«Daniele Del Giudice, scienziato della parola»
Pubblicato: 29 marzo 2019 Archiviato in: Articoli | Tags: atlante occidentale, dai giornali, daniele del giudice, Einaudi, enzo rammairone, Esquire, intervista, libri Lascia un commentoNel 2014 il biologo Edward O. Wilson concludeva il suo libro Il significato dell’esistenza umana con un appello lanciato agli uomini di scienza e a quelli di lettere, per riavvicinare i due mondi: auspicava che uno spirito umanistico e letterario animasse la scienza, soprattutto la divulgazione ma non solo; e d’altra parte invitava gli scrittori, specialmente i romanzieri, a interessarsi delle cose di scienza, a trattare biologia evolutiva e fisica quantistica come realtà nelle quali possono sorgere storie.
Esattamente trenta anni prima, nel 1984, Daniele Del Giudice si apprestava a mettere in pratica questo suggerimento. Dopo aver esordito con Lo stadio di Wimbledon, andava a Ginevra, al CERN, per visitare il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle. Vi sarebbe rimasto una settimana, prendendo meticolosi appunti di tutti i suoi incontri, e traendo ispirazione per un romanzo misterioso e affascinante, bellissimo: Atlante occidentale.
La scienza, anche quella dura come la fisica, ha ispirato generazioni di scrittori (oltre che di mistici): universi paralleli e viaggi nel tempo, per nominare due miti fondativi della fantascienza, sono spesso giustificati e corredati nei romanzi anche più pop da pagine e pagine di teorie e formule, affascinanti quanto inverificate. Ma qui Del Giudice fa scienza, non fantascienza: volendo, si potrebbe dire che fa science fiction nel senso più letterale e auspicabile del termine, narrativa sulla scienza.
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Il MeToo spiegato ai miei figli
Pubblicato: 14 marzo 2019 Archiviato in: Articoli | Tags: dai giornali, Esquire, metoo Lascia un commentoEssere genitore significa procedere tra consigli non richiesti e luoghi comuni. Uno di questi ultimi recita: “Figli piccoli problemi piccoli, figli grandi problemi grandi”. Benché io continui a credere che chi lo afferma seriamente non ha mai sperimentato tre mesi filati di privazione del sonno causa pianto di neonato, ora che i miei due eredi – 9 anni la femmina, 3 il maschio – non possono più tecnicamente essere definiti infanti, comincio a vedere il punto. Meno fatica fisica, più impegno mentale; meno preoccupazioni pratiche, più ansie teoriche.
Il caso Harvey Weinstein, le molestie e la sopraffazione sessuale elevate a metodo, anzi a sistema, i movimenti come #quellavoltache e #MeToo sorti in contrapposizione: da quando tutto questo è balzato all’attenzione mediatica, effettivamente il problema ce lo siamo posti: come spiegarlo ai bambini? No, non è vero: il problema ce l’hanno posto gli altri, quelli che pensano che i bambini vadano educati, come se l’educazione fosse un programma scolastico, una cosa diversa dalla vita quotidiana. Perché il problema, se sei genitore e vivi in un mondo, non il mondo dello spettacolo, il mondo tout court, in cui un figlio maschio può diventare uno stupratore, una figlia femmina è una potenziale vittima, il problema te lo poni subito. Come l’abbiamo affrontato? Semplice: non l’abbiamo affrontato. Non ancora. Non direttamente.
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Amy Hempel, la donna che scrive racconti
Pubblicato: 7 marzo 2019 Archiviato in: Articoli | Tags: amy hempel, dai giornali, Esquire, libri, ragioni per vivere, recensioni, sem, silvia pareschi Lascia un commentoAmy Hempel è una scrittrice americana, nata a Chicago 1951 e operativa a New York a partire dalla metà degli anni 70. È stata allieva e pupilla di Gordon Lish, insegna in varie università e college, ha scritto e pubblicato esclusivamente racconti. Quattro raccolte nell’arco di trent’anni, dal 1985 (Ragioni per vivere) al 2005 (Il cane del matrimonio), 48 pezzi che riuniti, e ora rieditati da Sem nella traduzione di Silvia Pareschi, compongono la sua opera omnia, che riprende il titolo del libro di esordio. Mentre in Usa è di prossima uscita (marzo 2019) una nuova collection, Sing to It: New Stories.
I suoi esordi grazie a Gordon Lish – eminenza grigia, se non anima nera, del minimalismo; la sua dichiarata venerazione per i maggiori esponenti del genere, da Raymond Carver a Mary Robinson; l’evidente vicinanza dei suoi racconti agli stilemi della corrente: tutto congiura a definire Hempel come appartenente al realismo minimalista. (Fun fact: Gordon Lish è stato, dal 1969 al 1977, editor della fiction a Esquire Usa – collega!).
E dunque: i racconti di Amy Hempel sono molto belli. Ma di fatto, a cosa assomigliano? Questa di fare paragoni, di cercare coordinate, è una fissazione di noi devoti al culto minoritario del racconto. Un vezzo che serve per orientarsi: più che per la costruzione di un canone – onore riservato al romanzo – per certificare l’esistenza in vita, per non sparire. E quindi ad esempio per alcuni, o almeno per me, Cortázar sarà un Borges sotto acido, Dürrenmatt un prosecutore di Kafka con altri mezzi, Primo Levi e Buzzati gemelli diversi e complementari, Barthelme un Carver cui non hanno tolto il vino.
O forse, la mania classificatoria è una fissa tipicamente maschile; sta di fatto che se devo associare Hempel ad altri, mi vengono in mente nomi più o meno pertinenti come: Lydia Davis, Grace Paley (della quale pure è uscita da poco la raccolta completa di Tutti i racconti, per SUR), Shirley Jackson, ma quella delle pagine schiettamente autobiografiche più di quella che si nasconde così bene dietro i propri personaggi posseduti. Cosa accomuna queste scrittrici, mi sono chiesto. Forse nulla, se non appunto l’essere one of a kind. Leggendo per la prima volta Amy Hempel ho provato una sensazione di grata meraviglia: mammamia, questa roba non è uguale a nient’altro. La stessa sensazione che ho avuto ogni prima con: Lydia Davis – cavoli, con la letteratura si può fare anche questo – Shirley Jackson – ossignore, ma in che lingua scrive – Margaret Atwood.
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