Come scrivere un romanzo che parla d’amore, spiegato male
Pubblicato: 4 aprile 2017 Archiviato in: Articoli | Tags: alessandra minervini, dai giornali, LiberAria, microrecensioni, non-recensioni, overlove, Stati Generali Lascia un commentoQuella che segue è contemporaneamente una microrecensione e una non-recensione. Microrecensione perché si parlerà di una frase, un rigo appena. Non-recensione perché c’è un conflitto d’interessi grande come un’amicizia.
Alessandra Minervini è mia amica. O meglio, lo sarebbe diventata in seguito. Prima, tra noi c’è stato un tale intreccio di rapporti – editoriali, meramente editoriali – che fatico persino a metterli in fila. All’inizio, io ero redattore di una rivista de cuyo nombre no quiero acordarme, e lei giovine collaboratrice appena uscita dalla Holden (uh, i pezzi che non le ho fatto riscrivere… mi odierà ancora). Poi, lei fu editor occulta e seconda persona al mondo che leggeva il mio primo libro man mano che lo scrivevo (la prima essendo, visto che siamo in vena di confidenze, quella che all’epoca era la mia compagna e musa e sprone e coach, e che poi sarebbe diventata anche mia moglie); mi diede pochi ma decisivi consigli, prima che io lo sottoponessi all’editore, e ne fu uno dei più sinceri sponsor una volta che uscì, addirittura citandolo in qualche suo corso di scrittura creativa, se non erro. Infine, fu editor ufficiale del mio secondo libro, ma ancora prima fu quella che per conto di LiberAria mi chiese di scriverlo, poi insistette, poi rinunciò, poi si ripropose, poi mi diede le idee, poi mi seguì passo passo cercando di farmi togliere le parole in dialetto (senza riuscire).
Nel frattempo, in tutti questi anni, io sapevo che lei stava scrivendo il suo, di libro. Ogni tanto me ne parlava. Ogni tanto mi mandava qualche pezzo (su cui tacevo, e di cui non ho ritrovato neanche mezzo rigo nel testo pubblicato). Ogni tanto mi faceva leggere qualche racconto, ma puntualizzando che si trattava di ben altro. Adesso – adesso si fa per dire, è uscito a ottobre – finalmente, eccolo qua: Overlove. Minerva mi ha messo anche nei ringraziamenti, a suggello definitivo del conflitto, anche se continuo a non capire cosa ho fatto.
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10 motivi per cui “La bionda e il bunker” è uno dei 10 libri più belli degli ultimi 10 anni
Pubblicato: 11 luglio 2013 Archiviato in: Articoli | Tags: 66thand2nd, dai giornali, Elena Sacchini, giudizio universale, Jakuta Alikavazovic, La bionda e il bunker, libri, non-recensioni, novità Lascia un commento0. Prima o poi doveva succedere. La presente non-recensione contravviene a una regola che mi sono auto imposto: quella di non parlare mai di libri pubblicati dal mio editore. Ma a quasi due anni dall’uscita del libro mio, si può ancora definire il mio editore, devo ancora sentirmi in conflitto d’interessi? In ogni caso, davanti a una tale meraviglia, ho ceduto.
(C’è un’altra questione, un autolesionismo che fa tenerezza. Già io quando ho pubblicato il romanzo con 66thand2nd – che si legge Sixty-six and second, e il cui logo è però 66THA2ND – me ne sono viste di tutti i colori: dalle richieste di spiegazioni dettagliate ai refusi nelle recensioni, dai lievemente ironici “Puoi farmi lo spelling per favore?” agli aggressivi “Ahò, ma di’ al tuo editore de cambia’ nome!”. Ma insomma, qua pare che se le vanno a cercare: voi ve l’immaginate il lettore che entra in libreria per chiedere sto romanzo? “Per favore, vorrei Jakuta Alikavazovic, no non talicazzov, A-li-ca-va-zo-vi-cce, sì, l’editore è Sic-sti-sics-end-second, grazie, aspetto qui, eh”. Menomale che il titolo, originale e lasciato intatto, è La bionda e il bunker).

Jakuta Alikavazovic, La bionda e il bunker, 66thand2nd, traduzione di Elena Sacchini, pag. 192, euro 15
Ecco, i motivi.
1. Borges. Da fan, ogni volta che sento parlare – e capita in continuazione – di “borgesiano” o di “nuovo Borges”, metto mano alla pistola. (L’ultima volta che ci sono cascato era il secolo scorso, un’amica mi regalò Chiamate telefoniche, la delusione mi tenne lontano da Bolaño per troppo infelice tempo; ma sul cileno cfr. infra) (Uguale a come faccio quando sento parlare di “nuovi Pink Floyd”: perciò non ho mai approfondito Radiohead e Sigur Rós, e stavolta senza pentimenti). Però, ragazzi, qui ci andiamo davvero vicini. Basta leggere l’incipit, e si avverte subito un altro respiro, un’altra musica.
Nelle pubblicazioni, piuttosto rare, che ne fanno cenno, la collezione Castiglioni è spesso descritta come «effimera». L’aggettivo è infelice; la Castiglioni è, senza ombra di dubbio, fuggitiva, addirittura sfuggente – ammesso che i due termini si addicano a una collezione d’arte. Nell’appendice a un saggio, non datato e senza numero di pagina, l’autore – un certo N. Scymanzski – la definisce «caduca»; anche attenendosi alla mera accezione botanica, il termine è improprio. La collezione non può in alcun modo dirsi temporanea. Né tantomeno fugace. È, piuttosto, erratica.
2. Stile. L’uso frequente del punto e virgola; visto però non come sostituto più blando del punto, ma come strumento ritmico, e spesso posto dopo poche parole dall’inizio di un periodo, cosa insolita. La presenza poco meno che invasiva delle parentesi; anche qui, con uso quasi sperimentale: a volte sono delle specie di a parte teatrali, o retropensieri; altre volte, come etichette, risaltano più delle frasi che stanno al di fuori; a volte sono esageratamente lunghe e a volte di una sola parola (o due). L’aggettivazione, molto sorvegliata, in certi casi imbrocca il miracolo, quell’accoppiare una qualità fisica e una morale che faceva impazzire Borges (il quale citava Shakespeare: “Where a malignant and turbanted Turk…”)
3. Struttura. Circolare, anzi labirintica. Ed è un labirinto ancora più ingannevole perché non sembra. Mi spiego: i capitoli non sono disposti in ordine cronologico, ma si muovono avanti e indietro nel tempo, oltre che qua e là nello spazio; però, i capitoli hanno dei titoli ricorrenti che ci fanno capire sempre dove e quando ci troviamo. Ciononostante, si ha costante l’impressione che qualcosa ci sfugga, ci sia sottratto; che qualcuno stia giocando al gatto col topo, e il topo siamo noi.
4. Arte. Un albero che cade nella foresta fa rumore? E i sogni che svaniscono all’alba, sono mai esistiti? La vicenda è intrecciata all’arte, e ai discorsi sull’arte, e all’interpretazione dell’arte come una metafora no, non della vita, ma dell’arte. Un’opera che nessuno vede, esiste? E un’opera di cui non vi è più traccia, irrecuperabile anche dalla memoria, è mai esistita? La fantomatica collezione Castiglioni ricorda i Rosacroce di Eco: se esiste, è solo perché qualcuno se l’è inventata, e qualcun altro ci ha creduto così forte da farla esistere.
(E oltre all’arte, c’è anche la fotografia, la protagonista femminile è fotografa, e forse oggetto dello scatto che ha consacrato la fama del marito; e c’è anche la letteratura, perché il marito è uno scrittore famoso, e ci sono anche cenni di metaletteratura, ma nonostante ciò, nonostante i libri-che-hanno-per-protagonisti-quelli-che-scrivono-libri siano una delle cose più intollerabili, qui non c’è un briciolo di autoreferenzialità. Sia messo agli atti come ulteriore nota di merito).
5. Storia. Perché non c’è solo la forma, la dispositio, la retorica, l’intreccio. Ci sono i fatti, per quanto a volte oscuri, a volte omessi: il protagonista maschile diventa amante della fotografa; poi, confidente del marito; poi, viene nominato nella sua eredità; poi, si mette in cerca della collezione. E ci sono i sentimenti, per quanto ambigui, per quanto occultati sotto coltri di ghiaccio.
(E c’è il bunker, certo, altro leitmotiv; in forma di ossessione, che il padre dello scrittore aveva per i rifugi antiatomici: è l’angoscia che ha accompagnato la nostra civiltà per cinquant’anni di guerra fredda; in forma di citazione, perché lo scrittore e la fotografa vivono in una strana casa con quell’apparenza, e quando il protagonista va a stare da lei, gli sposi si sono separati, ma lui vive lì, nel seminterrato).
6. Bionda. Tema principale, si direbbe: le bionde (meglio se finte, meglio se cattive: Lucrezia Borgia, Messalina), la biondezza (carattere fenotipico apparso molto di recente in homo sapiens e che presto, dicono, tenderà a svanire). Tanto che a un certo punto viene il sospetto che tutta la storia non sia che una grande allegoria della Bionda per eccellenza, altro mito della modernità insieme alla Bomba; anche perché seguendo l’ovvia regola degli enigmi codificata dallo stesso Borges (“In un indovinello sulla scacchiera, qual è l’unica parola proibita? La parola scacchiera”) il nome di colei viene sempre sfiorato ma mai pronunciato; finché di punto in bianco, toh, Marlyn Monroe, e anche quest’illusione sfuma.
(A sproposito, ma davvero. Tra le novità più dirompenti degli ultimi anni è uscita Jennifer Egan; e poi Karen Russell; e adesso Jakuta Alikavazovic, che per me non ha niente da invidiare. Tre donne, alé).
7. Giallo. Scommettiamo che La bionda e il bunker NON sarà il giallo dell’estate? Purtroppo, eh. Eppure, a rigor di presentazione sarebbe un polar, mezzo poliziesco mezzo noir, bah. Troppo anomalo, per quanto. A un certo punto il giovane protagonista, senza che sia stato fatto o detto niente di particolare, smette di togliersi i guanti in quasi ogni circostanza (per non lasciare impronte nel bunker? L’angoscia s’impenna). E il morto, quello c’è subito, anzi viene annunciato come il “primo morto della storia”, ingenerando vane aspettative. Ma la scena centrale (alla lettera, perché gli andirivieni temporali fanno come un balletto attorno a quel punto) viene rivelata solo poco a poco, per reticenze e vie indirette; e vista, mai.
8. Bolaño. Sicché appena finito di leggerlo l’ho sparata grossa, ma il tuit di 66th ha alzato la posta (non si accontentano mai, questi editori).
E sì che c’è di Bolaño: c’è precisamente questo giocare a nascondino con il lettore. Parlando de I dispiaceri del vero poliziotto, lo scrittore cileno l’aveva esplicitato (ma lo stesso si può dire di tutti i suoi romanzi): il poliziotto è il lettore, sballottato tra una serie di misteri e indizi, e il dispiacere è tutto suo, ché non ne viene a capo. Alikavazovic, come Bolaño, e a differenza di Borges, porta a un altro livello la finzione, l’enigma, il gioco di specchi. L’autore di Finzioni e L’Aleph costruisce dei rompicapi assurdi, delle vere maratone dell’intelligenza, ma alla fine ti spiega tutto, come un giallista classico; e tu ti senti intelligente. Borges (e Bioy Casares) ipotizza “un romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale”. Bolaño (e Alikavazovic) quel romanzo lo scrive. E tu sospetti che ci sia una realtà altra, ma non sei tra quei pochissimi, non la indovini. E ti senti un cretino.
10. Breve. E tutti questi universi, Jakuta, dentro a neanche duecento pagine!
(Oggi anche su Giudizio Universale)
Rava e la fava
Pubblicato: 25 luglio 2012 Archiviato in: Articoli | Tags: ecm, Enrico Rava, musica, non-recensioni, novità, On the dance floor Lascia un commento
Enrico Rava, On the dance floor, Ecm
Inauguriamo un nuovo tipo di non-recensione. Non solo perché musicale, dato che finora ho non-recensito solo libri. Ma soprattutto per il motivo: dopo le non-recensioni per conflitto d’interessi, ecco la non-recensione per brevità.
Michael Jackson lo conoscete tutti, purtroppo. Enrico Rava anche, direi: quando uno entra nel giro di quelli imitati da Fiorello, vuol dire che non ha bisogno di presentazioni. Ma magari non tutti ricordano che Miles Davis, ngli ultimi anni della sua vita (quelli dove molti gli davano del rincoglionito – ma erano gli stessi che prima gli davano del venduto), aveva espresso giudizi lusinghieri non solo su Prince, non solo su Nino D’Angelo, ma anche sul black more white. Il vecchio Miles però almeno aveva la giustificazione di parlare a Jackson vivo.
Ora Rava dice che è un genio. E gli dedica un intero cd Ecm, On the dance floor, con agguerrita orchestra avanguardistica. Il disco l’ho sentito solo una volta – altrimenti che non-recensione sarebbe – quindi può essere che ci tornerò in qualche modo. Ma può anche essere che non avrò in coraggio di rimetterlo su.
Perché al primo mezzo ascolto
uno pensa: che grande sto Rava, riesce a far diventare interessante perfino Michael Jackson.
Ma al secondo mezzo ascolto
inevitabilmente si conclude: ma che mappina sto Michael Jackson, riesce a far diventare pacchiano persino Rava.
E chest’è.
(Oh, ve l’avevo detto che era corta)
Distopia delle birrette
Pubblicato: 28 aprile 2012 Archiviato in: Articoli | Tags: Aldous Huxley, claudio morici, edizioni e/o, fantascienza di prossimità, george orwell, l'uomo d'argento, libri, neil postman, non-recensioni, novità Lascia un commentoEd ecco a voi un’altra non-recensione, dopo quella dello scrittore morto, e come in quel caso, lo spunto viene dai fatti di Palermo. Quindi recensirli proprio no, non si puote, che qui è tutto uno smarchettarsi a vicenda e se c’è una cosa che non mi attira, nel magico mondo delle lettere, è proprio questa. Però, parlarne in tono informale, perché no, in fondo Rossari e Morici non sono miei amici, non li conoscevo neanche, prima, e in realtà nel momento in cui scrivo non li conosco ancora; né sono della mia casa editrice, ma tutti e due di e/o; e poi comunque, l’importante è dichiararlo prima, il potenziale conflitto, e io l’ho fatto all’inizio.
Premesso il disclaimer, devo dire però che fare una lettera semiaperta come nel caso precedente, non me la sentivo. Ché Morici è personaggio che un poco di soggezione te la mette: viaggiatore incessante (“L’uomo d’argento è stato scritto in almeno trenta paesi diversi”, recita il risvolto di copertina), e low cost, però non nel senso che preferisce Transavia ad Alitalia come tutti noi, ma nell’interpretazione più estrema e zozzona. Il che ha diretta influenza nel libro, ambientazione e personaggi. Un tipo poi che prende la sua opera a pistolettate, o che la smembra con la precisione dell’operaio specializzato. Magari si offende. Speriamo di no.
Anche perché poi, che dire de L’uomo d’argento. Raccontare la trama – come ormai si riducono a fare molti pezzi di pagine culturali, i pochi che non sono interviste s’intende – mi sembra uno sgarbo al lettore: metti che uno poi se lo compra e se lo legge davvero, gli levi lo sfizio. E d’altra parte, descrivere lo sfondo, il contesto, mi pare un insulto all’autore: come dire, ora lo spiego io, per davvero, e anche con meno parole. Come spiegare tra l’altro, se non avendola vissuta o immaginata, che è lo stesso, una realtà fatta di sballo continuo, di ottundimento fisico e cerebrale a mezzo di sesso droghe e alcol al posto del rock’n’roll (programma di una serata del protagonista: una birra, una canna, un bicchiere di vino, una canna, una birra, una canna…).
Ma lo sballo, e qui sta il bello, è non solo la norma, ma Norma, nel mondo sognato da Morici. Infatti in questa città post qualcosa, enclave felice in un mondo ancora traumatizzato, divertirsi non solo è giusto, ma obbligatorio. E niente, non si capisce una mazza, mi rendo conto, e menomale. Vabbe’, citerò solo, e mai avrei pensato di poterlo fare, Chuck Palahniuk: il quale nei tredici consigli di scrittura (ma non erano sempre dieci? troppa grazia), spesso prolissi e a volte contraddittori, ne mette uno lapidario. Scrivi il libro che vorresti leggere. Ecco, L’uomo d’argento è un libro che vorrei aver scritto.
Non so, invece, se è il libro dentro il quale mi piacerebbe vivere, con tutto che diciamo, marijuana e birrette e cazzeggio tutto il dì, non so se rendo. Però poi vengono fuori un po’ di cose inquietanti, tipo che dal lavoro in un modo o nell’altro proprio prescindere non si può, e poi pure che insomma, tutta sta felicità obbligatoria, non sarà un po’ artefatta. Insomma non mi ci trasferirei, a meno che, aspettate un attimo, non è che ci siamo già? Il problema dei libri così, della fantascienza di prossimità, è proprio questo: è tutto talmente assurdo, ma talmente probabile che ti viene paura che possa arrivare da un momento all’altro, che ti giri e zac, eccoci qua.
D’altra parte, l’aveva già detto Neil Postman in Divertirsi da morire: tutti a farcela addosso temendo l’avverarsi della distopia dittatoriale minacciata da Orwell, e invece quello che si sta avverando è il rincoglionimento soft, felice e consenziente, profetizzato da… oh come si chiamava quello là… dài, quello che si calava pure la mescalina… Vabbuo’ ja’, mo’ basta con sti discorsi intellettuali, passa sta canna.
Lettera semiaperta a uno scrittore vivo
Pubblicato: 26 aprile 2012 Archiviato in: Articoli | Tags: editoria, edizioni e/o, giornalismo, l'unico scrittore buono è quello morto, libri, marco rossari, non-recensioni, novità 2 commentiCaro Marco Rossari, questa non è una recensione del tuo ultimo libro L’unico scrittore buono è quello morto. Perché all’inizio io di questo libro non ne volevo scrivere, lo volevo solo leggere. Anzi all’inizio inizio proprio, non lo volevo neanche leggere, anche se mi sembrava curioso, sfizioso, divertente, a quel che ne leggevo in giro. Però sai, leggiamo tante cose, troppe, più per lavoro che per piacere, e si finisce per non provare più piacere, anche quando magari un libro ti sarebbe piaciuto, solo perché sei obbligato a leggerlo. Per non parlare dei classici, addio, ma come fai a non aver letto questo o quell’altro grande, attenzione non ti dicono “come fai a non leggere”, ma “a non aver letto”, uno deve nascere che i classici già li ha letti, e buttarsi subito sulle novità, vabbè.
Insomma, però, visto che dovevamo fare sta cosa a Palermo, mi sembrava educato arrivarci con un minimo di preparazione, di sapere chi siete che fate, e così mi sono preso il libro tuo (e quello di quell’altro pazzo). E poi ho iniziato a seguirti, a leggere il tuo sito, ti ho chiesto l’amicizia su twitter – rectius, abbiamo iniziato a followarci a vicenda, che detta così sembra una roba vagamente porno. E sinceramente, ho iniziato pure un poco a invidiarti, per una serie di motivi, perché fai il traduttore che sarà pure una fatica oscura ma pur sempre un lavoro è, e poi significa che sai bene l’inglese, perché sei stimato e ritwittato da gente che ha un sacco di follower (e dàlli), perché hai un editore che ti fa fare titoli con i giochi di parole, tipo quell’altro che si chiamava Invano veritas, e le biografie cazzare nel risvolto di copertina (“Marco Rossari è nato”, punto). Perché insomma, in generale, mi sembra che tu sia un minimo più inserito, più avviato, più stabile di me in questo mare di precariato intellettuale in cui tutti annaspiamo.
Perché poi, e qui volenti o nolenti veniamo al tuo libro, il problema che mi tormenta (in astratto eh, ché in concreto ben altri) è sempre quello: com’è che qua tutti vogliono fare lo scrittore, o il giornalista, o tutt’e due? Come mai, visto che l’editoria non promette ormai né i soldi, né il successo, né la gloria, anzi assicura l’opposto. E dire che la risposta non dovrebbe essere difficile, dato che tutti gli scrittori – tutti noi scrittori, dovrei dire, e ancora esito, non so se per modestia o rimozione – tutti sono stati, prima, aspiranti scrittori. Ecco, appunto: il tuo libro, prima di leggerlo, stando alle recensioni e alle citazioni, questo mi sembrava: una carrellata sarcastica non meno che iperrealistica nello squallido mondo dell’editoria, e nelle teste bacate degli aspiranti. E questo in maggior parte è, naturalmente.
Aforismi, battute fulminanti, racconti di dieci righe, di cinque righe, di due, di una, di mezza riga, racconti che non esistono. E poi parodie, straniamenti spaziotemporali come Tolstoj intervistato in una radio de Roma o Joyce che rimane inedito. Grazie che sono quelle cose fatte apposta per essere citate nei pezzi, grazie che vengono citate, saccheggiate, mi sembra giusto, non dico di no. Però il senso del tuo libro mi sembra stia altrove, ed è il motivo per cui mi è piaciuto anche di più di quel che credevo.
Siccome voglio fare il tipo originale, hai visto che di aforismi non ne ho messi, e non ne voglio mettere, tranne uno, che mi serve.
C’era uno scrittore che non voleva arrivare al successo e ci riuscì
Perché invece la tragicommedia, il bello viene proprio quando il successo arriva, inatteso o meno. Come succede in quei racconti un po’ più lunghi, sempre sulle cinque o sei pagine per carità, dove per esempio uno scrittore viene tormentato a tal punto dalle voci che escono dalle pagine che legge da dover fuggire in convento; o uno scrittore iniziano a perdere il controllo delle parole sulla pagina, tra le mani, in bocca; o uno scrittore riesce a proporre, far correggere e pubblicare il suo libro leggendolo sempre lui a voce alta, dopodiché la fine.
Poi certo, mi sono piaciuti assai anche l’elogio-insulto della poesia, che è dappertutto e da nessuna parte; o l’immersione nel mondo allucinato e frustrante dei traduttori (e a proposito, pur’io ho sempre pensato che il monologo di Amleto dovrebbe iniziare con una cosa tipo “Vivere o morire? Qui casca l’asino!”); o ancora la tirata anti-beatnik, sul genere i vostri sogni sono diventati i nostri fallimenti. Ma insomma, come ti dicevo per me il core del libro sta in quei momenti in cui sì, sempre di scrittori si parla, però più che sbeffeggiare le loro debolezze, ti (e ci) cali nel loro intimo dramma: la sensazione, che dico la certezza, che la realtà ti si possa disgregare davanti da un momento all’altro, col massimo aplomb. E mi voglio allargare, quello della zanzara è a livello di Buzzati, ma mo’ basta con i violini, ci vediamo, a presto, ciao.
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