – cavoli, con la letteratura si può fare anche questo – Shirley Jackson – ossignore, ma in che lingua scrive – Margaret Atwood.

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