Da Wu Ming al jazz etiope, siamo tutti meticci

Ci sono due tipi di libri magici. Quelli che ti trascinano nel loro mondo, e quelli che invadono il tuo mondo. I libri del primo tipo sono quelli che mentre li leggi, la realtà esterna svanisce e tu sei completamente risucchiato nell’universo della finzione; poi magari chiudi il libro, e finisce lì. I libri del secondo tipo sono quelli che mentre li leggi, sì bello, ma magari ti puoi pure distrarre, te ne puoi pure staccare senza tanta pena; però poi, mentre sei lì che vai al lavoro, o che carichi la lavastoviglie, ti sorprendi a pensare: chissà che starà facendo tizia, chissà come va a finire quell’incontro di caio. E ti accorgi che pensi ai personaggi del libro come a delle persone vere, peggio, come a degli amici.

Wu Ming 2 e Antar Mohamed, Timira, Einaudi

Ora , è vero che nel caso di Timira i personaggi sono persone vere per davvero. Ma è anche vero che sono protagonisti di vicende così straordinarie, eppure così emblematiche, da meritare la qualifica di romanzesche: da meritare un romanzo. Timira è il libro che ho scelto per l’ultima puntata – per quest’anno – della mia rubrica radiofonica Il libro che suona (che cos’è) nella trasmissione Flatlandia su Radio onda d’urto. A Flatlandia avevano già parlato di questo “romanzo meticcio” la settimana scorsa intervistando Wu Ming 2. Comunque: è la storia di Isabella Marincola, nata a Mogadiscio da un ufficiale italiano e una donna somala, portata a neanche due anni a Roma, cresciuta lì con la moglie del padre insieme al fratello Giorgio (che morirà partigiano nel ’45), modella e attrice, tornata a Mogadiscio nel ’62 per sposare un somalo conosciuto in Italia, ritornata qui nel ’91 come profuga a causa della guerra civile che sconquassa(va) la Somalia. Meticcia la protagonista, meticcia la scrittura: Antar Mohamed, coautore, è il figlio di Isabella nonché ovviamente personaggio del romanzo.

Come si capisce, questa storia personale incrocia più volte la Storia cosiddetta maiuscola – come sempre nelle narrazioni del collettivo Wu Ming e suoi derivati. Ed è una Storia in parte dimenticata, rimossa: quella del colonialismo all’italiana. Un aspetto di cui non ci siamo mai presi la responsabilità fino in fondo, a differenza di imperi come Francia o Inghilterra, che con le ex colonie hanno un rapporto molto stretto, in parte non risolto, ma comunque riconosciuto. Noi no, e questo sia a livello politico che a livello di coscienza sociale: se mi chiedi a bruciapelo “L’Italia è stata una potenza coloniale?” ti rispondo no, quando mai. Forse perché la Seconda guerra mondiale ci ha messo mentalmente nella parte dei perdenti, dei poveracci, altro che potenza, e poi noi il fascismo lo abbiamo subito, mica voluto. Una sorta di rimozione collettiva, che ci porta a sapere magari tutto sulle schifezze fatte dal re del Belgio in Congo, o ad aver imparato a memoria La battaglia di Algeri, e però ignorare la Somalia, sia di allora che di ora.

Altre rimozioni toccate nel libro: episodi come la strage di Stramentizzo, dove perde la vita Giorgio Marincola, unico partigiano coloured della storia d’Italia, a quanto risulta. Questo eccidio nazista, attenzione alle date, avviene il 4 maggio ’45, cioè nove giorni dopo la conclusione ufficiale delle ostilità: che a guerra brutta e finita ci siano stati scontri e stragi come quella, non è proprio una cosa che abbiamo tutti sulla punta della lingua.

L’oblio storico fa pendant con quello personale: Isabella Marincola è un nome che a nessuno dice niente – anche a causa del fatto che nelle sue apparizioni pubbliche figurò di volta in volta con il cognome del padre, con quello della madre, con quello del primo o del secondo marito, e in certi casi cambiando anche il nome proprio in Timira, appunto – ma visse da protagonista nella scena artistica romana del dopoguerra. Modella per pittori e scultori, compreso un arrapatissimo Guttuso, ma diciamo che nessuno si salva dal cliché del “sarà disponibile in quanto”… giovane modella squattrinata? o giovane gazzella africana? Ma anche attrice, di teatro e di cinema: era una delle lavoratrici del mitico Riso amaro – en passant, la mondina con la pelle nera, un impossibile nel vercellese del ’48, eppure fortemente voluto dal regista De Santis: per dire quanto di surreale, di fantastico, di letterario ci fosse nel cosiddetto neorealismo. Anche se poi proprio a causa del suo color caffellatte non ha potuto mai avere parti di primissimo piano. Comunque i suoi ricordi sono pieni di incontri con personaggi famosi: c’è per esempio una bellissima foto con Sordi – nel libro è costante anche se discreta la presenza di materiali d’archivio e immagini – e c’è uno scambio di battute in cui il mammasantissima Indro Montanelli fa la figura del razzista cretino.

Il disco con cui ho azzardato il parallelo è:

Mulatu Astatqè, Ethiopiques 4, Buda musique

Azzardato perché, come racconta la stessa Isabella in una memorabile pagina che in radio ho letto, l’Etiopia non è la Somalia, guarda un po’. Anzi è “un vicino ingombrante, sempre pronto a invadere, a imporre un impero”. E ricevere, come le è capitato, un mazzo di rose con annesso biglietto “Per la principessa Makonnen”, sovrana etiope appunto, è un po’ come se a una signorina polacca un cascamorto tedesco offrisse dei fiori con dedica “Per la zarina di Russia”. Con sprezzo del pericolo, mi sono avventurato nel paragone. Un po’ per le somiglianze storiche di fondo – anche l’Etiopia è stata colonia italiana – che fanno risaltare ancora di più le differenze, e un po’ per essere meticci fino in fondo.

Mulatu Astatqè è nato in Etiopia, ha studiato musica in Galles, poi a Londra, e infine – primo africano in assoluto – all’università mondiale del jazz, la Berklee di Boston. Vibrafonista e compositore, fu seguace, come tanti jazzman dell’epoca, dei ritmi afro-caraibici; in seguito si è inventato una originale miscela di latin jazz e musica etiope, fondando quello che è passato alla storia come un genere a sé, l’Ethio-jazz. Ecco: considerato che l’Italia ha avuto dal ’50 al ’60 l’amministrazione fiduciaria della Somalia – cioè la gestione del cammino verso l’indipendenza, oggi diremmo transizione democratica – ed è stato un caso unico nella storia, dato che non si è mai fatto fare il tutor all’ex colonizzatore; considerato che invece l’altra parte dell’Africa orientale, l’Etiopia appunto, fu affidata agli inglesi; insomma, e forzando un po’ la mano, potremmo evidenziare la differenza dei risultati: loro hanno prodotto Mulatu Astatqè, noi Siad Barrè.

E per chiudere, a proposito di meticciato. Uno dei leitmotiv di Timira è “essere profughi significa…”, e di volta significa una cosa diversa, ma mai consolante. Io direi che la parola centrale non è profugo, è un’altra: questo libro va al di là dei meritori, e centratissimi, obiettivi di chiarezza storica e sociale. Oltre le intenzioni coscienti degli autori, resta poi l’oggetto narrativo come cosa autonoma: e questo Timira, come i migliori prodotti della letteratura contemporanea, pone il problema dell’identità. Chi sono? Chi sei? Chi è Isabella Marincola / Timira Hassan, africana di nascita ed europea di educazione, negra che traduce il greco e il latino, troppo scura per non essere guardata con razzismo in Italia e troppo chiara per non essere vista con sospetto in Somalia, ragazza a Roma e donna a Mogadiscio – ma senza imparare in trent’anni più di qualche parola in somalo – e anziana a Bologna?

C’è un bellissimo passaggio che parte dalla parola “stronza” per diventare un apologo sull’equivoco verbale, sull’equivoco tout court: o lo leggete direttamente nel libro, o lo ascoltate qui – letto da me e con il sottofondo di Mulatu – e mi dite com’è venuto.


La tràcina

Com’è triste la tracina
che in mezzo al mare macina
il suo grano di Cina.

Questa è una storia tragica:
arriva un’onda strabica
la macina tracima.

(Oh, tracina piccina!)


Enrico Blatti, un altro treno

Enrico Blatti, Espresso 443, Egea

E se Coltrane giocava con l’assonanza tra il suo cognome e il treno (Blue train, Take the Coltrane), qui la locomotiva entra direttamente nel titolo del disco: Espresso 443, di Enrico Blatti per Egea. La metafora del viaggio in campo musicale è ormai abusata, soprattutto da quando è stata scoperta la world, ma mai come in questo caso è azzeccata. Blatti ha una formazione classica, si è fatto le ossa nel jazz e ha un’appassionata curiosità per la musica etnica: tutti questi elementi si ritrovano nei brani del disco. Di cui lui è solo compositore, lasciando l’interpretazione alla crema dei musicisti italiani: sax di Pietro Tonolo, clarinetto di Gabriele Mirabassi, violino di Ettore Pellegrino, fisarmonica di Mario Stefano Pietrodarchi, contrabbasso di Maurizio Luciani, arpa di Elena Trovato e percussioni di Pietro Pompei. Ecco allora che la molteplicità dei riferimenti stilistici, e la varietà dei suoni, rendono il cd variegato e mai noioso. Mentre l’idea del viaggio, il senso del movimento, facilmente si trasferiscono dalla strada ferrata ai nostri piedi, dandoci la sensazione di correre su binari sicuri.

(Articolo uscito sul numero di maggio del mensile sportivo Correre)


Il Trane dei desideri

Quarant’anni fa il mondo del jazz – meglio, il mondo della musica; meglio, il mondo – veniva travolto da un fiume in piena, da un treno lanciato, da una valanga di fuoco. Questo cataclisma aveva un nome e un cognome: John Coltrane. Il sassofonista americano era arrivato tardi fra i grandissimi, a trent’anni suonati, nel 1956, in un mondo di enfant prodige e gioventù bruciatissime. Era stato poi scoperto e valorizzato da due miti come Miles Davis e Thelonious Monk, infine aveva registrato cose notevoli a suo nome, come Blue Train e soprattutto Giant Steps. Ma My favorite things fu tutta un’altra cosa, e ancora adesso è considerato dagli esperti uno degli album più importanti della storia del jazz.

Il quale jazz, in quei primi anni ’60 – superata la rivoluzione be-bop, i raffreddamenti del cool e i furori di ritorno dell’hard-bop – era conteso tra due gigantesche forze modernizzatrici: da un lato l’iconoclastia intransigente, e dalla connotazione anche socio-politica, del free jazz, capofila Ornette Coleman; dall’altro il ribaltamento, meno clamoroso ma dalle conseguenze più durature, operato da Miles e i tanti altri seguaci del jazz modale. Precisamente in mezzo, Coltrane. Che del free aveva il rabbioso impegno per la causa dei fratelli neri, e stilisticamente il ricorso a grugniti urla fischi e altre sperimentazioni sonore; dal jazz modale prese l’innovatività, la rottura di una tradizione basata sul canzoniere americano, l’attenzione per le musiche di altri continenti – Africa, India – infine la possibilità di esplorare la propria anima e l’universo in un flusso di coscienza libero.

My favorite things ha una serie di primati: è il primo album che Trane incide per la Atlantic, ed è il primo in cui mette su il suo storico quartetto, con l’alter ego, il formidabile McCoy Tyner al piano, e il possente Elvin Jones alla batteria, mentre i bassisti cambieranno spesso. Infine, per la prima volta recupera il sax soprano, che dopo i fasti del dixieland era stato abbandonato dal jazz, e ne fa un uso tutto suo.

Incredibilmente in tanta novità, i quattro lunghi brani dell’album sono tutti standard, nessuna composizione di Coltrane, eppure. C’è una tosta But Not For Me di Gershwin. C’è una Everytime We Say Goodbye di Cole Porter straziante però molto tesa. C’è una spericolata, impossibile Summertime, che da ballata o canzoncina diventa un uptempo sorprendente. C’è infine la title track, una vecchia e diecimila volte coverizzata canzone di Rodgers-Hammerstein.

Eppure: il modo di rileggerle è così originale, così personalizzato che lo stesso Coltrane ricorderà: “Molti pensano, sbagliando, che My Favorite Things sia una mia composizione; vorrei tanto averla scritta io…”. È il famoso fenomeno dell’appropriazione della cover, quello per intenderci secondo cui tutti dicono Azzurro di Celentano o Knockin’ on heaven’s door dei Guns’n’Roses. Il pezzo – un valzer, altra stranezza – viene preso e modificato nella struttura armonica, in modo che le improvvisazioni possano scorrere con meno vincoli; spesso durante i quasi 14 minuti si affaccia la semplice melodia del tema, per poi subito re-immergersi in un flusso per il quale Arrigo Polillo, nella sua bibbia Jazz, spenderà queste parole: “un effetto traumatico sugli ascoltatori, che venivano coinvolti in un vortice di musica densa e stordente, molto spesso incantatoria”.

Resta da capire perché questo album sia così adatto per correre. Ma precisamente per le stesse ragioni che lo rendono un grande album tout court! Innanzitutto la sua modernità: non a tutti piace il jazz, ed effettivamente quello classico di Charlie Parker è complicato e ostico, mentre Coltrane è più accessibile, non perché sia commerciale ma perché parla un linguaggio universale. Poi, la lunghezza dei brani aiuta a mantenere il ritmo costante, senza spezzarlo con continui silenzi; mentre la popolarità di molte melodie fornisce un sostegno, un ancoraggio. Infine, il carattere ipnotico del jazz modale, imperniato su pochi accordi e ampi assoli, è l’ideale per farsi trasportare, quando fatica ed estasi sono una cosa sola, e nell’assenza di pensieri è più facile entrare in contatto con le sfere celesti. O perlomeno, con il meraviglioso universo sonoro di John Coltrane.

(Articolo uscito in versione abbreviata sul numero di maggio del mensile sportivo Correre)


Pino a metà

E va bene, lo dico subito: Marcella Russano è una mia amica. Tanto prima o poi mi sgamate, visto che nel suo libro (perché finito questo post non potrete fare a meno di leggerlo, nevvero?) trovate il mio nome addirittura nei ringraziamenti finali – del tutto immeritatamente peraltro: infatti tempo fa mi aveva solo detto che stava iniziando a scriverlo, e chiesto qualche dritta che io non avevo saputo darle. Ma non è l’amicizia a farmi parlare di Nero a metà (questo casomai è il motivo per cui ne parlo solo qui): d’altra parte come ho già detto la marchetta esiste solo in quanto subdola. Non è l’amicizia che mi spinge. È l’amore. Per Pino Daniele, s’intende.

Questo libro è molte cose, ma non è almeno un paio di cose. Non è un libro “tutti-i-testi”, di quelli con una introduzione critico-agiografica, una breve presentazione per ogni album e poi le canzoni tutte tutte; di quelli che pubblicava la Arcana, mitica, in era pre-internet, e che noi ggiovani degli anni ’80-’90 compulsavamo fino a spaginare; tipo questo, che ormai mi è diventato a fascicoli.

E non è manco una biografia, anzi i pochi dettagli tratti dalla vita privata di Pino Daniele, i pochi che sono necessari e funzionali al discorso, si vede che sono cavati dalla tastiera di Marcella quasi a forza, come se scrivendoli pensasse ma chissenefrega, non è di questo che stiamo parlando, dài.

Questo libro è molte cose, contemporaneamente: è una storia artistica di Pino Daniele, dalla tarantella al rock-arabe passando per il blues. È un ritratto documentato e appassionante del contesto il cui quella storia è nata e si è sviluppata: il Naples Power e più in generale tutto il movimento musicale e culturale di una certa Napoli, di un certo (ampio) periodo che va dalla Nuova compagnia di canto popolare ai 99 Posse. È il tentativo ulteriore di inserire questo contesto in un qualcosa di ancora più vasto, un modo di sentire e di proporre Napoli oltre le retoriche tradizionali o moderne, una spinta che accomuna Masaniello e Eduardo, e ovviamente Troisi. E allargando ancora, perché tutto è connesso, è una breve storia dell’universo.

Perché queste neanche duecento pagine, che scritte in realtà con un carattere più grandicello sarebbero state almeno il doppio, sono percorse dalla smania di raccontare tutto e, molto anglosassone in questo, di non dare niente per scontato: si nomina il blues? E via con le colonie, la tratta degli schiavi e tutto, vicenda magistralmente condensata in poche pagine, ma pur sempre ripercorsa. Così di Pino Daniele per momenti anche lunghi si perdono proprio le tracce, nella lettura.

Il libro contiene anche un breve inserto a fumetti (carino quanto superfluo). C’è un’appendice con interviste a vari personaggi decisivi per Pino Daniele, dal produttore Renato Marengo al percussionista brasiliano Nanà Vasconcelos. E c’è un sostanzioso capitolo finale in cui, concluso lo svolgersi più o meno cronologico della storia musicale, le canzoni, comunque sempre presenti e citatissime, salgono alla ribalta in primo piano. È una specie di analisi trasversale, di divisione non per album ma per temi; insolita e geniale, ecco i titoli dei paragrafi: Ritratti, Luoghi, Amore, Appocundia.

Attenzione: ho detto canzoni e non testi, perché anche se il sottotitolo (Dalle origini a Grande madre, tutta la poesia di Pino Daniele) si avvicina temerario alla vexata quaestio – De André va messo nelle antologie scolastiche? Bob Dylan può avere il Nobel per la letteratura? – l’autrice non cade nella trappola, non dimentica mai di parlare anche di musica, di suoni e colori. E leggendo questo ultimo bellissimo capitolo sembra quasi, sarà la suggestione di chi l’ha ascoltato a valanga, di sentirlo cantare in sottofondo.

Ma il principale merito di questo libro, almeno per me,è un altro. È quello di dare una risposta alla domanda: ma che è successo a Pino Daniele? Se avete già capito di cosa sto parlando, saltate un paio di paragrafi. Se invece la frase vi suona strana, provo a spiegarmi: dovete sapere che per una vasta fascia di napoletani, diciamo più o meno una fascia d’età che va dai suoi coetanei (è del ’55) ai coetanei miei (sono del ’75) e oltre, Pino Daniele non è un cantante. Non è neanche la banalità de “la colonna sonora della mia vita”. Non è solo quello che appena inizi a imparare la chitarra provi a rifare qualche pezzo per poi capire che no, è un altro pianeta. Per noi Pino Daniele è una bandiera, un retroterra comune, un fratello maggiore. Uno che ha messo in musica e parole tutta la bellezza e la rabbia, tutto quello che ognuno di noi ha dentro ma che nessuno di noi riesce a dire. Tranne lui.

Solo che a un certo punto qualcosa è cambiato. Lentamente, ma inesorabilmente. È calato il napoletano ed è subentrato l’italiano, è calato il blues e aumentato il pop, è scomparsa la surreale magia e ha prevalso la canzoncina cuore-amore. È cambiato anche il pubblico, non solo aumentato di molto, ma proprio cambiato: come se Pino non si rivolgesse più a noi, ma ad altri. E noi così ci siamo sentiti, abbandonati, traditi.

Quando è successo? Lentamente, ma sicuramente da qualche parte tra Mascalzone latino e Che Dio ti benedica, con in mezzo al guado Un uomo in blues. E tutti a chiederci: cosa è successo? Com’è possibile che un giorno uno scrive “Anna verrà / raccoglieremo i cani per strada / ci metteremo qualche altra cosa / per non essere più soli” e il giorno appresso invece scrive “Che Dio ti benedica / che fica”? Che cosa ha trasformato mr. Pino nel sig. Daniele, il cosmonapoletano del taranblues nell’italo-italiano impiegatuccio del pop?

Questioni di cuore, è la risposta. Nel doppio senso, fisico e simbolico. Il blocco delle coronarie che nell’89 lo porta molto vicino a rimanerci. E, immediatamente dopo, l’amore, la serenità affettiva trovata a fianco dell’attuale compagna. La risposta, come il segreto di Pulcinella era sotto gli occhi di tutti. Il merito di Marcella Russano è, innanzitutto, di non aver eluso la domanda, pur avendo la diplomazia di riconoscere al sig. Daniele meriti forse eccessivi; ma poi, appunto, di aver tirato fuori la risposta che era lì come la lettera rubata di Poe. E lo ha fatto riportando le parole dello stesso Pino post-infarto.

Pensai d’aver chiuso con la musica, coi concerti, con quella vita di compositore e interprete che mi portava da uno studio a un teatro, da una sala di incisione a un auditorium. […] C’è voluto del tempo per ricominciare ad avere qualche speranza, a ritrovare la forza di riprendere il cammino. Mi hanno aiutato mia moglie, i miei figli e amici come Massimo Troisi, Rosario Jermano, Massimo Ranieri. Il segreto è stato quello di adattarsi alla malattia. Convivere con la nuova condizione fisica. Non suonare più? Impossibile. Continuare come prima? Impossibile anche questo. Riguardarsi e continuare con accortezza, questo sì. E mano a mano è tornata la volontà di andare avanti, anzi è più limpida di prima […]. Mi curo non per paura della morte ma per poter continuare a comporre e a suonare

Si permette solo di aggiungere Marcella: “Ma come può ‘continuare con accortezza’ uno come Pino Daniele che si è, fino a questo momento, fatto portavoce della ribellione giovanile, delle tensioni che attraversano il Sud del mondo, che si è speso fino a non averne più?”. Ma sentiamo ancora Pino Daniele, con una consapevolezza di sé tanto cruda da fare male:

Ho scritto delle cose belle nel passato, canzoni che secondo me rimarranno. Ora però non so più scrivere in quel modo […]. Non sono molti gli artisti che ammettono di non riuscire a scrivere più con la stessa intensità di prima… non credo sia un fatto di capacità, credo sia più un fatto di vita…

Per questo, dopo anni passati a farmi il sangue amaro, e dopo altri anni passati a non pensarci più, oggi mi sento di dover ringraziare Marcella Russano. E anche un poco Pino Daniele, sì.


Quei cani dei politici

Carola Vai, In politica se vuoi un amico comprati un cane, Daniela Piazza editore (2011), pag.240, Euro 17

Il bestiario è un genere letterario di antica e nobile tradizione: precursori ne furono Aristotele e Plinio il Vecchio, che quattro libri della sua Historia naturalis li dedicò agli animali, avvertendo ad esempio che “il fiato degli elefanti fa uscir fuori i serpenti, invece quello dei cervi li brucia”; esplosione e massimo successo si ebbero nel Medioevo, con tanto di orrorifiche illustrazioni; compendio e culmine fu (in questo come in altri filoni) un libro di Jorge Luis Borges, il Manuale di zoologia fantastica scritto con Margarita Guerrero. Ora, è arrivato in libreria il seguente volume: In politica se vuoi un amico comprati un cane, firmato da Carola Vai per l’editore Daniela Piazza. Ovvio che con un titolo così, di questi tempi in cui dare addosso alla casta è il nuovo sport nazionale (e in cui d’altra parte la casta non sembra interessata a farci cambiare opinione), con un titolo così, preso tra l’altro pari pari da una folgorante battuta del presidente americano Truman, l’equivoco è dietro l’angolo: sarà il solito pamphlet sugli onorevoli poco onorevoli, infidi e bastardi (ops…). E invece, mettiamolo subito in chiaro, il libro non riguarda quei cani dei politici ma, alla lettera, i cani dei politici: il sottotitolo è infatti Gli animali dei potenti.

In realtà, a ben vedere neanche proprio di questo si tratta, quanto del rapporto che molti politici – italiani e stranieri, del passato e del presente, e in mezzo a tutti questi Papa Ratzinger – hanno con gli animali domestici, in termini di relazioni private ma spesso anche di impegno pubblico, di leggi proposte a tutela e via dicendo. Si apprende così che Garibaldi, a Italia appena unita, per contrastare le allora nascenti sperimentazioni scientifiche fatte con la vivisezione, promosse la fondazione della “Regia società torinese protettrice degli animali”, antenata dell’attuale Enpa. E che Giovanni Spadolini firmò la prima legge contro la caccia. Ma si scopre anche, via Jas Gawronsky, che Gianni Agnelli “dava da mangiare ai cani con la forchetta” e, secondo altri testimoni, che per lui“i cani sono stati spesso più importanti delle persone”; il che forse, più che dire dell’alta considerazione per le bestie, illustra la scarsa stima dell’Avvocato per i simili.

Venendo all’oggi, si passa dalla ricerca d’archivio alla presa diretta: l’autrice, giornalista oltre che amante dei quattrozampe, ha raccolto notizie e spesso personali dichiarazioni dei politici in carica. Li vediamo sfilare quasi tutti: da Bossi a Berlusconi, da Rosy Bindi a Veltroni, fino all’ultimo dei peones. E con ironia tanto più efficace quanto involontaria, emergono le contraddizioni: Michela Vittoria Brambilla, la rossa ex ministra in testa a battaglie senza quartiere contro la caccia e ogni crudeltà sugli animali, che in passato ha diretto l’azienda paterna, leader nell’importazione di… salmone e caviale. Calderoli, che aveva una tigre “ma ho dovuto darla via perché aveva divorato un cane”, evidentemente preferisce l’esotico: perché ha avuto anche due lupi, ma non esiterebbe a sgozzare maialini e spargerne il sangue al suolo per impedire l’edificazione di una moschea. Scajola, furbo di tre cotte democristiano-berlusconiano-postberlusconiano, dice che ama i gatti “perché non sono ruffiani”.

Più curiosa l’aneddotica sui pets dei potenti stranieri: dal gatto di Downing street, fin dal 1924 stipendiato dal contribuente inglese per tenere a bada i topi che infestano l’abitazione del premier; all’attuale cane della Casa Bianca, che nelle promesse di mr. President doveva essere “un meticcio come me” e invece è un rarissimo Cao de Agua portoghese (una delle poche razze che non dà problemi a chi è allergico come la piccola Malia Obama). Certo, a furia di guardare il mondo ad altezza di cuccia, sembrano tutti bravi ragazzi, anche Putin così affezionato al suo labrador (passione in comune con Clinton e D’Alema), anche Maria Antonietta che stimava gatti e carlini al pari dei nobili di Francia, e si finisce per dedicare un paragrafo pure a Hitler: notoriamente vegetariano (ma per problemi intestinali), è vero che autorizzò un po’ di esperimenti sugli esseri umani e qualche campetto di concentramento, però vietò severamente la vivisezione e i maltrattamenti sugli animali.

Per cui insomma, alla fine è chiaro: se un politico vuole un simpatico mezzo di propaganda, o un sostituto d’affetto per i bambini che lo vedono sempre lontano da casa, o più semplicemente un qualcuno da comandare 24 ore su 24, cosa fa? Si compra un cane. Più arduo, purtroppo, ma non impossibile, è supporre cosa farebbero le tenere bestiole in questione se fossero loro a scegliere se farsi acquistare e governare da un politico – o putacaso, da un tecnico – ed eventualmente, da quale. Loro, poverine, che non possono nemmeno votare.

(Versione senza tagli dell’articolo uscito il 12 febbraio sul Mattino di Napoli)


Immigrati

Vengono qui, e ci rubano il lavoro. Quante volte l’abbiamo sentita questa frase, prima riferita ai meridionali al nord, poi ai meridionali del mondo in Italia. E da quanto non la sentiamo più, invece, questa frase, forse perché il lavoro, chi l’ha visto? Eh, ma fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare. Altra tiritera, altro luogo meno comune e più feroce. Sta di fatto che siccome qua parliamo di musica, per fortuna o purtroppo, tocca dire di suoni e non di flussi migratori. Però. Visto che il mese scorso abbiamo detto di suoni italici che in qualche modo viaggiavano, invadevano spazi e tempi altri, stavolta facciamo il contrario. E forse anche la prossima volta. Ascoltiamo cioè suoni che viaggiano e invadono i tempi e gli spazi nostri. Musiche e musici che sono qui a rubarci il lavoro.

E partiamo proprio da un superclassico del genere: il senegalese ambulante, il vu cumpra’ come diceva mio padre, ora anche lui ha smesso di dirlo, potenza del politically correct, e dice di nuovo semplicemente, serenamente, negro. Idrissa Sarr per la verità non è sbarcato mezzo annegato a Lampedusa, non è stato rinchiuso in un Cpt, non ha girato le spiagge del Salento con ottanta chili di mercanzia taroccata su una spalla. Nato nel ’79 a Dakar, musicista figlio di musicisti, ha però comunque affrontato un viaggio e un processo di sradicamento, e in Salento ci è finito lo stesso, ma come esordiente nella casa discografica 11/8 di Cesare Dell’Anna, che pubblica questo Immigration (ma va’). “Il turista col baffetto mangia il cocco ed è perfetto”, cantilena il venditore di cocco sull’infinita sabbia salentina, e non si capisce se allude ai mustacchi dell’estensore di questa nota, o al gallipolino D’Alema. Ma è italiano, bianchissimo, e tiene i baffi pure lui. Mentre si susseguono in un flusso continuo venditori di tutto il resto, e sono neri, e sono stremati dal caldo e dal peso, e si portano dietro a volte i figli piccoli che non sai se incazzarti perché li schiavizzano o essere contento perché non li hanno buttati da qualche parte. Ora, probabilmente anche quella sta per finire, ma l’industria discografica del falso, del masterizzato, del pezzotto con la copertina sgranata, prende una larga fetta affianco a braccialetti e canotti. E ragazzi, qui non è che ci stiamo a scandalizzare per la violazione del copyright: è che se il negretto viene beccato con la merce contraffatta, scatta se gli va bene il sequestro totale, il che vuol dire bancarotta visto che – lo sapevate? – l’ambulante per definizione non ha scorte di magazzino, non ha magazzino. If you can’t beat ‘em, legalize it, deve aver pensato Dell’Anna – trombettista, discografico e ora anche creativo del marketing – quando ha lanciato questa idea: “Mercato nero”. Un modello di distribuzione e vendita dei cd che s’insinua tra i due giganti delle major da un lato, e del falso dall’altro: dischi originali, muniti di regolarissimo bollino Siae, in mano a immigrati muniti di regolarissima licenza di vendita, e quindi al riparo da multe e sequestri. Ma venduti “come se” fossero falsi, cioè porta a porta, melius ombrellone a ombrellone, o sulle bancarelle. Si parte naturalmente con i cd della stessa etichetta 11/8, ma si attendono adesioni delle altre piccole e indipendenti. Vedremo che succede.

(Era l’incipit della mia rubrica Caravan, sul numero di giugno di Blow Up. Continua in edicola)

TAPPE PRINCIPALI

Baye Fall, Immigration, 11/8

Chick Corea e Stefano Bollani, Orvieto, Ecm


La banda degli Onetti e il Sur-realismo tragico

Juan Carlos Onetti, Gli addii, traduzione di Dario Puccini, Edizioni Sur, pag. 131, euro 14

Il titolo pieno di probabili refusi vi ha attirato? Bene, lasciamolo stare un attimo. E concentriamoci sulla trama: un sanatorio fuori dal mondo, un protagonista votato alla rassegnazione, ombre femminili che gli danzano attorno, medici infermieri e altre irreali comparse, l’amore e la morte, la tisi che non fa soffrire più di tanto ma che aspetta inesorabile in fondo al cammino. Che libro è? Ma certo, Diceria dell’untore, Gesualdo Bufalino. E invece no: si tratta di Juan Carlos Onetti, Gli addii.

Certo la suggestione è forte, ma al di là dell’ambientazione, dell’epoca in cui sono stati scritti (nel 1954 Gli addii, mentre la Diceria anche se uscirà nel’81, era stata iniziata nel ’50), e di un certo affascinante manierismo stilistico (però molto più da urlo in Bufalino), i due libri non hanno molto in comune. Non solo perché l’untore a sorpresa sopravvive, mentre l’ex cestista de Gli addii inevitabilmente muore (no spoiler: lo scrive Onetti nella prima mezza pagina); non solo perché nella Diceria, a dispetto della reclusione dei personaggi, c’è sviluppo, c’è azione, ci sono fatti, un inizio e una fine, mentre ne Gli addii, anche se il protagonista si aggira tutto sommato libero tra un albergo e una casetta in affitto, impera la stasi, i movimenti sono come vischiosi. È che Diceria dell’untore è un romanzo filosofico, una riflessione su come cambia il senso della vita quando si coabita con la morte, e viceversa. Mentre Gli addii è… beh il libro di Onetti è… come dire, mah!? Ripartiamo daccapo.

Juan Carlos Onetti (1909-1994), uruguayano, autore di numerose opere narrative, definito da Cortàzar il più grande romanziere sudamericano, e da quasi tutti accostato a Willam Faulkner. Sarà. A me ha ricordato un Borges (e te pareva), quel libro scritto insieme a Bioy Casares dove c’è Isidro Parodi che risolve enigmi polizieschi senza muoversi dalla sua cella. In questo caso a non muoversi dal suo posto è il gestore del bar, che ci racconta la storia: vede arrivare in paese il protagonista, e poi gli tiene da parte le lettere, e poi vede transitare dal locale la sua donna, e poi un’altra sua donna. Non solo non risolve nessun mistero, questo narratore tutt’altro che onnisciente, ma non ci capisce quasi nulla: un po’ perché il protagonista, che a un certo punto si scopre essere stato un campionissimo di basket, gioca a fare il reticente e a non mischiarsi con nessuno; un po’ perché i fatti che si svolgono davanti ai suoi occhi sono solo una minima parte; un po’ perché gli altri fatti gli arrivano di seconda o terza mano, e quindi a noi che leggiamo di terza o quarta mano: avete presente quel gioco che si fa da bambini, telefono senza fili mi pare, in cui ognuno sussurra una parola nell’orecchio di chi gli sta a fianco, e alla fine si raffrontano la parola iniziale e la sua deformazione finale, tra le risate di tutti? Ecco, noi siamo gli ultimi della catena, ma la prima parola non viene svelata mai.

Che poi, non è neanche vero che non succede niente, verso la fine ci sta pure una specie di colpo di scena, che naturalmente non riguarda la vicenda, i fatti che accadono nel presente, ma il passato, cioè i fatti che vengono ricostruiti, che si sommano alla giungla di ipotesi, illazioni, proiezioni che il narratore e le altre comparse fanno. Insomma ancora una volta il senso ultimo sfugge, e il forte sospetto è che ci sia una decisa intenzionalità dell’autore: una sottrazione di senso, ma non maliziosa, quasi dolente, compassionevole (con noi che leggiamo, s’intende). Sfugge però anche il senso del fascino stregato di questo romanzo: perché è così ammaliante? Meglio lasciare la parola all’esperto:

Malgrado i suoi personaggi non sfuggano alla banalità quotidiana, né alle frasi fatte dei colloqui dialettali, in genere si muovono (a volte si potrebbe dire che fluttuano) su un piano che ha qualcosa di irreale, di allucinato, nel quale i dettagli verosimili sono poco più che deboli imbastiture.

Così Mario Benedetti, altro scrittore uruguayano, nel saggio su Onetti posto alla fine del romanzo. E già, perché la Edizioni Sur, costola di Minimum fax nata da poco e specializzata in sudamericani, fa queste cose meravigliosamente anacronistiche: copertine rigide, prefazioni (stavolta di Antonio Muñoz Molina), postfazioni, e il tutto pure per un prezzo modico; inoltre il suo modello commerciale è basato sul bypass della grande distribuzione tradizionale e sul rapporto diretto con i librai indipendenti (ho detto anacronistico: letteralmente, fuori dal tempo presente, ma non necessariamente legato al passato, potrebbe anche essere il futuro). Ancora Benedetti, che centra il punto:

Onetti crea un’atmosfera fantasmagorica, irreale, senza ricorrere a nessuno degli stratagemmi della letteratura fantastica, ma semplicemente avvalendosi di convenzioni realiste, di dialoghi credibili, di individui sconfitti, di monologhi interiori che soffrono solo dell’improbabilità di essere troppo ben scritti.

Che dire. Sur, benemerita, pubblicherà un po’ alla volta tutte le opere di Onetti. Avremo modo di approfondire, di leggerne di più, di capirci di meno.

(Oggi su www.giudiziouniversale.it)


Songs of freedom, le cover preferite di Nguyên Lê

Nguyên Lê, Songs of freedom, Act

E a proposito di playlist: ecco una bella compilation rock già pronta per essere infilata nel lettore. Ce la suona Nguyên Lê, formidabile chitarrista franco-vietnamita, molto stimato nell’ambiente “di ricerca” perché da anni propone un misto di jazz, suggestioni world e sperimentazioni elettroniche. Qui applica lo stesso metodo, ma al rock: prende i suoi hit preferiti di tutti i tempi e li risuona con piglio deciso. Pochi vezzi intelletualistici: sono davvero tra le canzoni più belle, che hanno lasciato il segno nella storia. E se si escludono l’inizio e la fine a firma Beatles (Eleanor Rigby, Come Together) e due stravolgimenti di Stevie Wonder (I Wish, Pastime Paradise), sono anche tutti di gruppi abbastanza tosti, a testimonianza delle predilezioni hard del chitarrista: omaggiati i Led Zeppelin (Black Dog, Whole Lotta Love), Janis Joplin (Mercedes Benz, Move Over), i pezzi-bandiera di Cream (Sunshine of Your Love), Iron Butterfly (In A Gadda Da Vida), Bob Marley (Redemption Song). Suonate da un power quartet che la presenza del vibrafono non rende etereo e sognante, le cover non sono né irriconoscibili né troppo uguali agli originali. E con il plus di una sarabanda di percussioni, per 70 minuti con le ali ai piedi.

(Articolo uscito sul numero di aprile del mensile sportivo Correre)


Playlist del battito

  1. Speak to Me-Breathe Pink Floyd
  2. Heartbeat King Crimson
  3. Cada macaco no seu galho Caetano Veloso e Gilberto Gil
  4. Tequila Wes Montgomery
  5. Viento ‘e terra Pino Daniele
  6. De Camino a La Vereda Ibrahim Ferrer
  7. Tarantella del 600 Nuova compagnia di canto popolare
  8. Another one bites the dust Queen
  9. Filia Officina zoè
  10. Skateaway Dire Straits
  11. Last train home Pat Matheny
  12. Maximizing the audience Wim Mertens
  13. Shunyai Trilok gurtu
  14. Rock steady Sting
  15. Groove William Parker
  16. Black Rubber Robert Miles
  17. Bucivina original Shantel
  18. On time Rabih Abou-Khalil

Battito. Mentre corriamo batte il cuore, battono le suole sul terreno, battono i pensieri nella testa. Battito. In inglese (cioè in musica) beat. Che musica possiamo battere, far battere allo stesso nostro ritmo? Evitiamo le assonanze cialtrone, Cuore matto e Battito animale, il beat degli anni ’60 e i Beatles, la beat generation (movimento letterario ma così impastato di musica) e la rivista Downbeat. Partiamo proprio dal cuore, dalla pulsazione vitale che all’inizio è l’unico suono dell’album-capolavoro dei Pink Floyd (Speake to me), per poi trasformarsi in un altro elemento fondamentale della corsa, il respiro (Breathe). Andiamo avanti, e all’inizio del nostro lungo il ritmo sarà soprattutto rock, ma di quel rock che accoglie a braccia aperte la basilare pulsazione disco (Heartbeat, Another one bites the dust). A spingerci oltre arrivano poi musiche fatte per un altro tipo di movimento, il ballo: la rumba cubana e le tarantelle meridionali con il loro battito costante e le melodie ripetitive. Ma è dopo la metà, quando la fatica si fa sentire, che la musica ci porta a filare lisci come sui pattini (Skateaway), su binari senza ostacoli (Last train home) e oltre, quasi in volo (Maximizing the audience). A questo punto saremo quasi in trance, la mente pronta per essere cullata da giri di basso ipnotici (Groove, Shunyai). L’ultima botta adrenalinica ce la danno due (ex) dj, uno approdato al rock come Robert Miles (Black rubber) un altro alle fanfare balcaniche come Shantel (Bucovina original). E ci accompagna dolcemente alla fine del nostro lungo la cadenza araba di Rabih Abou-Khalil.

(Testo che accompagna la playlist dedicata al battito, sul numero di aprile del mensile sportivo Correre)