Mancato delitto alle Olimpiadi

Paolo Foschi, Delitto alle Olimpiadi, e/o, p. 150, euro 14

Ora, ringraziando gli dèi dello sport, i Giochi di Londra sono solo un ricordo. Quindi è ormai matematicamente impossibile che succeda davvero quanto immaginato in Delitto alle Olimpiadi, né che il suo autore Paolo Foschi venga linciato come jettatore: ci vuole comunque un bel coraggio, altro che stratagemma commerciale dell’editore, per ambientare un omicidio non nel passato, non nel presente, non nel lontano futuro, ma in un futuro realistico e prossimo all’uscita del libri, quindi a rischio di verificarsi. Il fatto: Marinella Paris, campionessa dei 400 a ostacoli, viene trovata sulla spiaggia di Ostia, nuda e con la testa spaccata, alla vigilia della partenza. Oltre che giovane e brava, è anche bella, ricca e famosa: sono note a tutti le sue burrascose vicende sentimentali, divise tra due compagni di squadra, rivali in amore come in pista perché entrambi favoriti negli 800 metri. (Al di là della forzata irrealtà dei particolari – perché un bianco e ancora peggio un italiano che primeggia nelle gare veloci non si vede dai tempi di Mennea – per il resto è lasciata al lettore la possibilità di fare paralleli con personaggi veri e dedurre eventuali fonti d’ispirazione).

A indagare è chiamato il commissario Igor Attila, che nominando subito Maigret, Montalbano e Charitos, si candida a essere l’ennesimo investigatore seriale. Ripropone dello schema tutti i cliché: metodi polizieschi sui generis e dubbi d’autostima, passione per certi cibi e certe mangiate, vita privata disastrosa ai limiti del collasso, un passato che torna a tormentarlo. In questo caso, il passato è legato allo sport, perché Attila è un ex pugile, defraudato dell’oro a Seul ’88. E pure il suo team, una scombiccherata “sezione crimini sportivi” fino a quel momento del tutto inutilizzata, è un’accozzaglia di ex: l’ex ciclista dopato ed esperto di sostanze proibite, l’ex fantino con la fissa delle scommesse e così via.

Paolo Foschi, che fa il giornalista al Corriere della Sera, è appassionato di letteratura, sport e musica, e ha riversato tutto in questo suo primo libro: infatti a intervallare le indagini ci sono le furiose schitarrate e le continue citazioni pop del commissario. Indagini che vanno avanti fra estremo realismo da cronaca (i tribunali che non hanno soldi neanche per comprare la carta igienica, i loschi traffici internazionali attorno al business del doping) e smaccato surrealismo da cabaret (come si chiama il pugile coreano? Setepjo Te Kork. E il corridore? Jo Kor Velok: sembra di stare in una barzelletta delle elementari). Indagini che a un certo punto approdano a Londra, una Londra militarizzata ma efficientissima e accogliente: lì, nel momento culminante della finale degli 800, avviene l’inevitabile soluzione, con tanto di colpo a sorpresa. Ma il vero coup de théâtre arriva all’ultima riga, e non riguarda il fatto di sangue, ma i fatti del commissario. Che tutto sommato risulta simpatico: tanto che, cliché o non cliché, viene voglia che davvero diventi seriale.

(Questo articolo doveva uscire sul Mattino di Napoli prima dei Giochi olimpici, ma la sua pubblicazione è saltata per una serie di equivoci tecnologici. Ora è troppo tardi, per un quotidiano; ma non per questo blog)


I Balkan Beat Box suonano la carica

Balkan Beat Box, Give, Crammed

Quando poi vengono i giorni no, perché ci sono anche quelli, i giorni in cui si è stanchi o svogliati persino per infilarsi le scarpette, mettete su quest’album appena uscito e non riuscirete a rimanere fermi. I Balkan Beat Box sono un trio di israeliani a New York, nati qualche anno fa mescolando influenze mediterranee (quella balcanica del nome è solo una tra le tante) con il dub, l’hip hop e i ritmi da discoteca. In questo cd allargano ulteriormente il discorso, prendendo spezie etniche e sperimentazioni elettroniche in giro per il mondo: Africa, Asia, Sudamerica. Una musica ruvida che sprizza trombette e tamburi da tutti i decibel, proprio quello che ci vuole per trasformare la fiacchezza in carica. E testi diretti e semplici come un cazzotto (c’è bisogno di tradurre titoli come Political fuck o Enemy in economy?) che si ispirano ai venti di protesta che stanno spirando in tutto il globo, dalle primavere arabe a Occupy Wall Street: l’ideale per mutare quell’accenno di tristezza in rabbia. E scattare fuori di casa prima di subito.

(Articolo uscito sul numero di agosto del mensile sportivo Correre)


Blue Camel, vent’anni fa il capolavoro di Abou-Khalil

Questo mese ci muoveremo alla scoperta di una terra straniera, di uno strumento meraviglioso, di un musicista eccezionale. La terra è l’Arabia, ma non la moderna nazione dell’Arabia Saudita, bensì il vasto mondo arabo, l’ex dominio dei califfi che dalla Mesopotamia si estende fino alle propaggini del Marocco che si bagna nell’oceano. Lo strumento è l’oud, che il quel mondo è definito sultan-e-saz, cioè il re degli strumenti, e che da noi è anche noto come liuto arabo: in realtà sarebbe più corretto dire il contrario, perché è dall’oud che derivò nel tardo medioevo il nostro liuto. Anche se rimane una differenza fondamentale, perché il liuto ha un manico dove sono segnati i tasti, come nella chitarra per capirci, mentre l’oud ha una tastiera cieca: il che se da un lato lo rende difficile da suonare, dall’altro contribuisce al suo fascino e soprattutto dà la possibilità di fare i quarti di tono, quelle “mezze note” che stanno per esempio tra un do e un do diesis, che non esistono nelle scale della musica occidentale e che invece sono una delle peculiarità di quella araba.

Il musicista si chiama Rabih Abou-Khalil, ed è uno dei due o tre geni che hanno portato l’oud fuori dalle secche di una tradizione classica immutabile, e oltre il recinto del mondo arabo per renderlo famoso e apprezzato anche in occidente. Questo movimento è evidente fin dalla biografia di Abou-Khalil: nato nel ’57 a Beirut (dove studia con migliori maestri di oud) nel ’78 fugge dalla devastazione della guerra civile libanese e approda a Monaco di Baviera (nel cui conservatorio impara il flauto). È naturale che fin dalle sue primissime registrazioni, che inizieranno non molto tempo dopo, il suo pallino sia stato di mescolare le varie influenze della sua formazione – in particolare è appassionato di jazz – e dei posti in cui ha vissuto: in questo senso è sicuramente un pioniere della world music, anche prima che di world music si iniziasse a parlare. Ma tutti questi input trovano compimento ed espressione insuperabile in un album uscito esattamente venti anni fa, nel 1992: ed è di questo che parleremo, grazie alla coincidenza con l’anniversario ma non solo per quella.

Già il nome è un programma di meticciato: Blue Camel. Dove il quadrupede del deserto rappresenta l’origine, le radici, mentre l’aggettivo non allude tanto al colore (pur se la copertina, con i magnifici arabeschi astratti, è blu eccome) o al blues come genere, o alla tristezza sottesa, ma è una citazione degli innumerevoli brani jazz costruiti su questo calembour (Blue Monk, Blue Trane ecc.). Qui l’incontro oriente-occidente si fa fisico: perché Abou-Khalil non si affida solo a se stesso, come pure potrebbe essendo un virtuoso impareggiabile e un compositore colto, ma chiama a raccolta i migliori di vari generi. Un occhio alla line up: in prima fila, quella dei solisti, ci sono accanto a lui due campionissimi del jazz americano più innovativo, Charlie Mariano al sassofono e Kenny Wheeler alla tromba, come pure al basso elettrico (elettrico!) c’è una colonna chiamata Steve Swallow. Ma è nella sezione ritmica, nella sarabanda di percussioni, che le fantasie multietniche del leader si scatenano: il portoricano Milton Cardona alle congas, l’indiano Ramesh Shotham alle percussioni varie, il fido siriano Nabil Khaiat ai tamburi a cornice; come dire, dai Caraibi al Gange il mondo è mio.

Rabih Abou-Khalil ha una tecnica solistica spettacolare, in mano a lui l’oud non ha nulla di invidiare ai più veloci sprinter della chitarra, ma a fare veramente grande la sua musica è appunto questo misto di sapori internazionali, e la sua capacità di lasciare lo spazio, le luci delle ribalta ai vari compagni di viaggio. Blue Camel, come la maggior parte delle sue produzioni, è un album tutto strumentale, ma non c’è da spaventarsi: jazz e musica araba addolciscono a vicenda le rispettive asprezze, e mentre il primo dà una maggiore vivacità a situazioni un po’ monocordi e ripetitive, la seconda riempie il discorso di melodie affascinanti che subito entrano in testa. Ma il vero asso nella manica, per noi che la musica la ascoltiamo (anche) quando corriamo, è manco a dirlo nel ritmo. E mentre i singoli pezzi favoriscono la frequenza dei passi con il loro andamento ipnotico e costante, tra un pezzo e l’altro ci sono cambi di tempo che ben accompagnano un “lungo” (il disco supera abbondantemente l’ora). A un inizio medio-sostenuto seguono fasi più concitate, che si alternano a momenti di maggiore relax, ideali per farsi portare dal flusso della musica senza pensieri e senza sforzi. D’altra parte, cosa c’è di meglio di un fresco cammello blu per attraversare la calura del deserto, per correre attraverso la vampa d’agosto?

(Articolo uscito sul numero di agosto del mensile sportivo Correre)


Rimandati a settembre

Ma si fanno ancora, gli esami di riparazione, o sono stati assorbiti in qualcuna delle annuali riforme e controriforme scolastiche? O sono stati sostituiti dal sistema dei crediti (che poi chissà come nel passaggio dal mondo dell’istruzione a quello del lavoro si mutano in debiti – altro che finanza creativa)? Perché qui avrei una serie di rimandati a settembre, ma per carità, qualsiasi giudizio di valore è escluso: sono rimandati nel senso che non mi entravano in nessuna tournée, non diventavano tappe di nessuna Caravan, e quindi li rimandavo sempre. Rimandarli alle calende greche, o semplicemente a settembre? Now is the time!

Che poi un filo si trova, si trova sempre, ma alla fine, abbiate pazienza. E immergiamoci nell’operazione recupero. I primi che recuperiamo sono a loro volta dei recuperatori sommersi, gli speleologi, i palombari della musica. Eduardo Paniagua – che qualche mese fa qui si ebbe a definire un Savall non ancora star, e chi sa se mai tale augurio o sventura si avvererà – e i suoi compañeros si calano negli abissi dell’antichità per riportare alla luce liturgie ante-gregoriane. Stiamo parlando, per intenderci, di roba precedente all’anno Mille: da quando i Visigoti si installarono in Spagna nel 475, passando per lo splendore del periodo gotico cattolico – dal concilio Toledo III all’arrivo degli arabi (589-711) – e per la (non poi tanto) difficile sopravvivenza del culto cattolico sotto le dominazioni dei califfi islamici, fino alla riconquista che sarà completata solo nel XV secolo ma interesserà Toledo già nel 1085. Tutto questo solo per spiegare il titolo: Canto Visigotico-Mozàrabe (dove i mozarabi sono appunto i cristiani spagnoli sotto la botta dei musulmani). Per spiegare il sottotitolo (Santiago y la antigua liturgia hispana) invece ci dovremmo addentrare nella pleonastica ripetizione del troppo noto – il cammino di Compostela, Iago/Jacques/Giacomo e relativi excursus linguistico-gastronomici sulle varie denominazioni a seconda dei luoghi, e vari usi a seconda dei tempi, delle perciò dette capesante – e nelle spinose questioni teologiche e liturgiche. Troppo. E ancora non avremmo spiegato nulla: perché la fatica speleologica è questa, paradossale.

(Era l’incipit della mia rubrica Caravan, sul numero di settembre di Blow Up. Continua in edicola)

TAPPE PRINCIPALI

Eduardo Paniagua, Canto Visigotico-Mozàrabe. Santiago y la antigua liturgia hispana, Pneuma

Meredith Monk, Songs of ascension, Ecm

Teresa Salgueiro, O misterio, Sud Music