Ventun anni

(Racconto scritto la scorsa estate: qualche giorno dopo la strage di Otoya i giornali titolarono che Anders Breivik rischiava solo ventun anni di prigione; in quegi stessi giorni, nelle brevi di cronaca, appariva un’altra notizia riguardante un detenuto)

Ventun anni. Solo ventun anni, come hanno scritto i giornali. Si fa presto a dirlo, ma ventun anni in galera sono una vita. Io posso dirlo, perché ci sono stato. Ora sto per lasciare questa cella dove sono entrato quando ne avevo diciannove, ed ero appena un ragazzo. Ora ne ho quaranta, e dovrei essere un uomo: l’uomo che avrei potuto diventare se non fossi stato chiuso ventun anni qui dentro.

No, non sono innocente, mio padre l’ho ucciso proprio io, con la sua Smith&Wesson. Non sono un errore giudiziario. Ma dico lo stesso che ventun anni sono una vita, la vita che io avrei potuto avere e non ho avuto. Pensate a quante cose possono succedere in ventun anni. Pensate a voi ventun anni fa, a quello che avevate fatto, a quello che eravate. Ecco, io mi sono fermato lì.

Pensate a quante cose si possono fare, nel tempo materiale di ventun anni. Si possono prendere tre lauree in medicina. Si può piantare un albero di prugne e riuscire a fare il primo raccolto e la prima marmellata. Ci si può ubriacare ventun volte nello stesso modo e nello stesso posto per ventun capodanni. Si possono costruire e abbattere case, aziende, storie d’amore. Si può avere un figlio che fa in tempo a prendere la patente, ad andare a votare scheda bianca, a ubriacarsi legalmente, a prendere il porto d’armi, a imparare a sparare con la tua Smith&Wesson.

Tutto questo non mi è successo, e ora questi ventun inutili anni sono passati, sto per uscire di qui. Ma no, non per recuperare la libertà, almeno non nel senso che pensate voi. Lascio questa cella non per uscire all’aria aperta, ma per entrare in un’altra stanza. Perché ventun anni non è la durata della mia condanna. Ma il tempo che ci è voluto per il processo, l’appello, la revisione, la richiesta di grazia, i ricorsi e tutte le lungaggini burocratiche che non mi hanno evitato di finire qui, sulla soglia della stanza delle esecuzioni. Perché il mio nome è William Zed, e sono di Phoenix, Arizona.


Resto al sud

(l’incipit della mia rubrica, Caravan, su Blow Up del mese di marzo)

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Cantodiscanto, Tutto il mondo è paese, autoprod./Materiali Sonori

Questa volta viaggeremo da fermi. Staremo completamente immobili, e sarà il mondo a entrare nella nostra stanza. La nostra stanza è l’Italia, questa piccola e sempre più irrilevante provincia del celeste impero, o meglio il sud Italia, che musicalmente è la stessa cosa. (Toglietevi quella faccia, non c’è partita: vogliamo paragonare, che ne so, Gipo Farassino a Roberto De Simone? Le mondine ai tarantati, Van Der Sfroos a Daniele Sepe? O anche, al limite, i Modena City Ramblers al Canzoniere Grecanico Salentino? Eddài).

Però, anche nel viaggiare da fermi ci possono stare varie modalità. Una è contaminare il materiale etnico tradizionale (le melodie, o all’estremo anche solo i testi) con il sound globale e moderno, prendendo per esempio la Tarantella del Gargano e schiaffandoci sotto un bel basso elettrico, o un pattern elettronico. È quello che, più o meno, fa da anni Eugenio e il suo Taranta Power; è quello che in modo diverso viene fatto nel TaranProject di Mimmo Cavallaro e Cosimo Papandrea, che è uno dei dischi di cui parliamo questo mese. Un altro modo è partire da materiali etnici tradizionali di altri luoghi, vicini e lontani, e riportarli a casa, cioè paragonarli, meglio accoppiarli con quelli nostrani: è ciò che fa, che ha sempre fatto ma in questo caso con vertici assoluti, il gruppo Cantodiscanto con il secondo disco principale della nostra carovana, che non a caso si chiama Tutto il mondo è paese.

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TaranProject, Hjuri di hjumari, CNI

Cavallaro allora, e la povera Calabria. Povera perché leggi Calabria e pronunci ‘ndrangheta, nel peggiore degli stereotipi possibili, e quando qualcuno ha provato a dire che la ‘ndrangheta (senza per carità rinnegarne le origini locali) è diventata una organizzazione talmente potente da colonizzare anche il nord Italia, è stato subissato di insulti e mavalà, e non solo in salsa leghista, salvo poi ritrovarci qualche mese dopo i politici di ben due (al momento in cui si scrive) ricche cittadine della civilissima Liguria non in leggero e sporadico contatto con le cosche, ma talmente collegati e compenetrati con esse che l’unica è stata sciogliere i consigli comunali. E povera Calabria anche perché nella stagione di folk revival che oramai dura da quarant’anni, è stata la regione più in ombra: tutto partì da Napoli, tammurriate villanelle e Nccp, più di recente c’è stato il boom della Puglia, prima Gargano e poi Salento, e persino la piccola Lucania ha avuto i suoi momenti di gloria con i Tarantolati di Tricarico e qualche anno fa anche a livello mediatico con il film Basilicata coast to coast. Calabria? N.p. (…continua in edicola)


Mia madre spiegata a mia madre

Questo video è tratto dalla presentazione di “Non siamo mai abbastanza” a Napoli, libreria Ubik, il 7 novembre 2011. Con Francesco Romanetti, giornalista de Il Mattino, e Raffaella Ferré, scrittrice.

Nel frammento selezionato, viene letto un dialogo dal libro: l’autore interpreta il protagonista, la scrittrice interpreta la madre del protagonista, la madre dell’autore borbotta mimetizzata tra il pubblico.


La mela verde (ovvero quando mi misi a scrivere poesie imitando Toti Scialoja)

(Prescindibile premessa personale. Era il 1994, quasi vent’anni fa a pensarci. La prima repubblica e la mia carriera sportiva si erano appena miseramente concluse. Iniziava l’odissea del berlusconismo e del corso di laurea in giurisprudenza. Ero andato a Torino a trovare Remo Bassetti, che all’epoca era solo il mio (ex) maestro di scherma: il giornalismo, il giornale, il mio trasferimento sotto la Mole, erano lontani e non prevedibili. Remo mi aveva fatto scoprire le brevi, meravigliose poesie “per bambini” di Toti Scialoja. Animali e cose che parlano e bevono e fumano come uomini; parole e lettere che si intrecciano e si accartocciano e suonano come musica: trovai subito quel mondo di un fascino irresistibile. E, tra parentesi, trovai ingiusta e ghettizzante sia la fama di filastrocche per l’infanzia, sia la definizione di nonsense, appiccicate a quei versi: su questo a breve un apposito post. Comunque, tornato a Napoli con quella musica in testa, giravo nella calura di luglio guardando come sempre le scritte sui muri, e lessi: “Virginia vergognati”. Colpito dall’assonanza scialojana, produssi la mia prima scialojata, eccola)

La mela verde, quando il caldo spugna

ed anche il ratto brucia nella fogna

e al vero porco gli si sbava il grugno,

mi danza il valzer (e il verme se la sogna)

sorseggia vermouth sopra l’Aremogna

o beve freddo il rosso di Borgogna.

È ancora vergine, e non se ne vergogna.


Presentazioni del libro: centro-sud tour 2012

L’ho detto (su fb) e lo ridico: mi sento un po’ il Baricco dei poveri. Ba-ricco perché il suo libro ancora doveva uscire e lui già era stato in 10 librerie da Milano a Bari nel giro di 7 giorni. Ma-povero perché in realtà ci si organizza così, comprimendo tutto, per sparagnare. Tant’è, posso dire forte che a marzo faccio 3 presentazioni in 3 giorni. Ecco i dettagli.

Domenica 11 marzo, Roma
Libri Come – Auditorium, ore 12.00
Con il compagno di scuderia Ivan Polidoro, il critico Filippo La Porta e lo scrittore Antonio Pascale
(qui l’evento su Facebook)

Lunedì 12 marzo, Salerno
Feltrinelli, ore 18.00
Con Francesco De Piscopo, docente di letteratura italiana, e Raffaele Avallone, giornalista del Corriere del Mezzogiorno
(qui l’evento su Facebook)

Martedì 13 marzo, Napoli
Fnac, ore 18.00
Con Raffaella R. Ferré
(qui l’evento su Facebook)

Sherlock Holmes, una vita per il cinema

(versione integrale dell’articolo apparso sul Mattino di Napoli il 12 dicembre 2011)

Sherlock-Holmes--Tutti-i-raccontiPrima o poi, che diamine, dovrà pur passare questa moda del noir, che ora sembra l’unico genere degno di essere venduto e letto. Anzi, del noir scandinavo, termine di paragone assoluto da cui discendono slogan involontariamente comici tipo “lo Stieg Larsson italiano” o “la Stieg Larsson donna”. Sembra un po’ come per il legal thriller negli anni ’90, con le sue mitragliate di titoli tutti uguali, Presunto innocente, Colpevole d’innocenza, L’appello, La giuria, L’avvocato di strada, L’ultima sentenza, Il testimone che avrebbe potuto fare il giudice a latere e invece fu condannato.

Menomale che ogni tanto ritorna un classico giallo: Sherlock Holmes. Classico nella definizione, non meno vera che abusata, che ne diede Calvino, di libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. E giallo, be’, Arthur Conan Doyle è pacificamente riconosciuto come il papà del genere (dove Edgar Allan Poe, chiaro, è il nonno, come pure è progenitore dell’horror e di tante, forse troppe, altre cose). Einaudi, questa la novità, manda in libreria il volume Tutti i racconti: e per carità, novità vere e proprie non ce ne sono, non ci stanno inediti o sensazionali nuove traduzioni, ma non ci stanno manco fronzoli, dotte prefazioni o accurate note finali. Né più né meno di quel che si promette, e di questi tempi è una rarità: tutti i racconti, un tomazzo di 1353 pagine, vivaddio stampate con caratteri leggibili, a un prezzo da libro normale, 19 euro. Tutti i racconti, cioè le cinque raccolte di short stories pubblicate tra il 1892 e il 1927, che insieme ai quattro romanzi costituiscono il corpus completo degli scritti su Holmes, dai fissati pomposamente battezzato Canone.

In effetti, anche se l’esordio di Uno studio in rosso resta fulminante e le atmosfere della brughiera nel Mastino dei Baskerville te la fanno sempre fare addosso, è nella quotidianità dei racconti che si trova l’essenza dell’investigatore. Si trova il giallo ma anche il non giallo, perché non solo a volte manca il morto ucciso, e l’ammazzatina non è neppure minacciata, ma addirittura in certi casi non c’è neppure reato: come nell’iniziale Uno scandalo in Boemia, dove tra l’altro Sherlock incrocia l’unica donna della sua vita che abbia non si dice amato, ma intellettualmente ammirato. Nei racconti si trova il guizzo, quell’uso bruciante e spietato (a proposito, Conan Doyle raccontava di aver pensato molto a come chiamare il personaggio, e di aver scelto un nome “breve e secco come una fucilata”) della logica deduttiva che a volte porta alla soluzione del mistero prima ancora che il cliente l’abbia finito di esporre. E si trova la nonchalance, quella fastidiosa spocchia che gli fa dire: “Questa pipa non offre indizi molto evidenti. Il suo proprietario è un uomo muscoloso, mancino, dotato di un’ottima dentatura, di abitudini disordinate e che non ha alcun bisogno di fare economia”. Insomma se, com’è risaputo, non ha mai detto “Elementare, Watson”, sicuramente l’ha pensato.

gioco di ombreNella quotidianità Holmes rivela le sue contraddizioni. Un superuomo, per doti mentali e fisiche, e per altri versi troppo umano: non solo perché si spara la cocaina in vena, ma anche perché senza problemi ogni tanto emerge qualche caso irrisolto, qualche sconfitta (La faccia gialla). E poi, è un santino del passato (non a caso si sono usati i termini Classico, Canone), ma è anche ultramoderno: la reazione dei fan quando lo scrittore tentò di far morire il personaggio, anticipa di un secolo le ragazzine che si stracciano le vesti allo scioglimento dei Take That, o la protagonista del libro di Stephen King Misery non deve morire. Conan Doyle fu messo in croce finché non resuscitò il detective: ma perché Conan Doyle odiava la sua creatura, che lo aveva anche reso ricco e noto? Elementare, come lo stesso scrittore ebbe a confessare: perché era più famosa di lui. E in effetti: oltre al titolo di baronetto, che lo accomuna peraltro alla gente più disparata dai Beatles al patron della Virgin, che cosa si sa di Sir Arthur? Qualcuno ricorda il suo romanzo di fantascienza Il mondo perduto, a cui si è ispirato almeno un po’ l’omonimo crichtoniano sequel di Jurassic park? Qualcuno serba memoria della sua smania senile per lo spiritismo (e forse qui l’oblio fu pietoso), agli antipodi del razionalismo puro di Holmes?

Ma è ovvio, immortale può essere solo chi non è mai esistito. Sherlock è dappertutto: in videogiochi e librogame, nei siti adoranti (Uno studio in Holmes) e nelle parodie a fumetti (l’imbranatissimo Ser Lock di Topolino). E ovviamente nei film, fedeli o apocrifi: l’ultimo si chiama Gioco di ombre e lo firma Guy Ritchie (sì, l’ex di Madonna). Anche se i veri omaggi sono i riferimenti sparsi ovunque: dal noto Guglielmo da Baskerville nel Nome della rosa, alle continue citazioni e parallelismi del suo più autentico erede, il Dr. House. Per cui insomma, mentre celebriamo il nuovo ritorno di Sherlock Holmes, ci rendiamo conto che è una fesseria, che non può tornare, perché non se n’è mai andato.


Il libro mio (non ilmiolibro)

Non siamo mai abbastanza - immagine di copertinaSi chiama Non siamo mai abbastanza, l’ho scritto nel 2010, è uscito nel 2011 per quei bei tipi di 66thand2nd.

Così di solito ne parlo io:

Il titolo doveva essere un altro ma vabbè. Si parla di: Mondiali di calcio, delitto Moro, Playmobil, Diego Armando Maradona, Procedura penale, scherma, Uomo tigre, discese in campo, tammurriate e altre fesserie. Ma soprattutto dei fatti miei (e vostri).

Questo è il modo ufficiale in cui mi presenta la mia casa editrice:

“Forse morire significa questo: quando finisce una cosa e non lo sapevi che ti piaceva, non lo sapevi fino a quando non finisce”

Le passioni sportive, civili e private vissute da Marco nell’arco di trentasei anni, a partire dal suo concepimento avvenuto durante i mondiali di calcio del 1974 fino agli ultimi campionati del 2010. Prima a Napoli, dove è nato, poi a Bologna, per studiare Legge senza troppa convinzione, e infine a Torino, dove si trasferisce in cerca di lavoro e incontra l’amore — Marco cresce, sbaglia, si indigna e racconta gioie e dolori di un’Italia che ancora stenta a riconoscersi come un’unica nazione. Una vita fotografata nei giorni in cui gioca la Nazionale, le polemiche sul calcio scommesse, l’inno di Mameli, la lotteria dei rigori s’intrecciano agli avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’Italia: l’omicidio Moro e le Br, la Legge Basaglia, la discesa in campo del Cavaliere e l’affermarsi della Lega, il terremoto dell’Irpinia, la televisione a colori con il telecomando… Un mosaico fatto di micro-episodi in cui si leggono le aspirazioni e le delusioni di una generazione che «non si aspetta di vivere in condizioni migliori di quella che l’ha preceduta».

Vincitore del concorso In Attesa dell’Unità d’Italia indetto da 66thand2nd in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità. Il testo è stato selezionato da una giuria composta da Gabriele Romagnoli e Paolo Verri, e da Tomaso Cenci e Enzo Rammairone di 66thand2nd.

E questo infine è quel che scrivono alcuni di quelli che ne hanno parlato:

“Funambolico” (La Stampa)

“Sventola di nuovo la bandiera dell’avanguardia” (Correre)

“Colpo di scena finale che sa di Tennessee Williams” (La Repubblica)

“Piglio onirico e disacrante” (Il Giornale)

“Passaggi notevoli per tratteggio storico e sottile umorismo” (Il Mattino)

(Sul sito della casa editrice la rassegna stampa completa).

Dove comprarlo? Ma quante cose volete sapere! In libreria per esempio: essendo distribuito da Messaggerie si trova un po’ dappertutto, in particolare nelle Feltrinelli. E poi nei negozi online: Internet Book Shop (IBS), Bol, Dvd.it, Hoepli, Libreriauniversitaria, Webster, Unilibro, Deastore e simili.

Se vi capita di leggerlo, fatemi sapere qui che ne pensate.


Per tutto il resto c’è fb

Questo è un blog serissimo. Ma non serissimo scherzosamente, come spinoza punto it. Serissimo seriamente. Questo è un blog serio sul serio. Perché il suo autore è un tipo serio, e pure un poco noioso. Di conseguenza anche il blog è noioso, ripetitivo. Ci metto cose più o meno dello stesso genere, che si assomigliano un po’ tutte, nello stile e nei contenuti. Cose che hanno a che fare con il giornalismo, la letteratura e altre specie in via di estinzione. Insomma: poche idee, ma fisse – come disse quello là.

In realtà a me, come a tutti, piacciono un sacco di cose, e parecchio diverse tra loro. Ma non volevo buttare tutto nello stesso calderone, aggrovigliare ancora di più lo gnòmmero. Perciò qui non trovate:

– il commentino acido al fatto del giorno

– l’ultimo spassoso video della band emergente nordestina

– l’opinione mia sulla politica economica del governo

– la ricetta dello sformato di farro e cipolle al curry

– gli aneddoti sulle cose strane che dice mia figlia piccola quando si sveglia di notte

– le peripezie lavorative di un (sempre meno) giovane precario.

Per queste e simili cose, i vari social network vanno benissimo, anzi sono molto meglio. Invece qui trovate:

– gli articoli che escono sulle varie testate con cui collaboro – previa autorizzazione delle stesse – e non (solo) per spararmi le pose, ma soprattutto per condividere info che magari ho stentato a trovare in rete; ogni tanto anche qualche pezzo scritto ad hoc, su libri e dischi usciti non di recente. Questa è la categoria Articoli

– trame, schede, recensioni, estratti, citazioni o semplicemente titoli: di libri che non esistono, se non nella mia testa. Alcuni di questi potrei davvero provare a scriverli (è una minaccia); altri resteranno solo un’idea bislacca. E’ un chiaro omaggio, o plagio, a J.L. Borges (che mi perdoni) e perciò va sotto il titolo di Finzioni

– appuntamenti, notizie, recensioni e altre cose biecamente autopromozionali riguardanti il libro mio, Non siamo mai abbastanza

– racconti, autonomi e slegati da qualsiasi altro progetto, semplicemente Racconti

– brevi versi, malriuscite imitazioni di Toti Scialoja (anche a lui imploro pietà), maestro in composizioni di assonanze solo in apparenza senza senso ma zeppe di sostanza. Epperciò siccome nonsense proprio non mi piace, le ho chiamate Scialojate

Questo ci faccio qui, non altro, e già mi pare abbastanza. Per tutto il resto c’è Facebook.


Chi (non) sono

Se scrivete “Dario De Marco” nei motori di ricerca, trovate tantissime pagine. Che rimandano a tantissime persone diverse. E’ il  guaio di quelli con un cognome comune come il mio (e menomale che i miei non hanno seguito le regole tradizionali del sud, altrimenti mi chiamavo Pasquale o Luigi, omonimi a palate). Per cui se siete arrivati qui googlandomi, mi dispiace per voi, perché avete già esaurito la vostra quota di fortuna per oggi, quindi non comprate un gratta e vinci.

Questo per dire, alla fine, che nel presentarmi e spiegare chi sono, devo anche precisare chi non sono. E colgo qui l’occasione per salutare tutti i miei omonimi: ciao ragazzi, vediamoci una volta di queste!

Sono nato a Napoli, ma non sono il Dario De Marco aka Morgan DJ born in Naples.

Sono laureato, ma non sono il Dario De Marco oculista che Google ripropone a ogni pagina, né il Dario De Marco ingegnere che dirige cantieri in mezza Italia: ho un banalissimo (e inutilizzato) diploma in giurisprudenza.

Faccio il giornalista, ma non sono il Dario De Marco che ha creato e dirige un sito dedicato al wrestling: scrivo soprattutto di letteratura e musica.

Suono la chitarra, ma non sono il Dario De Marco che compone e interpreta canti cristiani evangelici su Youtube: sono parecchio stonato, e anche un po’ ateo.

Ho la passione per la musica etnica e afroamericana, ma non sono il Dario De Marco bluesman: mi piace più il jazz, e soprattutto non ho la stoffa del musicante professionista, purtroppo.

Ho sempre voluto fare lo scrittore, ma non sono il Dario De Marco che ha pubblicato il romanzo finto-autobiografico Non siamo mai abbastanza… ehi, un attimo: invece sono proprio quello! Mannaggia, adesso mi tocca dare delle spiegazioni