Danza/2: Barbiero-Cojaniz e i movimenti immaginari

babiero-cojanizIl binomio danza-jazz già sembra un controsenso. Quando si tratta di danza moderna e jazz sperimentale, poi, vi lascio immaginare. E immaginare è l’unica cosa che possiamo fare in questo caso: il disco infatti (Danza pagana, etichetta Splasc(h) records) è la registrazione di una performance dal vivo all’Open Jazz festival di Ivrea, in cui le percussioni di Massimo Barbiero e il pianoforte di Claudio Cojaniz accompagnavano il ballo di Giulia Ceolin. Solo che, appunto, si tratta di un disco, non di un dvd: i movimenti della protagonista, tranne che per le due o tre foto del booklet, sono lasciati alla nostra fantasia. E meglio così, perché gli occhi dobbiamo tenerli sulla strada. Ma l’energia della danza, che è suscitata dalla musica, a sua volta si è riverberata sui musicanti stessi, e questo si percepisce anche al solo ascolto. Partendo dalla seconda traccia (scelta consigliata, perché la prima è un po’ astratta) potrete sentire il ritmo anche nei passaggi più lenti e meditabondi: il ritmo, che in un insolito e riuscito scambio è spesso dato dal pianoforte, mentre le percussioni quasi cantano. Sorpresa: il jazz più spinto accompagna benissimo la corsa, anche quando si muove tra cover usuali o meno (Crepuscule with Nellie di Monk, un pezzo della Messa Tedesca di Schubert) e citazioni che vengono a galla nel mezzo di un’improvvisazione (i più fanatici riconosceranno ad esempio il ritmo sbilenco della balcanica Jovano). E il vostro movimento sarà tutt’altro che immaginario.

(Articolo uscito sul numero di novembre del mensile sportivo Correre)


Danza/1: il nuovissimo flamenco di Almoraima

almoraimaIl flamenco è una danza – e una musica – spagnola dalle chiare origini arabe (l’Andalusia è stata araba per quasi un millennio), dal ritmo complicato e dalle sonorità essenziali: chitarra, voce, percussioni rudimentali come nacchere e battito di mani. Già il grande Paco de Lucìa ne introdusse una versione moderna, con strumentazione allargata e spazio per l’improvvisazione, in stile quasi jazz. Gli Almoraima (e Almoraima è anche il titolo di un album del chitarrista spagnolo) partono dal Salento per ampliare ulteriormente il discorso. Amor gitano è stato il loro esordio nel 2010, ora è uscito Banjara (etichetta Anima Mundi). Saltando a pie’ pari la danza locale – l’ormai quasi obbligatoria pizzica – muovono dal flamenco con sicura competenza tecnica: si vede dalla perizia chitarristica del leader Massi, e dall’uso filologicamente corretto di molti tra i ritmi codificati (tangos, fandangos, bulerìa, soleà…). Da un lato poi recuperano le origini arabe, con le meravigliose percussioni mediorientali, dall’altro si connettono ad altre tradizioni iberiche, come la musica sefardita (ebrei di Spagna) e quella catalana. Infine, una spruzzata di rumba balcanica, e un’affascinante viola che regala all’ensemble un suono dolce e straniante. Il tutto suonato con una forza e una leggerezza che si trasmetteranno facilmente alla vostra corsa, rendendola ugualmente solida e lieve.

(Articolo uscito sul numero di novembre del mensile sportivo Correre)


Il sax afro-scandinavo di Ivan Mazuze

Dici Africa e ti si apre un mondo di suggestioni: i maratoneti a piedi scalzi, gli infaticabili campioni degli altipiani. Fascino, e sudditanza psicologica, complesso di inferiorità. Ma si sa, allargando lo sguardo, che alla storia l’Africa ha dato ben altro. Che quello che ha dato, le è stato preso con la forza. Prima milioni di uomini, ridotti in schiavitù e deportati nel nuovo mondo. Poi le immense ricchezze naturali, depredate dal colonialismo e dal capitalismo occidentale. Tra gli effetti collaterali di questa violenza secolare, ci sono perdite meno visibili ma altrettanto drammatiche: la devastazione di intere culture, di millenarie tradizioni. È il colonialismo culturale, in seguito al quale, per dire, mentre in Grecia si suona il rebetiko con il bouzouki, e in Libano la musica araba classica con l’oud, invece se vai in Congo lo strumento tipico è… la chitarra elettrica (!) e il genere musicale preferito è la rumba.

ivan mazuze

Per fortuna, c’è chi tenta di salvare quello che è rimasto, con uno studio teorico rigoroso ma anche con una pratica musicale spregiudicata: inserendo cioè vecchi canti e ritmi in contesti nuovi ed elettrizzanti. Vorrei oggi presentarvi un musicista straordinario, il campione olimpico delle note, l’Abele Bikila del sassofono: please welcome Ivan Mazuze. Mazuze è nato in Mozambico, si è laureato in Sudafrica, ora vive – strano ma vero – in Norvegia. A Città del Capo ha studiato non solo sax e clarinetto, ma anche etnomusicologia, in particolare specializzandosi nel rapporto tra musica e trance nei riti tradizionali. Ha pubblicato libri sulla materia, e scrive regolarmente sulle più accreditate riviste scientifiche del settore. È uno serio, insomma. Ma è pure un pazzo scatenato: notevole improvvisatore jazz, ha fondato uno dopo l’altro vari gruppi tutti tesi a integrare le radici africane con le sonorità afroamericane; volendo poi fare il musicista di professione, cioè il creativo e non solo lo studioso, ha pensato bene di fondare una propria casa di produzione ed etichetta discografica; dopo il primo album, Maganda, ha preso e si è trasferito a Oslo; insomma uno che non sta mai fermo.

Ora è uscito Ndzuti, un album che è un calderone ribollente di tutte le musiche che ha incontrato. La base è essenzialmente ritmica: non tribale ma piacevolmente moderna, e però si percepisce qualcosa di diverso, di ancestrale. Non è un disco jazz, piuttosto un disco di musica africana contemporanea, tanto orecchiabile quanto inconfondibile: anche se non si sente a prima botta, insomma, quel che fa la differenza è la ricerca, il recupero di particolari ritmi dall’Africa meridionale. Su questo sfondo si innestano vari spunti melodici: il canto tipico dell’Africa occidentale, Senegal e Costa d’Avorio, affatto diverso e peculiare, con il quale Ivan è entrato in contatto in quel di Oslo. Poi vocalizzazioni di stampo scandinavo, ma anche con qualche venatura latina. E ovviamente il jazz: ma idem qui, c’è quello groovy e ammaliante dei suoi sassofoni, mischiato con quello freddo e rarefatto del pianoforte norvegese, e ancora con quello ipercontaminato e globale del grandissimo Omar Sosa, pianista cubano e altro infaticabile catalizzatore di incontri tra mondi. Luce per la mente, trance per il cuore, carburante per le gambe. Che volete di più?

La scorsa estate il tour di Ivan Mazuze ha toccato anche l’Italia; magari avete avuto la fortuna di vederlo (io no), sennò si può recuperare ascoltando Ndzuti. Proviamo a mettere un po’ di continente nero in cuffia durante l’allenamento, magari un minimo della sua magia ci passa nella falcata. E se non diventeremo gazzelle africane, almeno sapremo perché.

(Questo articolo è uscito nel numero di ottobre del mesile sportivo Correre)


Pericopes, il coraggio del jazzista da giovane

pericopes_doublesidevol2-2013Ci vuole energia, per mettersi in moto. Ma ci vuole anche coraggio. È quello che non manca a due giovani musicisti italiani: Emiliano Vernizzi, sassofonista, e Alessandro Sgobbio, pianista. Già per fare jazz ci vuole tanta fiducia, non solo in se stessi ma anche nel mondo, che deve darti ascolto. (E sarà un caso che i due, ancora molto giovani, vivano e operino già più all’estero, tra Parigi e New York?). Una dose ulteriore di fegato ci vuole per mettere in piedi un progetto in duo secco, sax e piano, quanto di meno easy e commerciale si possa immaginare. (Eppure Pericopes, questo il nome, va raccogliendo premi, partecipazioni a festival e altri onori). Ma siamo alla follia se si pensa a qual è il frutto di questo lavoro: nell’era della smaterializzazione e degli mp3, non un disco semplice ma un doppio, The Double Side, che in realtà sono proprio due dischi separati. (È la stessa follia che porta un cinquantenne sedentario a mettersi le scarpette e sognare di correre una maratona, per dire). Ma se consigliamo questa musica non è solo per le evidenti analogie con il nostro mondo di corsa. È proprio per la musica in sé, che dietro un’apparenza ostica e rigorosa rivela mille sfaccettature, di ritmi e di melodie. (Tra i due, in particolare indicheremmo il disco Lights, solare e ottimista, lasciando in ombra l’altro, Shadows). Il corridore musicofilo ne valuterà le sfumature d’origine controllata; lo sportivo coraggioso, tanto meglio per lui, ne apprezzerà i vantaggi direttamente nelle gambe.

(Articolo uscito sul numero di settembre del mensile sportivo Correre)


The power of the trio

brainkillerStavolta facciamo una prova: allarghiamo lo sguardo, allunghiamo i tempi. Tre dischi al posto di uno: tre gruppi insoliti, tutti da scoprire; tre tipi di musica diversi, ma con molte cose in comune. A partire dal numero dei musicisti: indovinate? Esatto, tre. Il trio è una strana bestia: senza il respiro ampio del collettivo che hanno i gruppi dai quattro elementi in su, da un lato; e senza la corrispondenza d’amorosi sensi, il dialogo telepatico che si stabilisce nel duo, dall’altro. Quando poi la potenza di fuoco espressa dall’esile manipolo eguaglia e supera quella di un intero battaglione orchestrale, si usa parlare di power trio: tali furono la Jimi Hendrix Experience, o i Cream di Eric Clapton con Baker e Bruce. E ben calzano questi richiami, perché i trii di cui stiamo per parlare, benché di estrazione jazz, hanno molto del rock, del potere, della potenza. Altro elemento in comune, l’insolito accostamento degli strumenti: perché normalmente il trio si basa su una solida e fissa sezione ritmica di basso&batteria, su cui poi lo strumento solista fa leva, primeggia, e determina il carattere (pianoforte nel trio jazz, chitarra elettrica nel rock, sax o altro nelle combinazioni più avanzate). Qui invece in tutti e tre i casi vengono rimescolate le carte in vario modo, ma con la presenza fissa della batteria, e con l’assenza fissa del basso, consentendo gli accrocchi più insoliti tra fiati, tastiere e sei corde. Ulteriori trait d’union: sono tutti dischi che travalicano i generi e mescolano le influenze; sono stranamente composti da pezzi di breve durata, insomma non si abbandonano a interminabili esibizioni muscolari; sono in maggior parte strumentali, e curiosamente dove appaiono inserti cantati, la voce è più un elemento di disturbo e straniamento che di orecchiabilità.

Eponymous-230x230Quanto detto vale per tutti e tre, ma vediamoli ora nel dettaglio, con il consiglio di ascoltarli di fila e nell’ordine indicato: faranno da sottofondo a un magnifico “lungo” in tutto il suo dolore e la sua gloria. Si parte con i Brainkiller, Colourless Green Superheroes (RareNoise Records), che sono Jacob Koller al piano e Fender Rhodes, Brian Allen al trombone ed Hernan Hecht alla batteria. Ed è una partenza bella vivace come si conviene: un torrente di idee e situazioni, un fuoco d’artificio continuo, che prende dai vari generi quanto offrono di più creativo e stimolante. Il jazz moderno, in particolare quello più geometrico e ragionato del progressive; il rock anni ’70 con i suoi sfrenati programmi e le sue fredde incazzature (a volte sembra di sentire i secondi King Crimson); le avanguardie classiche; le suggestioni dance elettroniche. Ogni tanto il ritmo ha come delle tachicardie, delle extrasistole, dei salti di battito; il che ci porta diretti alla parte centrale della nostra corsa, al secondo cd della nostra sequenza. Hobby Horse, Eponymous (Parco della Musica Records), ovvero Dan Kinzelman e Joe Rehmer, americani residenti in Umbria, e Stefano Tamborrino, batterista di Firenze. Dei tre, è il trio più jazz, più tendente all’improvvisazione, all’instabilità: un suono che in certi momenti sembra sul punto di frantumarsi, di disgregarsi e perdersi; proprio come nel bel mezzo di un allenamento, a traguardo ancora lontano, le forze sembrano smarrirsi, le gambe cedere. Ma poi la forza di volontà, l’esperienza e l’energia hanno la meglio: perciò anche il free, il rumorismo acquistano un senso, perché proprio come la sofferenza fisica non sono fini a se stessi, ma funzionali a proseguire la corsa.
Che infatti continua con rinnovata lena grazie a Third Reel, Third Reel (Ecm), cioè Nicolas Masson sax e clarinetto, Roberto Pianca chitarra, Emanuele Maniscalco batteria. Un perfetto trio alla pari; uno splendido album che inizia in maniera abbastanza sostenuta e scattante, per poi addolcirsi man mano, sfumare in atmosfere più tipicamente Ecm, senza mai perdere mordente ma accompagnandoci morbido verso la fine dell’allenamento, quando ormai il peggio è passato, e si è sempre più in pace con se stessi, sempre più leggeri.

(Articolo uscito sul numero di agosto del mensile sportivo Correre)


Accompagnamento Sodo

sodoMusica nata per accompagnare. Guido Sodo è leader e anima dei Cantodiscanto, uno dei gruppi più interessanti – anche se dalla produzione ahimé troppo rada – dell’etno-fusion all’italiana: dalle tradizioni del nostro sud al Mediterraneo fino all’ovunque. Esperando sono (Materiali Sonori) è un disco a nome solo suo, in cui però si ritrova facilmente la stessa varietà d’ispirazioni. È una raccolta di brani composti in diverse situazioni, tutte però accomunate dalla caratteristica di essere legate al teatro, al suono in funzione di altro: come accompagnamento, colonna sonora, in scena o meno, dal vivo o meno, di pièces e allestimenti e spettacoli. Canzoni d’autore e cantate popolari, trombe jazz su ritmi etnici, spruzzi d’elettronica. Musica che travalica i generi, ma che travalica anche la musica: verrebbe da dire quasi d’ambiente, nel senso più artistico e meno parassitario del termine. I pezzi cantati hanno un insolito taglio spiritoso o bizzarro; poi, soprattutto nella seconda parte, Sodo canta poco, il che non ce ne voglia ma è un bene, essendo più che l’interpretazione e la vocalità, la composizione e l’organizzazione il suo punto forte. Così negli strumentali la fantasia prende il volo, e la corsa idem. Divertente e piacevolmente vario, ottimo per un ascolto attento sul divano di casa, quanto eccellente come accompagnamento di un allenamento leggero e defatigante.

(Articolo uscito sul numero di agosto del mensile sportivo Correre)


Playlist della maratona

  1. Bruce Springsteen Born to run
  2. Samuele Bersani Il maratoneta
  3. Doors Not to touch the earth
  4. Mulatu Astatke Ethio Blues
  5. NCCP Tammurriata Alli Uno
  6. Muddy Waters Mississippi delta blues
  7. Rabih abou khalil A Gracious Man
  8. Sidney Bechet On The Sunny Side Of The Street
  9. Caetano Veloso e Gilberto Gil Nossa Gente
  10. Canzoniere Grecanico Salentino Ahi lu core meu
  11. Pink Floyd Run Like Hell
  12. Paolo Conte Max
  13. John Coltrane A love supreme
  14. Franco Battiato Prospettiva Nevski
  15. Nusrat Fateh Ali Khan Allah Hoo
  16. Rino Gaetano Nuntereggaepiù
  17. Naked City Grand Guignol
  18. Naked City Speedfreaks
  19. Queen We Are The Champions

(Per ascoltare clicca QUI)

Si parte subito, e con grande entusiasmo, perché la maratona non è una gara: è una festa, è una vita, e noi siamo nati per correre, quindi banalmente sarà il Boss a darci lo start (Born to run). La solita allegoria di Bersani (Il maratoneta), l’insolita allegria dei Doors (Not to touch the earth, dove Jim canta “nothing left to do but run run run”, non ci resta che correre): si inizia sotto i migliori auspici, e allora facciamoci benedire dagli etiopi che in materia sono maestri (Ethio blues). Ma non è passato molto tempo che inizia a farsi sentire la fatica, che la resistenza viene messa alla prova, e allora saranno appropriati i canti di lavoro e di sudore dai campi di tutto il mondo (blues, tammurriata), finché con Rabih Abou-Khalil ci sembrerà di stare nel deserto. La rapidità del jazz delle origini (On the sunny side of the street) e il ritmo sanguigno della pizzica ci fanno superare il momento di difficoltà. C’è da correre come pazzi (Run like hell) con i Pink Floyd, ma ecco che un altro nemico è in agguato, la ripetitività, l’ingresso in un mondo di percezioni che confonde lo spazio e il tempo, e sembra di sentire sempre la stessa frase all’infinito (Max). A un certo punto inizia il delirio: arrivano le visioni mistiche (A love supreme), cominciamo a pensare per immagini sconnesse come Battiato, addirittura preghiamo divinità sconosciute (Allah hoo). Un ultimo momento di lucidità per ridere del nostro stesso sfinimento (Nuntereggaepiù) e poi la parte più dura: lo stomaco sottosopra, i piedi che si spaccano come in un horror, il tempo che si dilata come negli incubi (le improvvise sfuriate di suoni alternate al silenzio mortale di Grand guignol). Infine, come nel momento estremo, tutta la vita ci passa davanti in 50 secondi (Speedfreaks). E poi però si arriva. Si chiude, trionfalmente, e con un’altra banalità, ma la gioia va al di là della retorica: We are the champions, perché essere campioni non significa essere i migliori del mondo, ma dare il meglio di se stessi. E in quello non ci batte nessuno.

(Testo che accompagna la playlist di luglio del mensile sportivo Correre)


String Sharper, band d’archi

string sharperChe il rock potesse assumere mille forme, comprese quelle all’apparenza graciline della strumentazione classica, lo sapevamo almeno dall’epoca dei Quintorigo. Che il quartetto d’archi potesse avere diecimila incarnazioni, oltre la musica colta per prendere vita in corpi pop e jazz e avant ed etnici, ce l’hanno insegnato per primi quelli del Kronos Quartet. Ma vedere il miracolo che si rinnova mette sempre stupore, e allegria. String Sharper Quartet viene da Palermo, incide per la piccola e meritoria Fitzcarraldo Records, l’album si chiama Blending. Quartetto un po’ anomalo perché oltre ai due violini e al violoncello presenta, invece della viola, il contrabbasso: e questo dà all’insieme un suono più profondo e un’attitudine più ritmica. Ma la sua particolarità è il repertorio: vario però di impronta schiettamente moderna. Ci sono due pezzi-bandiera dei Radiohead (Just e l’inevitabile Paranoid Android), il singolo che trent’anni fa portò al successo il cantante new wave Gary Numan (Cars), e anche quando si vira verso più raffinate atmosfere jazz-brasiliane la scelta cade sulla rivisitazione danzereccia di Egberto Gismonti (Frevo). Sulla stessa scia sono i tre pezzi originali firmati dalla band, pardòn dal quartetto. Tutti brani incalzanti, brevi, che non lasciano il tempo di pensare o di respirare. Perché se si può fare rock in queste condizioni, allora si può correre in tutte le condizioni.

(Articolo uscito nel numero di luglio del mensile sportivo Correre)


L’Ulisse di Potter

chris-potter-the-sirensAltre fughe, altro movimento perpetuo. Il mito di Ulisse, uno dei più antichi nella storia dell’umanità. E che nel corso della storia ha ispirato infinite narrazioni ed espressioni artistiche. Da ultimo, questo The Sirens, del sassofonista Chris Potter. Un viaggio, un continuo mutare di atmosfere musicali e paesaggi sonori, in cui vediamo scorrere tutti gli episodi e i personaggi a noi noti: Calipso, Penelope, Nausicaa, ovviamente le sirene, il mare color del vino, l’alba con le sue rosee dita. Un viaggio in cui il quarantenne jazzista americano, al suo primo album solista targato Ecm, come il re di Itaca è accompagnato da gente fidata: una strana coppia di tastiere (Craig Taborn al piano e David Virelles a piano preparato, celeste e harmonium) e una sezione ritmica fantasiosa ed esplosiva (Larry Grenadier al contrabasso e Eric Harland alla batteria). Un mutevole paesaggio sonoro, ma con delle costanti che si esaltano ancora di più nell’ascolto in cuffia e nella corsa: l’attenzione alla melodia, alla poesia degli strumenti, e il ritmo, sempre diverso e sempre stimolante. Per non fermarsi mai. Perché anche Ulisse tornò a casa, dopo una maratona di dieci anni. Poi però, dicono, partì un’altra volta.


Caravaggio, l’arte della fuga

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Caravaggio. Una vita di corsa. Prima in fuga dalla peste, poi a trionfali falcate verso l’arte e la gloria, infine di nuovo scappando dalla mano del boia e dalle conseguenze della propria violenza omicida. Caravaggio. A lui si è ispirata la danza, corpi e luci e ombre come nei suoi dipinti, ma in movimento: il Balletto Teatro di Torino, con uno spettacolo che ha debuttato vari anni fa e che gira ancora. Ma per mettere in moto corpi e ombre, per passare dal quadro al ballo ci vuole una cosa: la musica. Caravaggio. Ecco il titolo dell’ultima incisione di Giovanni Sollima, rielaborazione delle musiche per quel balletto. Arte, teatro, danza e musica, in un turbinio di stimoli per la mente e per le gambe.

Giovanni Sollima – cinquant’anni, palermitano – è violoncellista e compositore: musicista talmente indefinibile da essere comprensibile, talmente strano da essere alla portata di tutti. Di formazione e impostazione classica, chiaro. Ma già cresciuto in quell’humus che ha svecchiato la composizione contemporanea spalancando le porte delle più muffite stanze di Conservatori e sale da concerto. Quell’humus ha un nome: minimalismo. Dopo che la musica classica era diventata fredda, astratta, indecifrabile, il minimalismo riportò il gusto per la melodia, per la leggibilità. Anche se era una melodia incantata in strutture minime, appunto, basata sulla ripetizione ipnotica di poche e semplici idee. È un ritorno all’antico – ché sulla ripetitività, sulla costruzione ciclica è basata tutta la musica popolare da che mondo è mondo. E contemporaneamente un’apertura al moderno, alla semplicità del rock. Ma Sollima viene su quando il minimalismo ha già fatto il suo tempo, ha già dato il meglio di sé. Anzi, è in fase declinante, deve subire la reazione come tutte le cose che sono divenute troppo di moda. Infatti se proprio si vuole definire il suo genere, spesso lo si trova associato al termine post-minimalista. In sostanza lui, invece di rinnegare le conquiste del minimalismo, le ha metabolizzate e ha proseguito su quella strada. Ampliando ancora di più gli orizzonti verso il rock, il jazz, la world e qualsiasi altra cosa – vecchia o nuova, alta o bassa – gli sia utile. Altra caratteristica: oltre a rompere gli steccati di genere musicale, ha spesso scavalcato i recinti che delimitano gli ambiti artistici, estendendo le sue collaborazioni alla letteratura, al teatro, alla danza. Come in questo caso.

sollimaIn questo caso (Caravaggio, Sonzogno/Egea 2012) il punto di partenza su cui ha lavorato è stata una suggestione visiva: in alcuni dipinti di Caravaggio ci sono degli spartiti. Non degli strumenti, ma proprio della musica scritta. Da lì Sollima è risalito all’autore, il fiammingo Jacob Arcadelt, recuperandone alcuni brani (Voi sapete ch’io v’amo, Flagellatione). Naturalmente sono riadattati, e naturalmente ci sono dei pezzi nuovi, anzi sono la maggior parte. Un’altra suggestione è stata quella del violino tenore, strumento presente nei dipinti caravaggeschi, e oggi praticamente scomparso. Sollima se l’è fatto ricostruire dal liutaio di fiducia. E lo affianca ai suoi soliti violoncello, violoncello elettrico e manipolazioni elettroniche. Tutto questo anticume, tutte queste attitudini sperimentali, non ingannino: il disco fin da subito scorre, anzi travolge. Sarà che doveva far muovere i ballerini, ma poche note e pochi strumenti riescono a dare il ritmo, e a mantenerlo elevato. Non mancano le dissonanze e i passaggi difficili, ma valgano come frustate quando la tranquillità dell’abitudine rischia di trasformarsi in fiacca. E invece bisogna andare avanti, sempre avanti. Di corsa, come Caravaggio. Senza l’ansia, si spera, dei suoi delitti. Ma con la stessa grazie della sua arte.

caravaggio amore vincitore

(Articolo uscito sul numero di giugno del mensile sportivo Correre)