Come scrivere un romanzo che parla d’amore, spiegato male

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Quella che segue è contemporaneamente una microrecensione e una non-recensione. Microrecensione perché si parlerà di una frase, un rigo appena. Non-recensione perché c’è un conflitto d’interessi grande come un’amicizia.

Alessandra Minervini è mia amica. O meglio, lo sarebbe diventata in seguito. Prima, tra noi c’è stato un tale intreccio di rapporti – editoriali, meramente editoriali – che fatico persino a metterli in fila. All’inizio, io ero redattore di una rivista de cuyo nombre no quiero acordarme, e lei giovine collaboratrice appena uscita dalla Holden (uh, i pezzi che non le ho fatto riscrivere… mi odierà ancora). Poi, lei fu editor occulta e seconda persona al mondo che leggeva il mio primo libro man mano che lo scrivevo (la prima essendo, visto che siamo in vena di confidenze, quella che all’epoca era la mia compagna e musa e sprone e coach, e che poi sarebbe diventata anche mia moglie); mi diede pochi ma decisivi consigli, prima che io lo sottoponessi all’editore, e ne fu uno dei più sinceri sponsor una volta che uscì, addirittura citandolo in qualche suo corso di scrittura creativa, se non erro. Infine, fu editor ufficiale del mio secondo libro, ma ancora prima fu quella che per conto di LiberAria mi chiese di scriverlo, poi insistette, poi rinunciò, poi si ripropose, poi mi diede le idee, poi mi seguì passo passo cercando di farmi togliere le parole in dialetto (senza riuscire).

Nel frattempo, in tutti questi anni, io sapevo che lei stava scrivendo il suo, di libro. Ogni tanto me ne parlava. Ogni tanto mi mandava qualche pezzo (su cui tacevo, e di cui non ho ritrovato neanche mezzo rigo nel testo pubblicato). Ogni tanto mi faceva leggere qualche racconto, ma puntualizzando che si trattava di ben altro. Adesso – adesso si fa per dire, è uscito a ottobre – finalmente, eccolo qua: Overlove. Minerva mi ha messo anche nei ringraziamenti, a suggello definitivo del conflitto, anche se continuo a non capire cosa ho fatto.

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Il mare non cagna Napoli (alcuni disclaimer riguardo a “Dove le strade non hanno nome” di Angelo Carotenuto)

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Premessa numero uno. Angelo Carotenuto è amico mio. Cioè, amico. Diciamo che lo conosco. Cioè, lo conosco. Lo conosco come si può conoscere uno di questi tempi: per esempio non l’ho mai guardato in face; ma in Facebook, sì. È andata che lui recensì il libro mio, e da allora siamo entrati in contatto, e abbiamo scoperto di avere una serie di cose in comune. Per esempio la professione – anche se, la verità, lui sta a Repubblica, mentre io sto a casa. Oppure, condividiamo entrambi una struggente quanto insensata nostalgia per la nostra città d’origine – insensata, la verità, ancora di più nel caso suo, che sta a Roma e potrebbe tornarci quasi ogni giorno, jà. Poi condividiamo anche altre cose, che si vedranno in progress, come in corso d’opera si vedrà il modo in cui questa è una non-recensione, il motivo avendolo io appena spiegato.

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Premessa numero 2. A me gli U2 non mi sono mai piaciuti. Li ho sempre trovati sopravvalutatissimi, anche quelli degli esordi, soprattutto quelli degli esordi; un po’ come i Beatles, ma questo è un altro discorso. E però a quel concerto io c’ero. Quel concerto del 9 luglio ’93 che fa da sfondo e motore a tutta l’azione del libro; quello in cui Bono dal palco del San Paolo telefonò al carcere di Poggioreale chiedendo del sindaco inquisito per tangentopoli (“mr. Nell’ Poles’?”) e ricevendo in cambio dal centralinista un cortese invito a dirigersi tra le braccia di Morfeo (“Guaglio’ vatt’ a cuccà”). Io c’ero, e c’ero a Napoli quando sembrava che Napoli stesse per cambiare, che qualcosa o tutto potesse cambiare (addirittura, a differenza di Angelo che aveva già esercitato il proprio diritto-dovere di cittadino in era Dc, io quelle della sfida Bassolino-Mussolini furono le prime elezioni a cui votai). C’ero, ma per un altro motivo (che poi è lo stesso di uno dei personaggi del libro, anche io sono stato previsto, diavolo d’un Carotenuto): l’esibizione dei Velvet Underground al completo, storica reunion, e tour mondiale che nella tappa partenopea li vede supporter pomeridiani degli U2, ma tu vedi un poco, vicino a pateto cuccate a pere. Gli U2 non mi sono mai piaciuti, tanto che quando prenotai sto libro (che è pubblicato dalla casa editrice Ad est dell’equatore, ma realizzato con il metodo del crowdfunding, interessante esperimento anche se non efficacemente sostenuto dal funzionamento delle Poste) dissi che facevo un grande sacrificio a leggere una cosa che aveva lo stesso titolo di un album degli U2, azzeccando così la prima figuremmerd’ datosi che Where the streets have no name è una canzone, solo una canzone.

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Premessa numero tre. Questa è una storia con tanti personaggi, ma talmente tanti che all’inizio si fa fatica a seguirla. Mo’ non pensate a Dostoevsky, a me piuttosto il primo capitolo mi ha fatto venire in mente quel bellissimo film di Buñuel, Il fantasma della libertà si chiama, dove per qualche minuto la cinepresa mostra gli episodi di un personaggio, poi questo tanto per dire attraversa la strada, passa una macchina e il film si mette appresso a quelli che stanno nella macchina lasciando perdere il tizio di prima; e così via. Solo che in Buñuel questa è una tecnica surrealista usata per far esplodere la narrazione tradizionale, frustrando di continuo l’attaccamento che nello spettatore sorge verso ogni cosa che abbia una embrionale forma di personaggio o di vicenda. In Carotenuto è un modo per rendere l’intreccio più fitto, meno immediatamente comprensibile nel suo disfarsi: anche se poi il fine sperimentale potrebbe essere simile, perché pure nei capitoli dopo, dove i personaggi ritornano e ci si comincia a orientare, un solo protagonista non c’è, davvero sono protagonisti tutti, alla pari; e pure nei capitoli dopo, non è che ci si orienti sempre alla grande, anzi ogni tanto un vuoto, e ci si chiede Aspe’, questo qua chi cazz’era? Anche perché ci sta un altro magheggio a complicare le cose.

Premessa numero quattro. Dove le strade non hanno nome è scritto all’incontrario. No, non alla maniera di Leonardo da Vinci, né alla maniera della Torah e del Corano (sfoggio di cultura liceale, nonché adolescenziale tentativo di far fare la pace a israeliani e palestinesi, dài su). All’incontrario nel senso che i capitoli sono sette, ognuno racconta di un giorno, e il primo capitolo racconta del 9 luglio, l’ultimo racconta del 3 luglio. Ora, sempre a proposito di riferimenti, parlando di narrazioni che invertono lo scorrere del tempo a me vengono in mente varie cose. La prima è La freccia del tempo di Martin Amis. Che però veramente non ci azzecca niente, perché lì non è la narrazione che procede a ritroso, ma proprio la vicenda: inizia che il protagonista muore, poi sta malissimo, poi esce dall’ospedale, poi diventa sempre più giovane ecc. ecc.; ed è lo stesso protagonista che non si capacita di quello che gli succede: molto interessante dal punto di vista logico, perché instaura un rovesciamento pervasivo e universale del principio di causa-effetto (se la morte precede la vita, se la ferita precede il colpo, allora i nazisti sono dei benefattori dell’umanità, e i chirurghi degli aguzzini), ma appunto non c’entra niente. Poi penso a April March di Herbert Quain, che però ha due fondamentali differenze: uno, è un racconto a biforcazioni temporali antecedenti, nel senso che dopo il primo capitolo non c’è un capitolo che narra del giorno precedente, ma due capitoli che narrano di due possibili e alternativi giorni precedenti, e così via (il malriuscito scopo sarebbe quello di dimostrare che avvenimenti diversi possono portare a risultati uguali, un po’ come nei passaggi meno oscuri de Il giardino dei sentieri che si biforcano di Ts’ui Pe); in secondo luogo, ha il non lieve problema che non esiste: anche se Saramago ha sostenuto il contrario, April March non è mai stato scritto, ma solo recensito in un racconto di Borges. Il terzo ricordo è un film, Irreversible con Monica Bellucci e Vincent Cassel. Lì in effetti le cose sono successe nell’ordine normale, e una volta sola, ma noi le vediamo montate all’incontrario. Scopo del gioco, evidente già dal titolo, metterci in testa che insomma, non c’è niente da fare. E questo, anche nell’enorme differenza di ambientazione e scrittura, mi è sembrato alla fine anche l’effetto che fa DLSNHN. Cioè, arrivato più o meno alla fine del libro, uno è talmente entrato nell’ottica che quello che è prima è dopo, anzi che quello che viene dopo già lo sa, mentre quello che è successo prima ancora lo deve scoprire, che acquisisce una sorta di rassegnazione, di universale e pervasivo senno del poi: e lo applica a tutto, a tutto quello che viene prima di quella settimana, a tutto quello che è venuto dopo. E quindi finisce per pensare, tanto per dire, che lui non ci ha mai creduto al Rinascimento napoletano, al fatto che le cose potessero o dovessero cambiare, si vedeva subito che era un bluff, e dài.

ANTONIO BASSOLINO E ALESSANDRA MUSSOLINI

Premessa numero sei. Angelo Carotenuto scrive come a me. Questo non lo so se è proprio un complimento, però io ci trovo delle somiglianze che sono un flash: certe fissazioni per i giochi di parole, per gli equivoci che possono scatenare certi modi di dire, per le trappole che possono contenere i versi di certe canzoni. Anche nei difetti, eh, per esempio nelle pippe teoriche, che certe volte attaccano alcuni personaggi, e che però si vede benissimo che è sono ragionamenti con cui è fissato l’autore, non altri. Anche proprio nello stile, mannaggia, ditemi voi se mo’ questo non è un passaggio che avrei potuto scrivere io – un poco peggio:

La famiglia finì fra i 12mila stranieri che ogni giorno sbarcavano a New York agli inizi del ‘900. L’America li accolse a braccia chiuse. Ora. Io non voglio azzelliare nessuno con la storia dell’emigrazione, partono i bastimenti e comm’è amaro ‘stu ppane, ma gli Zurzolo sono una cosa che se uno la racconta non ci si crede.

Post scriptum. Il titolo. Del post, dico. È una doppia citazione. Del capolavoro della Ortese. Ma così come citato e modificato da quel gran genio del mio niente, non ce la posso fare, a me non mi piace manco Battisti.


10 motivi per cui “La bionda e il bunker” è uno dei 10 libri più belli degli ultimi 10 anni

0. Prima o poi doveva succedere. La presente non-recensione contravviene a una regola che mi sono auto imposto: quella di non parlare mai di libri pubblicati dal mio editore. Ma a quasi due anni dall’uscita del libro mio, si può ancora definire il mio editore, devo ancora sentirmi in conflitto d’interessi? In ogni caso, davanti a una tale meraviglia, ho ceduto.
(C’è un’altra questione, un autolesionismo che fa tenerezza. Già io quando ho pubblicato il romanzo con 66thand2nd – che si legge Sixty-six and second, e il cui logo è però 66THA2ND – me ne sono viste di tutti i colori: dalle richieste di spiegazioni dettagliate ai refusi nelle recensioni, dai lievemente ironici “Puoi farmi lo spelling per favore?” agli aggressivi “Ahò, ma di’ al tuo editore de cambia’ nome!”. Ma insomma, qua pare che se le vanno a cercare: voi ve l’immaginate il lettore che entra in libreria per chiedere sto romanzo? “Per favore, vorrei Jakuta Alikavazovic, no non talicazzov, A-li-ca-va-zo-vi-cce, sì, l’editore è Sic-sti-sics-end-second, grazie, aspetto qui, eh”. Menomale che il titolo, originale e lasciato intatto, è La bionda e il bunker).

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Jakuta Alikavazovic, La bionda e il bunker, 66thand2nd, traduzione di Elena Sacchini, pag. 192, euro 15

Ecco, i motivi.

1. Borges. Da fan, ogni volta che sento parlare – e capita in continuazione – di “borgesiano” o di “nuovo Borges”, metto mano alla pistola. (L’ultima volta che ci sono cascato era il secolo scorso, un’amica mi regalò Chiamate telefoniche, la delusione mi tenne lontano da Bolaño per troppo infelice tempo; ma sul cileno cfr. infra) (Uguale a come faccio quando sento parlare di “nuovi Pink Floyd”: perciò non ho mai approfondito Radiohead e Sigur Rós, e stavolta senza pentimenti). Però, ragazzi, qui ci andiamo davvero vicini. Basta leggere l’incipit, e si avverte subito un altro respiro, un’altra musica.

Nelle pubblicazioni, piuttosto rare, che ne fanno cenno, la collezione Castiglioni è spesso descritta come «effimera». L’aggettivo è infelice; la Castiglioni è, senza ombra di dubbio, fuggitiva, addirittura sfuggente – ammesso che i due termini si addicano a una collezione d’arte. Nell’appendice a un saggio, non datato e senza numero di pagina, l’autore – un certo N. Scymanzski – la definisce «caduca»; anche attenendosi alla mera accezione botanica, il termine è improprio. La collezione non può in alcun modo dirsi temporanea. Né tantomeno fugace. È, piuttosto, erratica.

2. Stile. L’uso frequente del punto e virgola; visto però non come sostituto più blando del punto, ma come strumento ritmico, e spesso posto dopo poche parole dall’inizio di un periodo, cosa insolita. La presenza poco meno che invasiva delle parentesi; anche qui, con uso quasi sperimentale: a volte sono delle specie di a parte teatrali, o retropensieri; altre volte, come etichette, risaltano più delle frasi che stanno al di fuori; a volte sono esageratamente lunghe e a volte di una sola parola (o due). L’aggettivazione, molto sorvegliata, in certi casi imbrocca il miracolo, quell’accoppiare una qualità fisica e una morale che faceva impazzire Borges (il quale citava Shakespeare: “Where a malignant and turbanted Turk…”)

3. Struttura. Circolare, anzi labirintica. Ed è un labirinto ancora più ingannevole perché non sembra. Mi spiego: i capitoli non sono disposti in ordine cronologico, ma si muovono avanti e indietro nel tempo, oltre che qua e là nello spazio; però, i capitoli hanno dei titoli ricorrenti che ci fanno capire sempre dove e quando ci troviamo. Ciononostante, si ha costante l’impressione che qualcosa ci sfugga, ci sia sottratto; che qualcuno stia giocando al gatto col topo, e il topo siamo noi.

4. Arte. Un albero che cade nella foresta fa rumore? E i sogni che svaniscono all’alba, sono mai esistiti? La vicenda è intrecciata all’arte, e ai discorsi sull’arte, e all’interpretazione dell’arte come una metafora no, non della vita, ma dell’arte. Un’opera che nessuno vede, esiste? E un’opera di cui non vi è più traccia, irrecuperabile anche dalla memoria, è mai esistita? La fantomatica collezione Castiglioni ricorda i Rosacroce di Eco: se esiste, è solo perché qualcuno se l’è inventata, e qualcun altro ci ha creduto così forte da farla esistere.
(E oltre all’arte, c’è anche la fotografia, la protagonista femminile è fotografa, e forse oggetto dello scatto che ha consacrato la fama del marito; e c’è anche la letteratura, perché il marito è uno scrittore famoso, e ci sono anche cenni di metaletteratura, ma nonostante ciò, nonostante i libri-che-hanno-per-protagonisti-quelli-che-scrivono-libri siano una delle cose più intollerabili, qui non c’è un briciolo di autoreferenzialità. Sia messo agli atti come ulteriore nota di merito).

5. Storia. Perché non c’è solo la forma, la dispositio, la retorica, l’intreccio. Ci sono i fatti, per quanto a volte oscuri, a volte omessi: il protagonista maschile diventa amante della fotografa; poi, confidente del marito; poi, viene nominato nella sua eredità; poi, si mette in cerca della collezione. E ci sono i sentimenti, per quanto ambigui, per quanto occultati sotto coltri di ghiaccio.
(E c’è il bunker, certo, altro leitmotiv; in forma di ossessione, che il padre dello scrittore aveva per i rifugi antiatomici: è l’angoscia che ha accompagnato la nostra civiltà per cinquant’anni di guerra fredda; in forma di citazione, perché lo scrittore e la fotografa vivono in una strana casa con quell’apparenza, e quando il protagonista va a stare da lei, gli sposi si sono separati, ma lui vive lì, nel seminterrato).

6. Bionda. Tema principale, si direbbe: le bionde (meglio se finte, meglio se cattive: Lucrezia Borgia, Messalina), la biondezza (carattere fenotipico apparso molto di recente in homo sapiens e che presto, dicono, tenderà a svanire). Tanto che a un certo punto viene il sospetto che tutta la storia non sia che una grande allegoria della Bionda per eccellenza, altro mito della modernità insieme alla Bomba; anche perché seguendo l’ovvia regola degli enigmi codificata dallo stesso Borges (“In un indovinello sulla scacchiera, qual è l’unica parola proibita? La parola scacchiera”) il nome di colei viene sempre sfiorato ma mai pronunciato; finché di punto in bianco, toh, Marlyn Monroe, e anche quest’illusione sfuma.
(A sproposito, ma davvero. Tra le novità più dirompenti degli ultimi anni è uscita Jennifer Egan; e poi Karen Russell; e adesso Jakuta Alikavazovic, che per me non ha niente da invidiare. Tre donne, alé).

7. Giallo. Scommettiamo che La bionda e il bunker NON sarà il giallo dell’estate? Purtroppo, eh. Eppure, a rigor di presentazione sarebbe un polar, mezzo poliziesco mezzo noir, bah. Troppo anomalo, per quanto. A un certo punto il giovane protagonista, senza che sia stato fatto o detto niente di particolare, smette di togliersi i guanti in quasi ogni circostanza (per non lasciare impronte nel bunker? L’angoscia s’impenna). E il morto, quello c’è subito, anzi viene annunciato come il “primo morto della storia”, ingenerando vane aspettative. Ma la scena centrale (alla lettera, perché gli andirivieni temporali fanno come un balletto attorno a quel punto) viene rivelata solo poco a poco, per reticenze e vie indirette; e vista, mai.

8. Bolaño. Sicché appena finito di leggerlo l’ho sparata grossa, ma il tuit di 66th ha alzato la posta (non si accontentano mai, questi editori).

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E sì che c’è di Bolaño: c’è precisamente questo giocare a nascondino con il lettore. Parlando de I dispiaceri del vero poliziotto, lo scrittore cileno l’aveva esplicitato (ma lo stesso si può dire di tutti i suoi romanzi): il poliziotto è il lettore, sballottato tra una serie di misteri e indizi, e il dispiacere è tutto suo, ché non ne viene a capo. Alikavazovic, come Bolaño, e a differenza di Borges, porta a un altro livello la finzione, l’enigma, il gioco di specchi. L’autore di Finzioni e L’Aleph costruisce dei rompicapi assurdi, delle vere maratone dell’intelligenza, ma alla fine ti spiega tutto, come un giallista classico; e tu ti senti intelligente. Borges (e Bioy Casares) ipotizza “un romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale”. Bolaño (e Alikavazovic) quel romanzo lo scrive. E tu sospetti che ci sia una realtà altra, ma non sei tra quei pochissimi, non la indovini. E ti senti un cretino.

10. Breve. E tutti questi universi, Jakuta, dentro a neanche duecento pagine!

(Oggi anche su Giudizio Universale)


Rava e la fava

Enrico Rava, On the dance floor, Ecm

Inauguriamo un nuovo tipo di non-recensione. Non solo perché musicale, dato che finora ho non-recensito solo libri. Ma soprattutto per il motivo: dopo le non-recensioni per conflitto d’interessi, ecco la non-recensione per brevità.

Michael Jackson lo conoscete tutti, purtroppo. Enrico Rava anche, direi: quando uno entra nel giro di quelli imitati da Fiorello, vuol dire che non ha bisogno di presentazioni. Ma magari non tutti ricordano che Miles Davis, ngli ultimi anni della sua vita (quelli dove molti gli davano del rincoglionito – ma erano gli stessi che prima gli davano del venduto), aveva espresso giudizi lusinghieri non solo su Prince, non solo su Nino D’Angelo, ma anche sul black more white. Il vecchio Miles però almeno aveva la giustificazione di parlare a Jackson vivo.

Ora Rava dice che è un genio. E gli dedica un intero cd Ecm, On the dance floor, con agguerrita orchestra avanguardistica. Il disco l’ho sentito solo una volta – altrimenti che non-recensione sarebbe – quindi può essere che ci tornerò in qualche modo. Ma può anche essere che non avrò in coraggio di rimetterlo su.

Perché al primo mezzo ascolto


uno pensa: che grande sto Rava, riesce a far diventare interessante perfino Michael Jackson.

Ma al secondo mezzo ascolto

inevitabilmente si conclude: ma che mappina sto Michael Jackson, riesce a far diventare pacchiano persino Rava.

E chest’è.

(Oh, ve l’avevo detto che era corta)


Pino a metà

E va bene, lo dico subito: Marcella Russano è una mia amica. Tanto prima o poi mi sgamate, visto che nel suo libro (perché finito questo post non potrete fare a meno di leggerlo, nevvero?) trovate il mio nome addirittura nei ringraziamenti finali – del tutto immeritatamente peraltro: infatti tempo fa mi aveva solo detto che stava iniziando a scriverlo, e chiesto qualche dritta che io non avevo saputo darle. Ma non è l’amicizia a farmi parlare di Nero a metà (questo casomai è il motivo per cui ne parlo solo qui): d’altra parte come ho già detto la marchetta esiste solo in quanto subdola. Non è l’amicizia che mi spinge. È l’amore. Per Pino Daniele, s’intende.

Questo libro è molte cose, ma non è almeno un paio di cose. Non è un libro “tutti-i-testi”, di quelli con una introduzione critico-agiografica, una breve presentazione per ogni album e poi le canzoni tutte tutte; di quelli che pubblicava la Arcana, mitica, in era pre-internet, e che noi ggiovani degli anni ’80-’90 compulsavamo fino a spaginare; tipo questo, che ormai mi è diventato a fascicoli.

E non è manco una biografia, anzi i pochi dettagli tratti dalla vita privata di Pino Daniele, i pochi che sono necessari e funzionali al discorso, si vede che sono cavati dalla tastiera di Marcella quasi a forza, come se scrivendoli pensasse ma chissenefrega, non è di questo che stiamo parlando, dài.

Questo libro è molte cose, contemporaneamente: è una storia artistica di Pino Daniele, dalla tarantella al rock-arabe passando per il blues. È un ritratto documentato e appassionante del contesto il cui quella storia è nata e si è sviluppata: il Naples Power e più in generale tutto il movimento musicale e culturale di una certa Napoli, di un certo (ampio) periodo che va dalla Nuova compagnia di canto popolare ai 99 Posse. È il tentativo ulteriore di inserire questo contesto in un qualcosa di ancora più vasto, un modo di sentire e di proporre Napoli oltre le retoriche tradizionali o moderne, una spinta che accomuna Masaniello e Eduardo, e ovviamente Troisi. E allargando ancora, perché tutto è connesso, è una breve storia dell’universo.

Perché queste neanche duecento pagine, che scritte in realtà con un carattere più grandicello sarebbero state almeno il doppio, sono percorse dalla smania di raccontare tutto e, molto anglosassone in questo, di non dare niente per scontato: si nomina il blues? E via con le colonie, la tratta degli schiavi e tutto, vicenda magistralmente condensata in poche pagine, ma pur sempre ripercorsa. Così di Pino Daniele per momenti anche lunghi si perdono proprio le tracce, nella lettura.

Il libro contiene anche un breve inserto a fumetti (carino quanto superfluo). C’è un’appendice con interviste a vari personaggi decisivi per Pino Daniele, dal produttore Renato Marengo al percussionista brasiliano Nanà Vasconcelos. E c’è un sostanzioso capitolo finale in cui, concluso lo svolgersi più o meno cronologico della storia musicale, le canzoni, comunque sempre presenti e citatissime, salgono alla ribalta in primo piano. È una specie di analisi trasversale, di divisione non per album ma per temi; insolita e geniale, ecco i titoli dei paragrafi: Ritratti, Luoghi, Amore, Appocundia.

Attenzione: ho detto canzoni e non testi, perché anche se il sottotitolo (Dalle origini a Grande madre, tutta la poesia di Pino Daniele) si avvicina temerario alla vexata quaestio – De André va messo nelle antologie scolastiche? Bob Dylan può avere il Nobel per la letteratura? – l’autrice non cade nella trappola, non dimentica mai di parlare anche di musica, di suoni e colori. E leggendo questo ultimo bellissimo capitolo sembra quasi, sarà la suggestione di chi l’ha ascoltato a valanga, di sentirlo cantare in sottofondo.

Ma il principale merito di questo libro, almeno per me,è un altro. È quello di dare una risposta alla domanda: ma che è successo a Pino Daniele? Se avete già capito di cosa sto parlando, saltate un paio di paragrafi. Se invece la frase vi suona strana, provo a spiegarmi: dovete sapere che per una vasta fascia di napoletani, diciamo più o meno una fascia d’età che va dai suoi coetanei (è del ’55) ai coetanei miei (sono del ’75) e oltre, Pino Daniele non è un cantante. Non è neanche la banalità de “la colonna sonora della mia vita”. Non è solo quello che appena inizi a imparare la chitarra provi a rifare qualche pezzo per poi capire che no, è un altro pianeta. Per noi Pino Daniele è una bandiera, un retroterra comune, un fratello maggiore. Uno che ha messo in musica e parole tutta la bellezza e la rabbia, tutto quello che ognuno di noi ha dentro ma che nessuno di noi riesce a dire. Tranne lui.

Solo che a un certo punto qualcosa è cambiato. Lentamente, ma inesorabilmente. È calato il napoletano ed è subentrato l’italiano, è calato il blues e aumentato il pop, è scomparsa la surreale magia e ha prevalso la canzoncina cuore-amore. È cambiato anche il pubblico, non solo aumentato di molto, ma proprio cambiato: come se Pino non si rivolgesse più a noi, ma ad altri. E noi così ci siamo sentiti, abbandonati, traditi.

Quando è successo? Lentamente, ma sicuramente da qualche parte tra Mascalzone latino e Che Dio ti benedica, con in mezzo al guado Un uomo in blues. E tutti a chiederci: cosa è successo? Com’è possibile che un giorno uno scrive “Anna verrà / raccoglieremo i cani per strada / ci metteremo qualche altra cosa / per non essere più soli” e il giorno appresso invece scrive “Che Dio ti benedica / che fica”? Che cosa ha trasformato mr. Pino nel sig. Daniele, il cosmonapoletano del taranblues nell’italo-italiano impiegatuccio del pop?

Questioni di cuore, è la risposta. Nel doppio senso, fisico e simbolico. Il blocco delle coronarie che nell’89 lo porta molto vicino a rimanerci. E, immediatamente dopo, l’amore, la serenità affettiva trovata a fianco dell’attuale compagna. La risposta, come il segreto di Pulcinella era sotto gli occhi di tutti. Il merito di Marcella Russano è, innanzitutto, di non aver eluso la domanda, pur avendo la diplomazia di riconoscere al sig. Daniele meriti forse eccessivi; ma poi, appunto, di aver tirato fuori la risposta che era lì come la lettera rubata di Poe. E lo ha fatto riportando le parole dello stesso Pino post-infarto.

Pensai d’aver chiuso con la musica, coi concerti, con quella vita di compositore e interprete che mi portava da uno studio a un teatro, da una sala di incisione a un auditorium. […] C’è voluto del tempo per ricominciare ad avere qualche speranza, a ritrovare la forza di riprendere il cammino. Mi hanno aiutato mia moglie, i miei figli e amici come Massimo Troisi, Rosario Jermano, Massimo Ranieri. Il segreto è stato quello di adattarsi alla malattia. Convivere con la nuova condizione fisica. Non suonare più? Impossibile. Continuare come prima? Impossibile anche questo. Riguardarsi e continuare con accortezza, questo sì. E mano a mano è tornata la volontà di andare avanti, anzi è più limpida di prima […]. Mi curo non per paura della morte ma per poter continuare a comporre e a suonare

Si permette solo di aggiungere Marcella: “Ma come può ‘continuare con accortezza’ uno come Pino Daniele che si è, fino a questo momento, fatto portavoce della ribellione giovanile, delle tensioni che attraversano il Sud del mondo, che si è speso fino a non averne più?”. Ma sentiamo ancora Pino Daniele, con una consapevolezza di sé tanto cruda da fare male:

Ho scritto delle cose belle nel passato, canzoni che secondo me rimarranno. Ora però non so più scrivere in quel modo […]. Non sono molti gli artisti che ammettono di non riuscire a scrivere più con la stessa intensità di prima… non credo sia un fatto di capacità, credo sia più un fatto di vita…

Per questo, dopo anni passati a farmi il sangue amaro, e dopo altri anni passati a non pensarci più, oggi mi sento di dover ringraziare Marcella Russano. E anche un poco Pino Daniele, sì.


Distopia delle birrette

Ed ecco a voi un’altra non-recensione, dopo quella dello scrittore morto, e come in quel caso, lo spunto viene dai fatti di Palermo. Quindi recensirli proprio no, non si puote, che qui è tutto uno smarchettarsi a vicenda e se c’è una cosa che non mi attira, nel magico mondo delle lettere, è proprio questa. Però, parlarne in tono informale, perché no, in fondo Rossari e Morici non sono miei amici, non li conoscevo neanche, prima, e in realtà nel momento in cui scrivo non li conosco ancora; né sono della mia casa editrice, ma tutti e due di e/o; e poi comunque, l’importante è dichiararlo prima, il potenziale conflitto, e io l’ho fatto all’inizio.

Premesso il disclaimer, devo dire però che fare una lettera semiaperta come nel caso precedente, non me la sentivo. Ché Morici è personaggio che un poco di soggezione te la mette: viaggiatore incessante (“L’uomo d’argento è stato scritto in almeno trenta paesi diversi”, recita il risvolto di copertina), e low cost, però non nel senso che preferisce Transavia ad Alitalia come tutti noi, ma nell’interpretazione più estrema e zozzona. Il che ha diretta influenza nel libro, ambientazione e personaggi. Un tipo poi che prende la sua opera a pistolettate, o che la smembra con la precisione dell’operaio specializzato. Magari si offende. Speriamo di no.

Anche perché poi, che dire de L’uomo d’argento. Raccontare la trama – come ormai si riducono a fare molti pezzi di pagine culturali, i pochi che non sono interviste s’intende – mi sembra uno sgarbo al lettore: metti che uno poi se lo compra e se lo legge davvero, gli levi lo sfizio. E d’altra parte, descrivere lo sfondo, il contesto, mi pare un insulto all’autore: come dire, ora lo spiego io, per davvero, e anche con meno parole. Come spiegare tra l’altro, se non avendola vissuta o immaginata, che è lo stesso, una realtà fatta di sballo continuo, di ottundimento fisico e cerebrale a mezzo di sesso droghe e alcol al posto del rock’n’roll (programma di una serata del protagonista: una birra, una canna, un bicchiere di vino, una canna, una birra, una canna…).

Ma lo sballo, e qui sta il bello, è non solo la norma, ma Norma, nel mondo sognato da Morici. Infatti in questa città post qualcosa, enclave felice in un mondo ancora traumatizzato, divertirsi non solo è giusto, ma obbligatorio. E niente, non si capisce una mazza, mi rendo conto, e menomale. Vabbe’, citerò solo, e mai avrei pensato di poterlo fare, Chuck Palahniuk: il quale nei tredici consigli di scrittura (ma non erano sempre dieci? troppa grazia), spesso prolissi e a volte contraddittori, ne mette uno lapidario. Scrivi il libro che vorresti leggere. Ecco, L’uomo d’argento è un libro che vorrei aver scritto.

Non so, invece, se è il libro dentro il quale mi piacerebbe vivere, con tutto che diciamo, marijuana e birrette e cazzeggio tutto il dì, non so se rendo. Però poi vengono fuori un po’ di cose inquietanti, tipo che dal lavoro in un modo o nell’altro proprio prescindere non si può, e poi pure che insomma, tutta sta felicità obbligatoria, non sarà un po’ artefatta. Insomma non mi ci trasferirei, a meno che, aspettate un attimo, non è che ci siamo già? Il problema dei libri così, della fantascienza di prossimità, è proprio questo: è tutto talmente assurdo, ma talmente probabile che ti viene paura che possa arrivare da un momento all’altro, che ti giri e zac, eccoci qua.

D’altra parte, l’aveva già detto Neil Postman in Divertirsi da morire: tutti a farcela addosso temendo l’avverarsi della distopia dittatoriale minacciata da Orwell, e invece quello che si sta avverando è il rincoglionimento soft, felice e consenziente, profetizzato da… oh come si chiamava quello là… dài, quello che si calava pure la mescalina… Vabbuo’ ja’, mo’ basta con sti discorsi intellettuali, passa sta canna.


Lettera semiaperta a uno scrittore vivo

Caro Marco Rossari, questa non è una recensione del tuo ultimo libro L’unico scrittore buono è quello morto. Perché all’inizio io di questo libro non ne volevo scrivere, lo volevo solo leggere. Anzi all’inizio inizio proprio, non lo volevo neanche leggere, anche se mi sembrava curioso, sfizioso, divertente, a quel che ne leggevo in giro. Però sai, leggiamo tante cose, troppe, più per lavoro che per piacere, e si finisce per non provare più piacere, anche quando magari un libro ti sarebbe piaciuto, solo perché sei obbligato a leggerlo. Per non parlare dei classici, addio, ma come fai a non aver letto questo o quell’altro grande, attenzione non ti dicono “come fai a non leggere”, ma “a non aver letto”, uno deve nascere che i classici già li ha letti, e buttarsi subito sulle novità, vabbè.

Insomma, però, visto che dovevamo fare sta cosa a Palermo, mi sembrava educato arrivarci con un minimo di preparazione, di sapere chi siete che fate, e così mi sono preso il libro tuo (e quello di quell’altro pazzo). E poi ho iniziato a seguirti, a leggere il tuo sito, ti ho chiesto l’amicizia su twitter – rectius, abbiamo iniziato a followarci a vicenda, che detta così sembra una roba vagamente porno. E sinceramente, ho iniziato pure un poco a invidiarti, per una serie di motivi, perché fai il traduttore che sarà pure una fatica oscura ma pur sempre un lavoro è, e poi significa che sai bene l’inglese, perché sei stimato e ritwittato da gente che ha un sacco di follower (e dàlli), perché hai un editore che ti fa fare titoli con i giochi di parole, tipo quell’altro che si chiamava Invano veritas, e le biografie cazzare nel risvolto di copertina (“Marco Rossari è nato”, punto). Perché insomma, in generale, mi sembra che tu sia un minimo più inserito, più avviato, più stabile di me in questo mare di precariato intellettuale in cui tutti annaspiamo.

Perché poi, e qui volenti o nolenti veniamo al tuo libro, il problema che mi tormenta (in astratto eh, ché in concreto ben altri) è sempre quello: com’è che qua tutti vogliono fare lo scrittore, o il giornalista, o tutt’e due? Come mai, visto che l’editoria non promette ormai né i soldi, né il successo, né la gloria, anzi assicura l’opposto. E dire che la risposta non dovrebbe essere difficile, dato che tutti gli scrittori – tutti noi scrittori, dovrei dire, e ancora esito, non so se per modestia o rimozione – tutti sono stati, prima, aspiranti scrittori. Ecco, appunto: il tuo libro, prima di leggerlo, stando alle recensioni e alle citazioni, questo mi sembrava: una carrellata sarcastica non meno che iperrealistica nello squallido mondo dell’editoria, e nelle teste bacate degli aspiranti. E questo in maggior parte è, naturalmente.

Aforismi, battute fulminanti, racconti di dieci righe, di cinque righe, di due, di una, di mezza riga, racconti che non esistono. E poi parodie, straniamenti spaziotemporali come Tolstoj intervistato in una radio de Roma o Joyce che rimane inedito. Grazie che sono quelle cose fatte apposta per essere citate nei pezzi, grazie che vengono citate, saccheggiate, mi sembra giusto, non dico di no. Però il senso del tuo libro mi sembra stia altrove, ed è il motivo per cui mi è piaciuto anche di più di quel che credevo.

Siccome voglio fare il tipo originale, hai visto che di aforismi non ne ho messi, e non ne voglio mettere, tranne uno, che mi serve.

C’era uno scrittore che non voleva arrivare al successo e ci riuscì

Perché invece la tragicommedia, il bello viene proprio quando il successo arriva, inatteso o meno. Come succede in quei racconti un po’ più lunghi, sempre sulle cinque o sei pagine per carità, dove per esempio uno scrittore viene tormentato a tal punto dalle voci che escono dalle pagine che legge da dover fuggire in convento; o uno scrittore iniziano a perdere il controllo delle parole sulla pagina, tra le mani, in bocca; o uno scrittore riesce a proporre, far correggere e pubblicare il suo libro leggendolo sempre lui a voce alta, dopodiché la fine.

Poi certo, mi sono piaciuti assai anche l’elogio-insulto della poesia, che è dappertutto e da nessuna parte; o l’immersione nel mondo allucinato e frustrante dei traduttori (e a proposito, pur’io ho sempre pensato che il monologo di Amleto dovrebbe iniziare con una cosa tipo “Vivere o morire? Qui casca l’asino!”); o ancora la tirata anti-beatnik, sul genere i vostri sogni sono diventati i nostri fallimenti. Ma insomma, come ti dicevo per me il core del libro sta in quei momenti in cui sì, sempre di scrittori si parla, però più che sbeffeggiare le loro debolezze, ti (e ci) cali nel loro intimo dramma: la sensazione, che dico la certezza, che la realtà ti si possa disgregare davanti da un momento all’altro, col massimo aplomb. E mi voglio allargare, quello della zanzara è a livello di Buzzati, ma mo’ basta con i violini, ci vediamo, a presto, ciao.