Dogperson
Pubblicato: 5 giugno 2019 Archiviato in: Racconti | Tags: dogperson, minima&moralia, violenza Lascia un commento(Questo racconto è stato pubblicato dalla rivista online Minima & moralia il 5 giugno 2019)
Dice che quando vedi un cane che ti viene incontro, la cosa che non devi proprio fare anche se hai paura, anche se l’animale ti sembra aggressivo – soprattutto se tieni paura, soprattutto se l’animale è aggressivo – l’ultima cosa che devi fare è metterti a correre. O perlomeno, così mi dicevano a me quando ero piccolo, e avevo paura dei cani (anche ora ho paura dei cani, ma ho imparato a evitarli, o forse sono loro che stanno alla larga, perché sono anni che non ne vedo in giro). Il cane, mi spiegavano, fiuta la tua paura, e questa cosa lo eccita, gli risveglia il cacciatore pure se non era partito con idee cattive: anzi no, si contraddicevano, il cane pensa che vuoi giocare e ti insegue, tentavano di rassicurarmi. Tutta sta predica non ha mai impedito che, all’atto pratico, ogni volta mi mettessi a correre: con le conseguenze che potete immaginare. Il problema del cane è che è una bestia, che non ci puoi parlare; è che non capisci mai che cosa vuole fare, fino a che non lo ha fatto. Ci ripensavo proprio l’altro giorno perché oh, sentite che mi è successo.
Tornavo a casa in pullman, stanco e stressato come ogni finale di giornata, e pensavo ai cazzi miei, ma ci pensavo così forte che per poco non mi perdevo la fermata, e sono sceso a porte quasi chiuse, nel buio del controviale. Sono sceso all’ultimo momento e perciò non l’ho vista subito, era già un po’ lontana, al buio non l’ho vista finché lei non ha visto me, guardandomi di sfuggita e poi girandosi e mettendosi a camminare a testa bassa. Quello è stato l’unico momento in cui l’ho vista in faccia, i nostri sguardi non si sarebbero mai più toccati, neanche dopo. Per quel breve momento mi è sembrato che assomigliasse a Lei, anche se era ovvio che non poteva essere Lei, per una serie di motivi di ordine storico e geografico, ma poi da dietro, con i capelli castani e lisci, e il taglio medio, assomigliano tutte a Lei, e quindi in un certo senso, non so se mi spiego, era Lei. Camminava, stava quella ventina di metri avanti a me, quel vantaggio che le aveva dato l’essere scesa dal pullman come una persona normale, e non come uno stonato. Purtroppo andava nella mia stessa direzione: non ci ho messo neanche un attimo a capire che, qualsiasi cosa avessi fatto, ero comunque fottuto.
(Continua qui)
Every breath you take, l’inno dello stalker
Pubblicato: 7 marzo 2013 Archiviato in: Articoli | Tags: 8 marzo, donne, every breath you take, femminicidio, musica, Police, stalking, sting, violenza 11 commentiOkay, non scopro niente di nuovo. D’altra parte, lo ha detto a più riprese lo stesso Sting:
È una canzone molto, molto sinistra e minacciosa: la gente l’ha travisata e la canta come se fosse una delicata canzoncina d’amore…
Ma è una piccola canzone cattiva, davvero piuttosto perversa. Parla di gelosia, sorveglianza, possessività.
Il punto è che queste dichiarazioni (rispettivamente prese da qui e qui) le conoscono in pochi, mentre il pezzo lo sanno tutti, e tutti lo continuano a cantare allegramente come una canzonetta appassionata.
Allora forse vale la pena farci una riflessione e un’analisi, in generale, e in particolare oggi, alla vigilia dell’ennesimo 8 marzo. L’ennesimo 8 marzo di chi andrà festeggiare con gli spogliarellisti, per rovesciare il cliché, ma in realtà perpetuandolo. Di chi con finta ingenuità, e sostanziale malafede, se ne uscirà dicendo che è una celebrazione obsoleta, che in occidente la parità è raggiunta, siam mica l’islam. Di chi si farà il mazzo a sciorinare statistiche raccapriccianti – sul numero di femminicidi, o sulle discriminazioni di genere negli stipendi o nei posti dirigenziali – che però quasi nessuno avrà voglia di leggere e di studiare. Allora un piccolo contributo, come sempre sulle parole, che altro non so fare.
Il problema, con Every breath you take, è che occorre un cambio di prospettiva. Quelle frasi, non te le devi immaginare cantate da quel bonazzo di Sting. Immaginale scritte su una lettera anonima che ricevi inaspettatamente. O sussurrate da quel tipo viscido del palazzo di fronte che una volta hai salutato distrattamente e da allora sembra seguirti a distanza. O urlate a telefono da quel pretendente o da quell’ex un po’ manesco che proprio non vuole farsene una ragione. E vedrai che invece di andare in solluchero, andrai in paranoia. Proviamo?
È utile svincolare il testo dalla lingua originale, dalla melodia, e anche dal verso poetico. (La traduzione è mia, mi sono preso qualche libertà, e avrò fatto qualche errore: mi corigerete)
OGNI TUO RESPIRO
Non ti senti già il suo respiro ansimare sul collo? Il breath di cui si parla è il tuo, ma per suggestione richiama anche quello dello stalker. A proposito: ho tradotto alla lettera, ma si potrebbe anche dire “Ogni volta che tiri il fiato”, cioè ogni volta che ti rilassi, che credi di essere fuori controllo, fuori pericolo: no, io starò lì a guardarti.
Ogni tuo respiro, ogni tuo movimento, ogni legame che spezzi, ogni passo che fai: io sarò lì che ti guardo.
Ecco subito, in mezzo a espressioni tanto generiche quanto pervasive (respiro, movimento, passi), si affaccia il tema del possesso, del vincolo che hai sciolto (bond you break), e come ti sei permessa?
Ogni giorno che Dio manda in terra, ogni parola che ti esce di bocca, ogni scherzo che fai, ogni notte che ti fermi: io non ti perdo mai di vista.
Attenzione: to play the game vuol dire, certo, “fare un gioco”, ma anche e soprattutto “giocare un tiro”, fare uno scherzo, mettere in atto un trucco, prendere in giro. Come a dire: non sarò certo io a farmi giocare da te. Da notare anche la sapiente disposizione delle frasi, che aprono la strofa con il giorno e la chiudono con la notte (night you stay può riferirsi al riposo notturno, ma anche essere “ti fermi qui a dormire”: ipotesi solo apparentemente più rassicurante, quando poi la conseguenza è avere uno che rimane sveglio a fissarti).
Te ne vuoi fare una ragione? Appartieni a me e basta! E come soffre il mio cuore a ogni passo che fai!
Se nelle prime due strofe la ripetizione ossessiva (every… you… – every… you…) è funzionale a trasmettere l’angoscia opprimente dell’assedio, quando arriva il ritornello a sciogliere la tensione, altro che relax, lo stalker esce allo scoperto: come fai a non accorgertene, che sei mia e di nessun altro? E poi, tipicamente, il carnefice si autoassolve trasformandosi in vittima: sei tu che mi fai del male, quando ti allontani, appena ti muovi.
Ogni volta che ti muovi, ogni volta che rompi il giuramento, ogni volta che fai finta di sorridere, ogni volta che rivendichi un diritto: ti tengo d’occhio.
La prima frase è già una ripetizione, allora uno si aspetta che parta il gioco delle permutazioni, e invece arrivano le parole più pesanti: il tradimento percepito è al massimo grado, perché stavolta a essere spezzato è un giuramento (vow), un voto, qualcosa di sacro. E si ribadisce la supposta conoscenza della persona al di là della maschera: non ingannerai mica me, con quel sorrisetto di circostanza (smile you fake). Infine il più sinistro: claim you stake, reclamare un diritto – la libertà per esempio – ma come ti viene in mente?
Da quando sei andata via mi sono perso, di notte non faccio che sognare il tuo volto, mi guardo attorno ma non riesco a rimpiazzarti, ho freddo e desidero il tuo abbraccio, e piango e grido amore mio, ti prego!
In questo senso il secondo ritornello o bridge non fa che confermare due cose già annotate: l’ossessione totalizzante della figura della donna, però ridotta a oggetto (it’s you I can’t replace); la percezione di sé come vittima sofferente. Ben più interessante è quello che succede alla fine: niente di diverso dalle ripetizioni che accompagnano lo sfumare di moltissimi pezzi, certo, ma in questo caso la reiterazione è simbolo di persecuzione. Mentre i coretti continuano a fare every questo ed every quell’altro, la voce principale ripete:
Sono lì a guardarti
Non ti perdo di vista
Ti tengo d’occhio
Ti sto guardando
E questo I’ll be watching you – inquietante notazione finale – è accompagnato nel libretto da un’indicazione insolita, non vorrei sbagliarmi ma mi pare inedita: invece del solito “fade out”, c’è scritto “ad infinitum”. Come a dire: non c’è scampo.
C’è, invece. E il senso di questo post, oltre a una divertente contro-analisi testuale, vorrebbe essere proprio quello. Pare che la maggiore difficoltà delle vittime di violenza domestica sia interpretativa: cioè quella di riconoscere, soprattutto all’inizio, i comportamenti vessatori e aggressivi. E come sempre, non è un problema che riguarda solo le donne, ma anche gli uomini: vicini, parenti, amici. Perché le parole (e i gesti) dell’amore non sono le parole (e i gesti) della violenza. A volte è arduo distinguerli. Ma si può. Si deve.
Femminicidio e violenze nascoste
Pubblicato: 1 Maggio 2012 Archiviato in: Articoli | Tags: donne, femminicidio, parole, violenza Lascia un commentoNonostante io sia un maschio. Proprio perché sono un maschio.
Nonostante questo blog sia dedicato ad altro. Proprio perché questo blog è dedicato ad altro.
Nonostante abbia aderito ormai anche Saviano. Proprio perché ormai ha aderito anche Saviano.
Qui sotto riporto l’appello lanciato qualche giorno fa da Se non ora quando e blog affiliati. (Se andate su questi siti e altri che rilanciano la notizia trovate il mio nome nel gotha dei primi firmatari: nessun merito particolare, solo una questione di tempo, mi è capitato di vederlo subito, subito ho scritto).
Poi oltre a far girare l’appello, stanno uscendo a complemento tutta una serie di commenti, spiegazioni, approfondimenti: per esempio quello di Barbara Spinelli che spiega il perché del brutto e necessario termine “femminicidio”, o quello di Concita De Gregorio sulle donne bruciate per emulazione.
Aggiungerei due pensierini. Per rispondere all’ovvia domanda: si vabbè siamo d’accordo, firmiamo e ci indignamo, ma che facciamo? Che fare? (Certo oltre a parlarne, fare inchieste e tirare fuori notizie, come nei link appena indicati, è già qualcosa, è tanto). I livelli possibili sono due.
Primo livello. Diretto. Penale. Chiaro, no? Il femminicidio è un omicidio, cioè un reato, che si combatte e previene con strumenti giuridici. Per esempio si potrebbe pensare a configurare un delitto a parte, punito più severamente, o almeno a un’aggravante, come ha proposto Michele Serra. I miei ricordi di giurisrudenza sbiadiscono, ma sospetto che non ce ne sarebbe neanche bisogno, potendo far rientrare molti casi nell’aggravante della crudeltà o dei motivi abietti; diciamo che una modifica legislativa del genere avrebbe una valenza più che giuridica, politica (come quando qualche anno fa si spostò finalmente la violenza sessuale dai delitti contro l’onore a quelli contro la persona, dove logicamente sta, ma nulla avrebbe vietato di triplicare le pene pur lasciando il reato lì dov’era), cioè un segnale lanciato alla società, e quindi senz’altro utile. Certezza della pena, si dice in questi casi, e come si fa a sostenere il contrario, quando nei pochi casi in cui una donna scampa alla morte, e l’aguzzino è condannato, lei vive nel terrore – nella certezza – che uscito di galera lui tornerà a cercarla. Non era precisamente questo che si intendeva quando si diceva che chi sbaglia deve avere una seconda possibilità. Certo, partire dal femminicidio, concentrare e dirigere tutti gli sforzi su quello. D’altra parte, chi di noi se possedesse una bacchetta magica, e potesse sventare uno e un solo delitto, non sceglierebbe un omicidio invece che una “semplice” violenza fisica o addirittura verbale. Il problema è che la bacchetta magica non esiste, perciò forse è più utile il
Secondo livello. Indiretto. Globale. Perché la scuola e bla bla. La famiglia e bla bla. Gli amici e bla bla. Sembrano tutti bla bla, che d’altra parte fa rima con società. E quando uno inizia a parlare di società aleggia sempre il sospetto che sia come dire: resposabilità di tutti quindi di nessuno, niente di fatto, zero a zero e palla al centro. Invece no, io penso davvero che siano tanti e sparsi i luoghi in cui si può imparare una modalità diversa di relazione uomo-donna. Un ragionamento simile lo fa anche Matteo Bordone (che quando l’ho letto ho pensato, solo un po’ lungo e tortuoso, ma forse io sono riuscito a fare di peggio). Si chiede un impegno diretto, a noi maschi. Io quello che so fare, forse, è scrivere. Perciò ne scrivo ogni volta che posso, anche a costo di andare off topic, anche a costo di farmi dire ma che c’entrano le copertine dei libri, ma non esagerare mo’ con questo politically correct. Io quello che faccio è scrivere, e leggere, anche. E allora la mia battaglia sarà con le parole, sulle parole.
MAI PIU’ COMPLICI.
Cinquantaquattro. L’Italia rincorre primati: sono cinquantaquattro, dall’inizio di questo 2012, le donne morte per mano di uomo. L’ultima vittima si chiama Vanessa, 20 anni, siciliana, strangolata e ritrovata sotto il ponte di una strada statale. I nomi, l’età, le città cambiano, le storie invece si ripetono: sono gli uomini più vicini alle donne a ucciderle.
Le notizie li segnalano come omicidi passionali, storie di raptus, amori sbagliati, gelosia. La cronaca li riduce a trafiletti marginali e il linguaggio le uccide due volte cancellando, con le parole, la responsabilità. E’ ora invece di dire basta e chiamare le cose con il loro nome, di registrare, riconoscere e misurarsi con l’orrore di bambine, ragazze, donne uccise nell’indifferenza.
Queste violenze sono crimini, omicidi, anzi FEMMINICIDI. E’ tempo che i media cambino il segno dei racconti e restituiscano tutti interi i volti, le parole e le storie di queste donne e soprattutto la responsabilità di chi le uccide perché incapace accettare la loro libertà.
E ancora una volta come abbiamo già fatto un anno fa, il 13 febbraio, chiediamo agli uomini di camminare e mobilitarsi con noi, per cercare insieme forme e parole nuove capaci di porre fine a quest’orrore. Le ragazze sulla rete scrivono: con il sorriso di Vanessa viene meno un pezzo d’Italia. Un paese che consente la morte delle donne è un paese che si allontana dall’Europa e dalla civiltà.
Vogliamo che l’Italia si distingua per come sceglie di combattere la violenza contro le donne e non per l’inerzia con la quale, tacendo, sceglie di assecondarla.
PER ADERIRE http://www.petizionepubblica.it/?pi=P2012N24060
E che c’entra l’8 marzo?
Pubblicato: 6 marzo 2012 Archiviato in: Racconti | Tags: 8 marzo, donne, rapina, violenza Lascia un commento(Questa è una storia che gira su internet, in inglese. E gira talmente tanto che non sono riuscito a capire chi l’ha ideata in origine. Non che sia fondamentale, ma penso sia giusto citare chi ha scritto una cosa notevole. Io l’ho solo tradotta alla bell’e meglio, e un po’ adattata. Sì ma che c’entra l’8 marzo?)
Uomo: Buongiorno, devo denunciare una rapina che ho subito.
Agente: Una rapina, eh? Mi dia un documento. E dove sarebbe avvenuta, questa rapina?
Uomo: Ero a via Roma, a un certo punto da un vicoletto è spuntato fuori un tizio con una pistola e mi ha urlato di dargli tutti i soldi che avevo.
Agente: E lei? Cosa ha fatto?
Uomo: Be’, ho fatto come mi diceva.
Agente: Quindi lei, di sua spontanea volontà, gli ha dato i suoi soldi, senza reagire. E non ha neanche chiamato aiuto, né ha tentato di scappare?
Uomo: Ah, no, cioè… ma ero terrorizzato. Pensavo che mi avrebbe ucciso!
Agente: Mmmm… ma in pratica ha fatto esattamente quello che lui le diceva. E qui, dalle informazioni che risultano facendo una rapida ricerca con il suo nome, vedo che lei è un noto benefattore, giusto?
Uomo: Be’, ogni tanto dò dei soldi in beneficenza.
Agente: In pratica a lei piace regalare i suoi soldi agli sconosciuti. Lei ama darli via, i suoi soldi. Ne ha fatto uno stile di vita.
Uomo: Scusi ma tutto questo che c’entra, con quello che ho subito?
Agente: Glielo dico io. Lei stava camminando per via Roma, di sera, con i suoi vestiti costosi in bella mostra. In più lei è noto in città per essere ricco, e disponibile a regalare i suoi averi. Infine non ha respinto la richiesta. Vuole sapere come la penso io? Penso che lei abbia dato volontariamente dei soldi a qualcuno, e in seguito se ne sia pentito. Ci rifletta per bene: vuole davvero proseguire nella denuncia, rischiando di rovinare la vita di una persona innocente a causa di un suo capriccio?
Uomo: Ma… è ridicolo! E’ uno scherzo vero?
Agente: No, è una similitudine. Con lo stupro. Questo è precisamente quanto le donne si trovano ad affrontare ogni volta che tentano di denunciare i loro violentatori.
Uomo: Ma vaffanculo al maschilismo!
Agente: Esatto.
(Se siete rimasti colpiti anche voi come me, condividete questa cosa. Non me ne frega niente di farmi pubblicità: copiaincollatela sui vostri blog, mettetela su facebook, ritraducetela a piacere. Basta che giri, basta che aumenti un briciolo la consapevolezza in una società che si crede avanzata e al riparo da discriminazioni, e invece)
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