L’ultima carovana

Narrano gli uomini degni di fede (ma Allah sa di più) che nei tempi antichi ci fu un re delle isole di Babilonia che riunì i suoi architetti e i suoi maghi e comandò loro di costruire un labirinto tanto involuto e arduo che gli uomini prudenti non si avventuravano a entrarvi, e chi vi entrava si perdeva. Quella costruzione era uno scandalo, perché la confusione e la meraviglia sono operazioni proprie di Dio e non degli uomini. Passando il tempo, venne alla sua corte un re degli arabi, e il re di Babilonia (per burlarsi della semplicità del suo ospite) lo fece penetrare nel labirinto, dove vagò offeso e confuso fino al crepuscolo. Allora implorò il soccorso divino e trovò la porta. Le sue labbra non proferirono alcun lamento, ma disse al re di Babilonia ch’egli in Arabia aveva un labirinto migliore e che, a Dio piacendo, gliel’avrebbe fatto conoscere un giorno. (…)

Carovana speciale, questa. Proprio come tutte le altre. E, come tutte le altre, si muove tra due estremi, due paradigmi opposti per significato e uguali per importanza. Il labirinto e il deserto. Il minuscolo e l’immenso, la costrizione e l’assenza di barriere. L’umano e il naturale, l’artificioso e il semplice, il cerebrale e l’istintivo. Sono stati (sono) due fari. Quante volte abbiamo (ho) scritto: una musica sospesa tra delirante modernità e solida tradizione, tra avanguardia e antichità, tra cultura e natura. Ma il punto non sono i punti, di partenza o di arrivo, bensì il viaggio: come i cammelli ben sanno, anzi ci insegnano. Parte allora questa Caravan speciale. Più speciale delle altre, perché non fa un giro, ma va in linea retta, senza tornare indietro. In che senso, lo scopriremo solo alla fine. O dopo la fine. (…)

TAPPE PRINCIPALI

Klaus Paier & Asia Valcic, Silk Road, Act
Eleni Karaindrou, Concert in Athens, Ecm
Slobber Pup, Black Aces, Rare Noise records
Jorge Luis Borges, I due re e i due labirinti

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Non so cosa altro dire. Se non invitarvi a mirare per l’ultima volta la carovana, finalmente uscita dal labirinto, che s’inoltra fra le dune di sabbia, e punta dritta verso l’orizzonte sfocato, ormai si riescono a scorgere solo le punte dei turbanti, neanche più le gobbe dei dromedari. Ebbene sì, miei duevirgolacinque lettori, Caravan è al capolinea, dopo ventuno tappe di onorata carriera vi saluta per sempre, ma ricacciate in saccoccia lu muccaturo, for favor, non è niente di personale, l’addio è alla rubrica, non all’autore, restate intonati, che farà ritorno.

(…) Poi fece ritorno in Arabia, riunì i suoi capitani e guerrieri e devastò il regno di Babilonia con sì buona fortuna che rase al suolo i suoi castelli, sgominò i suoi uomini e fece prigioniero lo stesso re. Lo legò su un veloce cammello e lo portò nel deserto. Andarono tre giorni, e gli disse: «Oh, re del tempo e sostanza e cifra del secolo! In Babilonia mi volesti perdere in un labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri; ora l’Onnipotente ha voluto ch’io ti mostrassi il mio dove non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo». Poi gli sciolse i legami e lo abbandonò in mezzo al deserto, dove quegli morì di fame e di sete. La gloria sia con Colui che non muore.

(Erano l’inizio e la fine della mia rubrica Caravan, su Blow Up di giugno)


Batteristi/1: la neo-fusion di Haffner

Layout 1Certo è un’ovvietà, ma non ci stancheremo di ripeterla: la musica, nella sua origine (prei)storica e nella sua profonda essenza, è ritmo; il movimento, la corsa, è ritmo. Perciò ci ritroviamo a parlare, spesso e involontariamente, di batteristi e percussionisti. Ma altrettanto spesso, sono artisti che vanno al di là della pura espressione tecnica, del virtuosismo nel drumming, per aprirsi e sperimentare. Come nel caso di Wolfgang Haffner, batterista tedesco dalle tante e varie collaborazioni, che da anni si è dato alla composizione e ha incorporato nel proprio armamentario l’elettronica. Heart of the matter è un disco in cui – accompagnato da tromba, tastiere, basso e chitarra, più sporadici inserimenti di voci e altri strumenti – il ritmo, la spinta al movimento, la fa da padrone. Ma soprattutto domina la varietà dei temi e dei toni: il jazz-rock dei begli anni ’70, i suoni sintetici attuali, uno spruzzo di progressive, un tocco esotico di world music, un accenno al canzoniere americano contemporaneo (Lionel Richie, Artie Butler). Il tutto però non fa contrasto, ma è ben amalgamato e livellato in un sound complessivo gradevole e senza picchi: se trent’anni fa l’incrocio tra jazz e pop diede vita alla fusion, oggi l’unione di nu jazz e pop elettronico potremmo benissimo chiamarla neo-fusion.

(Articolo uscito sul numero di gennaio del mensile sporticvo Correre)


Ulf Wakenius, vagabondo svedese

Ulf Wakenius, Vagabond, Act

Musica in movimento: fatta da chi si muove, per chi si muove. Ulf Wakenius è un chitarrista svedese, tra le altre cose è stato membro di una delle ultime incarnazioni del quartetto del leggendario Oscar Peterson. Wakenius ha intitolato questo suo disco Vagabond (Act), per significare il nomadismo fisico del jazzista, sempre in tour. Ma anche il nomadismo musicale che l’artista curioso con la sua chitarra acustica sperimenta. E quindi innanzitutto le cover: del collega di strumento Attila Zoller (Birds and bees), di Keith Jarrett (Encore), del tastierista del Pat Metheny group Lyle Mays (la brasileggiante Chorinho), del sassofonista nativo-americano Jim Pepper (il pezzo-manifesto Witchi Tai To), addirittura dei Police (una stralunatissima Message in a bottle). Ma soprattutto le influenze etniche più varie, e qui i titoli parlano da soli: Bretagne, Breakfast in Baghdad, Song for Japan. Un jazz quindi piacevolmente ibrido, poco virtuosistico e molto melodico. Che grazie all’accompagnamento della fisarmonica e a una ritmica presente ma delicata, è l’ideale per un allenamento soft, o per chi gradisce un sottofondo poco invasivo, o per chi – beato lui – corre in luoghi naturali e silenziosi.

(Articolo uscito sul numero di giugno del mensile sportivo Correre)


Songs of freedom, le cover preferite di Nguyên Lê

Nguyên Lê, Songs of freedom, Act

E a proposito di playlist: ecco una bella compilation rock già pronta per essere infilata nel lettore. Ce la suona Nguyên Lê, formidabile chitarrista franco-vietnamita, molto stimato nell’ambiente “di ricerca” perché da anni propone un misto di jazz, suggestioni world e sperimentazioni elettroniche. Qui applica lo stesso metodo, ma al rock: prende i suoi hit preferiti di tutti i tempi e li risuona con piglio deciso. Pochi vezzi intelletualistici: sono davvero tra le canzoni più belle, che hanno lasciato il segno nella storia. E se si escludono l’inizio e la fine a firma Beatles (Eleanor Rigby, Come Together) e due stravolgimenti di Stevie Wonder (I Wish, Pastime Paradise), sono anche tutti di gruppi abbastanza tosti, a testimonianza delle predilezioni hard del chitarrista: omaggiati i Led Zeppelin (Black Dog, Whole Lotta Love), Janis Joplin (Mercedes Benz, Move Over), i pezzi-bandiera di Cream (Sunshine of Your Love), Iron Butterfly (In A Gadda Da Vida), Bob Marley (Redemption Song). Suonate da un power quartet che la presenza del vibrafono non rende etereo e sognante, le cover non sono né irriconoscibili né troppo uguali agli originali. E con il plus di una sarabanda di percussioni, per 70 minuti con le ali ai piedi.

(Articolo uscito sul numero di aprile del mensile sportivo Correre)