Pubblicato: 11 giugno 2019 | Autore: Dario De Marco | Archiviato in: Articoli | Tags: Adelphi, Black Coffee, bompiani, dai giornali, Esquire, libri, loredana lipperini, recensioni, rita bullwinkel, shirley jackson |
Il maschile, il forte, il grande, il sopra, il celeste, la luce, il sole, la realtà, la ragione, la logica, l’ordine, la scienza, il saggio e il romanzo, da una parte. Il femminile, il debole, il piccolo, il sotto, il terrestre, il buio, la luna, la fantasia, il sentimento, l’intuito, il caos, la magia, la poesia e il racconto, dall’altra. Riconoscere e utilizzare i simboli, le categorie contrapposte che sono alla base di molte religioni e sapienze tradizionali (della Filosofia perenne, direbbe Aldous Huxley con uno dei suoi scritti più profondi, e meno celebrati), conoscere e usare dicevo, non significa accettare supinamente – e politicamente, perché poi è lì che si va a finire.
Nell’ultimo periodo sono usciti vari libri con queste tre caratteristiche in comune: sono racconti, fantastici, scritti da donne. Che le tre caratteristiche siano poi naturalmente collegate si può pensarlo o meno – io lo penso – ma va fatto alla luce di quanto detto sopra: sono simboli, non stereotipi reazionari e altre fesserie tipo “la scrittura femminile”. Loredana Lipperini, giornalista culturale e voce di Fahreneit, tra un saggio e un romanzo, se n’esce con una raccolta di storie brevi intitolata Magia nera (Bompiani), addirittura recuperando materiali e spirito dalla sua alter ego fantasy, l’oscura e compianta Lara Manni.
(Continua su Esquire)
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Pubblicato: 23 dicembre 2016 | Autore: Dario De Marco | Archiviato in: Articoli | Tags: Anna Mioni, bompiani, dai giornali, novità, post-moderno, post-verismo, recensioni, Satin Island, Stati Generali, Tom McCarthy |
(0.1
Premesso che non si dovrebbe mai fare nessuna premessa, la premessa qui è particulare: il sovrascritto torna a pubblicare recensioni dopo un silenzio più che biennale. Non che importi sottolinearlo ai miei venticinque amici: loro lo sanno già, il perché e il percome. E per conto mio potevo starmene zitto almeno un altro bel po’. Penso piuttosto ai suoi venticinque lettori: di Tom McCarthy dico, del cui libro si va a parlare; ché lo scrittore londinese è tanto apprezzato in patria quanto misconosciuto qui. Satin Island è uscito qualche giorno fa in un clamoroso silenzio; ora qualcosa si muove: contribuisco con questi appunti sparsi, buttati giù in forma parassitaria, mimetica (il libro è scritto in brevi paragrafi numerati, così:))

1.1
U., protagonista e narratore di questa storia, lavora come antropologo di prestigio nel seminterrato di un’azienda. Un’azienda che in giro per il mondo vende – ad altre aziende, a governi ed enti pubblici, a se stessa – narrazione, storytelling, idee, immagini, fuffa. L’azienda vince l’appalto per un grosso progetto, lui fa ricerche per una Grande Relazione; c’è un’amica che lo chiama quando vuole scopare, c’è un amico che si ammala e muore, c’è U. che sbrocca. Fine.
All’epoca di questi fatti (fatti, seh! Se siete in cerca di quelli, meglio che smettiate di leggere subito)
1.2
L’antropologia come metafora dell’incomprensibile. Lévi-Strauss, citato a manetta, diceva che il mistero di una tribù o si riesce a penetrare completamente, e allora che barba, non c’è più sfizio; oppure non ci si capisce un cazzo, e basta. Tertium non datur. E se così è per la piccola tribù sperduta, perché per la grande tribù globale dovrebbe essere diverso?
1.3
Raccontare la realtà è raccontare la storia di uno che prova a raccontare la realtà. E fallisce. Questo, va da sé, è molto post-moderno. La cover mostra tutto quello che il libro avrebbe potuto essere, e non è; tutto quello che la Grande Relazione avrebbe dovuto essere, ed è.

1.4
Le storie e la Storia, nei libri di McCarthy. Uomini nello spazio era ambientato nell’Europa dell’Est, all’epoca delle rivoluzioni di velluto; C tra la fine dell’Ottocento il primo dopoguerra, era di scoperte scientifiche e invenzioni tecnologiche e rivelazione archeologiche. Uomini nello spazio era un intreccio labirintico, un delta fluviale di vicende separate, ma l’una simbolo dell’altra; C era più lineare, ma quasi sfiancante nella sua precisione autoptica. E Satin Island? Qui e ora. Forse.
La chiusura dello spazio aereo era annunciata a metà pagina, a fianco del camion bomba al mercato, e con un titolo della stessa dimensione
(Continua su Gli stati generali)
(0.2
Avrei voluto intervistare Tom McCarthy. Ma poi mi sono reso conto che l’unica domanda che davvero mi interessava fargli era: posso iscrivermi alla INS? (International Necronautical Society, il collettivo di artisti concettuali palesemente finto – i soli membri sono i due fondatori: McCarthy e il suo amico Simon Critchley – la cui ragione sociale è “do for death what the Surrealists had done for sex“))
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Pubblicato: 16 novembre 2013 | Autore: Dario De Marco | Archiviato in: Articoli | Tags: alessandro baricco, Andrea Bajani, Andrea De Carlo, bompiani, Bookcity, editoria, editoria a pagamento, exit strategy, feltrinelli, Gems, Giancarlo De Cataldo, Giuseppe Culicchia, Il mio libro, libri, Marco Montemarano, Massimo Troisi, Masterpiece, Matteo Galiazzo, Mondadori, Neri Pozza, self pugblishing, Taiye Selasi, writer's dream |
Ora, non è per citare sempre e comunque Massimo Troisi, ma più passa il tempo e più la sua battuta diventa una paradossale realtà: “Io sono uno a leggere, loro sono milioni a scrivere!”. In Italia si legge poco e si scrive tanto. Peggio: si legge sempre di meno e si scrive sempre di più. Prendiamo una qualsiasi statistica: le vendite del 2012 sono state inferiori a quelle del 2011 (meno 7%), che a loro volta erano in calo rispetto al 2010; e i primi mesi di quest’anno sono un’ulteriore precipizio. A leggere almeno un – dicesi uno – libro all’anno è meno di metà della popolazione, mentre i cosiddetti lettori forti sono appena il 6% degli italiani; e attenzione, per essere classificati in quest’elite basta aver letto un libro al mese (Rapporto sulla promozione della lettura, a cura del Forum del libro). Cambio versante: il mercato editoriale propone tra i cinquemila e i seimila titoli al mese, considerati tutti i settori. E restando solo nell’ambito della narrativa, più di trecento esordienti all’anno: uno scrittore nuovo ogni giorno; troppo, anche per l’apparato digerente più ferreo. Il tutto, senza contare le migliaia di aspiranti, quelli che scrivono e non riescono a pubblicare, ma vorrebbero tanto.
Siamo un popolo di scrittori, un popolo di non-lettori. Quanto più aumenta il divario tra quei due dati, tanto più il paradosso si fa evidente. Insomma: perché pubblicare (o aspirare a) se dall’altro lato non ci sta nessuno a leggere? Posto che coi diritti d’autore (1 euro circa a copia venduta, a meno che non hai vinto lo Strega) riescono a campare sì e no poche decine di best-selleristi, la molla è certo il soldo. Allora la fama, il prestigio. Ma anche lì: perché affannarsi a pubblicare un romanzo, quando bene che vada lo leggeranno cinquecento persone, di cui la metà sono amici, parenti e compagni delle elementari ripescati per l’occasione? È come se negli anni ’60, nel mezzo del boom economico e della diffusione dell’automobile come bene di massa, tutti si fossero messi a costruire e a vendere carretti e calessi. Mistero.
Che resta tale anche per gli addetti ai lavori. E così vorresti fare lo scrittore: il titolo del recente libro di Giuseppe Culicchia (per Laterza) lascia poco spazio ai dubbi, e molto al sarcasmo. Ma forse, come ha sottolineato Andrea Bajani in un grandissimo pezzo sul libro, e sui libri, forse non è solo colpa dei poveri illusi che vogliono entrare nel “dorato mondo delle lettere”.
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Pubblicato: 29 marzo 2012 | Autore: Dario De Marco | Archiviato in: Articoli | Tags: amore, bompiani, dai giornali, dante alighieri, Hamid Ziarati, iraq, la sposa ripudiata, libri, marocco, Mattino, Milan Kundera, Nicolai Lilin, novità, Ornela Vorpsi, recensioni, Samuel Beckett, scrittori migranti, Younis Tawfik |
(Articolo uscito il 22 gennaio 2012 sul Mattino di Napoli)

Younis Tawfik è uno scrittore italiano. Sì vabbe’, e io sono Napoleone. Già, italiano: perché è vero che è nato in Iraq e ci è rimasto fino a ventidue anni. Ma vive in Italia ormai dal ’79, si è laureato in letteratura italiana. E soprattutto: scrive in italiano. Questo è un fatto insolito per noi, storicamente popolo di emigranti e solo di recente terra di immigrazione: è il fenomeno dei migrant writers, che altre nazioni conoscono bene per cause storiche (il colonialismo), economiche, o di egemonia culturale (pensate all’irlandese Beckett o al ceco Milan Kundera che a un certo punto si sono messi a scrivere in francese). Da una decina d’anni la truppa dei nostri scrittori migranti s’è infoltita: ora va per la maggiore Nicolai Lilin, il ceceno-siberiano che sforna un libro all’anno, ma c’è l’iraniano Hamid Ziarati, l’albanese Ornela Vorpsi, e molti altri. Di questa schiera Tawfik è capofila, dato che il suo esordio, La straniera, risale al ’99 ed è stato, come si dice, un successo di pubblico e critica. Ora esce La sposa ripudiata, sempre per Bompiani.
Younis Tawfik spesso racconta che ha imparato l’italiano per avere il piacere di leggere la Divina Commedia in originale. Questo spiega molto del suo stile. Che è comunque uno stile strano: aver imparato se pur da studioso una lingua in età adulta, non è la stessa cosa che praticarla dalla nascita. Si sente un tocco alieno, una lieve sfasatura, per esempio dice: “era un giorno di metà novembre, oscuro”. Niente di sgrammaticato, ma niente che un madrelingua direbbe: eppure questo invece che infastidire, è il fascino della sua scrittura. Che risente anche della tradizione letteraria araba, eminentemente poetica: frequenti sono gli innesti di versi, sia da poesie classiche, sia da canzoni. Ma la lirica gioca anche un ruolo indiretto, e più pervasivo, nella prosa di Tawfik: quasi una prosa poetica, piena com’è di similitudini (“il silenzio l’assediava come branchi di bestie affamate”, ecco Dante) e passaggi intimisti.
Ibrido lo stile, ibrido e migrante anche il contenuto. Come spesso nei suoi romanzi al centro della trama c’è una storia d’amore, e vista dal lato femminile; come spesso la straniera non viene dall’Iraq ma dall’altro estremo del mondo arabo, il Marocco. La sposa del titolo, appena ripudiata dal marito, è in ospedale e sta partorendo. Ogni capitolo segue brevemente il travaglio e poi apre un lungo flashback. Si parte dall’infanzia marocchina, in un contesto più arcaico che bigotto, con il padre che si ubriaca e picchia moglie e figlie perché non riesce ad avere un maschio. Si vola in Italia sulle ali di un amore che presto si trasforma in un inferno di incomprensioni familiari, ostacoli di lingua e di temperatura, solitudine.
Poi la svolta: il marito, che si era convertito all’islam solo per accontentare i familiari della sposa, prende a frequentare la moschea, e in seguito le frange più estremiste, fino ad allontanarsi dalla moglie e diventare pedina di un gioco più grande. L’immigrazione, l’integrazione, la religione, il velo, il fondamentalismo, il terrorismo: tanti i temi di stringente attualità, quasi tutti, forse troppi. Ma è questa la realtà che viviamo. E per raccontarcela ci voleva uno straniero. Pardon, un italiano.
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