10 motivi per cui “La bionda e il bunker” è uno dei 10 libri più belli degli ultimi 10 anni

0. Prima o poi doveva succedere. La presente non-recensione contravviene a una regola che mi sono auto imposto: quella di non parlare mai di libri pubblicati dal mio editore. Ma a quasi due anni dall’uscita del libro mio, si può ancora definire il mio editore, devo ancora sentirmi in conflitto d’interessi? In ogni caso, davanti a una tale meraviglia, ho ceduto.
(C’è un’altra questione, un autolesionismo che fa tenerezza. Già io quando ho pubblicato il romanzo con 66thand2nd – che si legge Sixty-six and second, e il cui logo è però 66THA2ND – me ne sono viste di tutti i colori: dalle richieste di spiegazioni dettagliate ai refusi nelle recensioni, dai lievemente ironici “Puoi farmi lo spelling per favore?” agli aggressivi “Ahò, ma di’ al tuo editore de cambia’ nome!”. Ma insomma, qua pare che se le vanno a cercare: voi ve l’immaginate il lettore che entra in libreria per chiedere sto romanzo? “Per favore, vorrei Jakuta Alikavazovic, no non talicazzov, A-li-ca-va-zo-vi-cce, sì, l’editore è Sic-sti-sics-end-second, grazie, aspetto qui, eh”. Menomale che il titolo, originale e lasciato intatto, è La bionda e il bunker).

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Jakuta Alikavazovic, La bionda e il bunker, 66thand2nd, traduzione di Elena Sacchini, pag. 192, euro 15

Ecco, i motivi.

1. Borges. Da fan, ogni volta che sento parlare – e capita in continuazione – di “borgesiano” o di “nuovo Borges”, metto mano alla pistola. (L’ultima volta che ci sono cascato era il secolo scorso, un’amica mi regalò Chiamate telefoniche, la delusione mi tenne lontano da Bolaño per troppo infelice tempo; ma sul cileno cfr. infra) (Uguale a come faccio quando sento parlare di “nuovi Pink Floyd”: perciò non ho mai approfondito Radiohead e Sigur Rós, e stavolta senza pentimenti). Però, ragazzi, qui ci andiamo davvero vicini. Basta leggere l’incipit, e si avverte subito un altro respiro, un’altra musica.

Nelle pubblicazioni, piuttosto rare, che ne fanno cenno, la collezione Castiglioni è spesso descritta come «effimera». L’aggettivo è infelice; la Castiglioni è, senza ombra di dubbio, fuggitiva, addirittura sfuggente – ammesso che i due termini si addicano a una collezione d’arte. Nell’appendice a un saggio, non datato e senza numero di pagina, l’autore – un certo N. Scymanzski – la definisce «caduca»; anche attenendosi alla mera accezione botanica, il termine è improprio. La collezione non può in alcun modo dirsi temporanea. Né tantomeno fugace. È, piuttosto, erratica.

2. Stile. L’uso frequente del punto e virgola; visto però non come sostituto più blando del punto, ma come strumento ritmico, e spesso posto dopo poche parole dall’inizio di un periodo, cosa insolita. La presenza poco meno che invasiva delle parentesi; anche qui, con uso quasi sperimentale: a volte sono delle specie di a parte teatrali, o retropensieri; altre volte, come etichette, risaltano più delle frasi che stanno al di fuori; a volte sono esageratamente lunghe e a volte di una sola parola (o due). L’aggettivazione, molto sorvegliata, in certi casi imbrocca il miracolo, quell’accoppiare una qualità fisica e una morale che faceva impazzire Borges (il quale citava Shakespeare: “Where a malignant and turbanted Turk…”)

3. Struttura. Circolare, anzi labirintica. Ed è un labirinto ancora più ingannevole perché non sembra. Mi spiego: i capitoli non sono disposti in ordine cronologico, ma si muovono avanti e indietro nel tempo, oltre che qua e là nello spazio; però, i capitoli hanno dei titoli ricorrenti che ci fanno capire sempre dove e quando ci troviamo. Ciononostante, si ha costante l’impressione che qualcosa ci sfugga, ci sia sottratto; che qualcuno stia giocando al gatto col topo, e il topo siamo noi.

4. Arte. Un albero che cade nella foresta fa rumore? E i sogni che svaniscono all’alba, sono mai esistiti? La vicenda è intrecciata all’arte, e ai discorsi sull’arte, e all’interpretazione dell’arte come una metafora no, non della vita, ma dell’arte. Un’opera che nessuno vede, esiste? E un’opera di cui non vi è più traccia, irrecuperabile anche dalla memoria, è mai esistita? La fantomatica collezione Castiglioni ricorda i Rosacroce di Eco: se esiste, è solo perché qualcuno se l’è inventata, e qualcun altro ci ha creduto così forte da farla esistere.
(E oltre all’arte, c’è anche la fotografia, la protagonista femminile è fotografa, e forse oggetto dello scatto che ha consacrato la fama del marito; e c’è anche la letteratura, perché il marito è uno scrittore famoso, e ci sono anche cenni di metaletteratura, ma nonostante ciò, nonostante i libri-che-hanno-per-protagonisti-quelli-che-scrivono-libri siano una delle cose più intollerabili, qui non c’è un briciolo di autoreferenzialità. Sia messo agli atti come ulteriore nota di merito).

5. Storia. Perché non c’è solo la forma, la dispositio, la retorica, l’intreccio. Ci sono i fatti, per quanto a volte oscuri, a volte omessi: il protagonista maschile diventa amante della fotografa; poi, confidente del marito; poi, viene nominato nella sua eredità; poi, si mette in cerca della collezione. E ci sono i sentimenti, per quanto ambigui, per quanto occultati sotto coltri di ghiaccio.
(E c’è il bunker, certo, altro leitmotiv; in forma di ossessione, che il padre dello scrittore aveva per i rifugi antiatomici: è l’angoscia che ha accompagnato la nostra civiltà per cinquant’anni di guerra fredda; in forma di citazione, perché lo scrittore e la fotografa vivono in una strana casa con quell’apparenza, e quando il protagonista va a stare da lei, gli sposi si sono separati, ma lui vive lì, nel seminterrato).

6. Bionda. Tema principale, si direbbe: le bionde (meglio se finte, meglio se cattive: Lucrezia Borgia, Messalina), la biondezza (carattere fenotipico apparso molto di recente in homo sapiens e che presto, dicono, tenderà a svanire). Tanto che a un certo punto viene il sospetto che tutta la storia non sia che una grande allegoria della Bionda per eccellenza, altro mito della modernità insieme alla Bomba; anche perché seguendo l’ovvia regola degli enigmi codificata dallo stesso Borges (“In un indovinello sulla scacchiera, qual è l’unica parola proibita? La parola scacchiera”) il nome di colei viene sempre sfiorato ma mai pronunciato; finché di punto in bianco, toh, Marlyn Monroe, e anche quest’illusione sfuma.
(A sproposito, ma davvero. Tra le novità più dirompenti degli ultimi anni è uscita Jennifer Egan; e poi Karen Russell; e adesso Jakuta Alikavazovic, che per me non ha niente da invidiare. Tre donne, alé).

7. Giallo. Scommettiamo che La bionda e il bunker NON sarà il giallo dell’estate? Purtroppo, eh. Eppure, a rigor di presentazione sarebbe un polar, mezzo poliziesco mezzo noir, bah. Troppo anomalo, per quanto. A un certo punto il giovane protagonista, senza che sia stato fatto o detto niente di particolare, smette di togliersi i guanti in quasi ogni circostanza (per non lasciare impronte nel bunker? L’angoscia s’impenna). E il morto, quello c’è subito, anzi viene annunciato come il “primo morto della storia”, ingenerando vane aspettative. Ma la scena centrale (alla lettera, perché gli andirivieni temporali fanno come un balletto attorno a quel punto) viene rivelata solo poco a poco, per reticenze e vie indirette; e vista, mai.

8. Bolaño. Sicché appena finito di leggerlo l’ho sparata grossa, ma il tuit di 66th ha alzato la posta (non si accontentano mai, questi editori).

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E sì che c’è di Bolaño: c’è precisamente questo giocare a nascondino con il lettore. Parlando de I dispiaceri del vero poliziotto, lo scrittore cileno l’aveva esplicitato (ma lo stesso si può dire di tutti i suoi romanzi): il poliziotto è il lettore, sballottato tra una serie di misteri e indizi, e il dispiacere è tutto suo, ché non ne viene a capo. Alikavazovic, come Bolaño, e a differenza di Borges, porta a un altro livello la finzione, l’enigma, il gioco di specchi. L’autore di Finzioni e L’Aleph costruisce dei rompicapi assurdi, delle vere maratone dell’intelligenza, ma alla fine ti spiega tutto, come un giallista classico; e tu ti senti intelligente. Borges (e Bioy Casares) ipotizza “un romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale”. Bolaño (e Alikavazovic) quel romanzo lo scrive. E tu sospetti che ci sia una realtà altra, ma non sei tra quei pochissimi, non la indovini. E ti senti un cretino.

10. Breve. E tutti questi universi, Jakuta, dentro a neanche duecento pagine!

(Oggi anche su Giudizio Universale)


Natura morta con playlist

Ci sono le storie troppo belle per essere vere. E storie troppo belle per essere false. Dicerie, aneddoti, voci di corridoio, supposizioni, deduzioni, semplici fantasie: che illuminano un personaggio o un’epoca meglio della realtà. (La realtà è sopravvalutata). Storie assolutamente plausibili, ma irrimediabilmente false. Storie perfette, e chi se ne frega se non sono mai accadute. Sarebbero potute accadere. Sarebbero dovute accadere.

DYER_cop einaudiSono passati vent’anni e finalmente qualcuno (Einaudi) si è deciso a ristampare Natura morta con custodia di sax, uscito nel 1993 per la piccola Instar – non così piccola da allora, grazie anche al successo di quel libro. Un capolavoro. Di più, un capostipite: oggi, e col senno di poi, viene individuato come uno dei primi esempi di quello stile – narrativa non-fiction o saggistica raccontata – che ora va per la maggiore, anzi sembra l’unico accettato. Quello di Gomorra per intenderci, ma soprattutto quello di Limonov e L’avversario. Però, a pensarci bene, c’è una distinzione, sottile ma non piccola: le semi-biografie di Emmanuel Carrère, e tutte le altre opere simili, partono dai dati reali per poi lavorare di fantasia, facendo fill the gap dove le informazioni mancano o aggiungendo particolari che servono alla trama. Geoff Dyer fa il cammino al contrario, parte da suggestioni e fantasie tutte sue, ispirate a canzoni o fotografie, e solo dopo ricerca qualche appiglio reale. Perciò questo articolo vuole rispettare la sua invenzione stilistica, che programmaticamente ricalca l’intreccio tra improvvisazione e composizione, tra invenzione e citazione dai classici, tipico del jazz, e impossibile da districare, come lui stesso dice in prefazione. E vuole essere memore del monito di George Steiner, citato in postfazione, sulla pleonasticità di qualsiasi commento sulla musica e l’arte, in quanto parassitario e di secondo livello – senza contare che un pezzo tradizionale su Natura morta rischierebbe addirittura di essere di terzo livello, un commento sul commento. Perciò questa non è una recensione, né tantomeno un lavoro da detective alla ricerca delle fonti, un’indagine per distinguere il falso dal vero. Ma una risalita alle fonti immaginarie, alle suggestioni musicali e fotografiche che stanno dietro la scrittura: arbitraria e parziale, proprio come lo sono quelle. Insomma, è una playlist.

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L’Ulisse di Potter

chris-potter-the-sirensAltre fughe, altro movimento perpetuo. Il mito di Ulisse, uno dei più antichi nella storia dell’umanità. E che nel corso della storia ha ispirato infinite narrazioni ed espressioni artistiche. Da ultimo, questo The Sirens, del sassofonista Chris Potter. Un viaggio, un continuo mutare di atmosfere musicali e paesaggi sonori, in cui vediamo scorrere tutti gli episodi e i personaggi a noi noti: Calipso, Penelope, Nausicaa, ovviamente le sirene, il mare color del vino, l’alba con le sue rosee dita. Un viaggio in cui il quarantenne jazzista americano, al suo primo album solista targato Ecm, come il re di Itaca è accompagnato da gente fidata: una strana coppia di tastiere (Craig Taborn al piano e David Virelles a piano preparato, celeste e harmonium) e una sezione ritmica fantasiosa ed esplosiva (Larry Grenadier al contrabasso e Eric Harland alla batteria). Un mutevole paesaggio sonoro, ma con delle costanti che si esaltano ancora di più nell’ascolto in cuffia e nella corsa: l’attenzione alla melodia, alla poesia degli strumenti, e il ritmo, sempre diverso e sempre stimolante. Per non fermarsi mai. Perché anche Ulisse tornò a casa, dopo una maratona di dieci anni. Poi però, dicono, partì un’altra volta.


Caravaggio, l’arte della fuga

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Caravaggio. Una vita di corsa. Prima in fuga dalla peste, poi a trionfali falcate verso l’arte e la gloria, infine di nuovo scappando dalla mano del boia e dalle conseguenze della propria violenza omicida. Caravaggio. A lui si è ispirata la danza, corpi e luci e ombre come nei suoi dipinti, ma in movimento: il Balletto Teatro di Torino, con uno spettacolo che ha debuttato vari anni fa e che gira ancora. Ma per mettere in moto corpi e ombre, per passare dal quadro al ballo ci vuole una cosa: la musica. Caravaggio. Ecco il titolo dell’ultima incisione di Giovanni Sollima, rielaborazione delle musiche per quel balletto. Arte, teatro, danza e musica, in un turbinio di stimoli per la mente e per le gambe.

Giovanni Sollima – cinquant’anni, palermitano – è violoncellista e compositore: musicista talmente indefinibile da essere comprensibile, talmente strano da essere alla portata di tutti. Di formazione e impostazione classica, chiaro. Ma già cresciuto in quell’humus che ha svecchiato la composizione contemporanea spalancando le porte delle più muffite stanze di Conservatori e sale da concerto. Quell’humus ha un nome: minimalismo. Dopo che la musica classica era diventata fredda, astratta, indecifrabile, il minimalismo riportò il gusto per la melodia, per la leggibilità. Anche se era una melodia incantata in strutture minime, appunto, basata sulla ripetizione ipnotica di poche e semplici idee. È un ritorno all’antico – ché sulla ripetitività, sulla costruzione ciclica è basata tutta la musica popolare da che mondo è mondo. E contemporaneamente un’apertura al moderno, alla semplicità del rock. Ma Sollima viene su quando il minimalismo ha già fatto il suo tempo, ha già dato il meglio di sé. Anzi, è in fase declinante, deve subire la reazione come tutte le cose che sono divenute troppo di moda. Infatti se proprio si vuole definire il suo genere, spesso lo si trova associato al termine post-minimalista. In sostanza lui, invece di rinnegare le conquiste del minimalismo, le ha metabolizzate e ha proseguito su quella strada. Ampliando ancora di più gli orizzonti verso il rock, il jazz, la world e qualsiasi altra cosa – vecchia o nuova, alta o bassa – gli sia utile. Altra caratteristica: oltre a rompere gli steccati di genere musicale, ha spesso scavalcato i recinti che delimitano gli ambiti artistici, estendendo le sue collaborazioni alla letteratura, al teatro, alla danza. Come in questo caso.

sollimaIn questo caso (Caravaggio, Sonzogno/Egea 2012) il punto di partenza su cui ha lavorato è stata una suggestione visiva: in alcuni dipinti di Caravaggio ci sono degli spartiti. Non degli strumenti, ma proprio della musica scritta. Da lì Sollima è risalito all’autore, il fiammingo Jacob Arcadelt, recuperandone alcuni brani (Voi sapete ch’io v’amo, Flagellatione). Naturalmente sono riadattati, e naturalmente ci sono dei pezzi nuovi, anzi sono la maggior parte. Un’altra suggestione è stata quella del violino tenore, strumento presente nei dipinti caravaggeschi, e oggi praticamente scomparso. Sollima se l’è fatto ricostruire dal liutaio di fiducia. E lo affianca ai suoi soliti violoncello, violoncello elettrico e manipolazioni elettroniche. Tutto questo anticume, tutte queste attitudini sperimentali, non ingannino: il disco fin da subito scorre, anzi travolge. Sarà che doveva far muovere i ballerini, ma poche note e pochi strumenti riescono a dare il ritmo, e a mantenerlo elevato. Non mancano le dissonanze e i passaggi difficili, ma valgano come frustate quando la tranquillità dell’abitudine rischia di trasformarsi in fiacca. E invece bisogna andare avanti, sempre avanti. Di corsa, come Caravaggio. Senza l’ansia, si spera, dei suoi delitti. Ma con la stessa grazie della sua arte.

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(Articolo uscito sul numero di giugno del mensile sportivo Correre)