Un viaggio nel 1° maggio dei lavoratori essenziali, quelli che continuano a lavorare

Facile dire #iorestoacasa. Non è una questione di volere, ma di potere. Viviamo in una bolla, e questo era noto da tempo, ma è incredibile come pur sapendolo, non riusciamo a cambiare la percezione: la nostra percezione di smartworker da divano, in questo momento, è che l’Italia si è fermata. Il mondo si è fermato. E invece.

I dati delle forze dell’ordine lo raccontano bene: su tutti i cittadini controllati, il 95% ha un valido motivo per uscire di casa. E nella maggior parte dei casi, quel motivo è: andare al lavoro. Lo conferma, ben più tragicamente, la sovrapposizione delle aree di maggior contagio con quelle di maggior produttività: fabbriche aperte, calche sui mezzi di trasporto.

Alla luce di questi fatti, la retorica governativa che tende a colpevolizzare il singolo cittadino per la sua irresponsabile disobbedienza – ieri il padrone di cani, oggi il runner, domani il genitore di bimbi piccoli – appare sempre più per quello che è: propaganda. Anzi, victim blaming.

Comprensibile l’incertezza sulle politiche da adottare, quando anche gli epidemiologi sono spesso in disaccordo e avanzano in territorio ignoto (non è la sconfitta della scienza, è la scienza), ma questo martellare su una sola nota ha il doppio effetto di sviare l’attenzione dalle vere responsabilità, e offrire capri espiatori alla gente sempre più esasperata. (Altra retorica: si è iniziato a dire che non bisogna parlare di social distancing ma di distanziamento fisico, però è proprio una frattura sociale, una frattura multipla, quella che stiamo vivendo.)

Coronavirus e lavoro: strano 1 maggio, quello del 2020, per esempio. Il primo in 130 anni (con la parentesi del Ventennio fascista in Italia) senza manifestazioni e piazze piene. Ma ci sono effetti meno clamorosi, e più pesanti. Il coronavirus, amplificatore di disagi e disuguaglianza, ha diviso il mondo del lavoro in tre segmenti.

(Continua su CheFare)


Libri sugli animali selvatici

Tiger King lo abbiamo visto tutti, no? Mi sembra anche giusto: con il suo mix di weirdness e suspence, era l’unica cosa che poteva distrarci dall’ossessione pandemica per un’oretta al giorno. Enormi felini spupazzati come micetti, l’allucinante dato per cui ci sono più tigri in Texas che in India, più in cattività negli Stati Uniti che libere nel resto del mondo; ed è solo l’inizio, perché ben presto il focus si sposta dagli animali agli uomini, personaggi che non credevamo possibili e storie che fanno a gara nel superarsi in assurdità. Proprio questo è il punto per cui alcune delle critiche e perplessità che il documentario su Netflix ha sollevato, sono fuori fuoco: in particolare l’obiezione secondo cui i maltrattamenti e la sofferenza degli animali non sono ben evidenziati, o vengono trattati con taglio aneddotico. Tiger King non è un documentario sugli animali, è un documentario sugli uomini.

Per saperne di più sugli animali selvaggi, sulle meraviglie e gli orrori della wildlife, conviene rivolgersi altrove. Per esempio, al nostro pezzo sul ligre e sugli altri incroci tra felini, che avvengono solo in cattività e non hanno che scopi commerciali. Oppure ai libri. Di romanzi che hanno come protagonisti gli animali esotici, dal Libro della giungla a Zanna bianca, sono piene le librerie. Ma non è di questo che si parla qui: perché la realtà – come Joe Exotic insegna – può essere più stupefacente dell’invenzione. Ecco quindi alcuni saggi sugli animali selvatici, sul loro comportamento nell’ambiente naturale e su come anche questo stia subendo modifiche a causa della sempre più pervasiva azione dell’uomo. Non solo tigri, ma anche tigri.

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La verità sul lievito di birra

Il lievito di birra ci sta ghostando? Fa l’offeso? Si prende la sua rivincita, dopo che per anni abbiamo associato la parola “naturale” al cugino lievito madre. Lo abbiamo trattato male, come si considera il prodottaccio industriale: ora che tutti lo vogliono, per panificare occupando il tempo come dei disperati, in tempi di Coronavirus, lui non si fa più trovare.

In verità sta succedendo una cosa assolutamente normale, ma che non credevamo possibile rispetto a quei cubetti puzzolenti: la domanda è talmente superiore all’offerta, che invece di far schizzare i prezzi in alto, ha provocato la carestia. Chi se lo immaginava, che la curva del lievito di birra fosse così anelastica? Certo per un prodotto naturale riusciamo a figurarcelo: se un campo di grano produce tot tonnellate, non gliene si può chiedere di più. Ma una roba chimica, industriale, fatta in laboratorio? Ecco, è proprio questo il punto: l’equivoco ruota attorno al concetto di “naturale” vs “artificiale”.

Saccharomyces alla riscossa, l’ ingrediente bistrattato si prende una rivincita contro il contendente nobile, negli ultimi anni oggetti di un culto irrefrenabile: il lievito madre. Di questo tema, l’assurdo razzismo contro il cubetto compresso, ci siamo già occupati, spiegando come, tecnicamente, non sia razionale considerare la pasta madre migliore per pane e pizza.

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