Così filtravano. La meravigliosa storia dello specchio Claude, Instagram prima di Instagram
Pubblicato: 22 marzo 2021 Archiviato in: Articoli | Tags: art border line, arte, artslife, Specchio Claude Lascia un commento
Torneremo a viaggiare, prima o poi. Torneremo a contemplare panorami stupendi, torneremo rimirare siti archeologici sbalorditivi. E torneremo a guardare male i “turisti”, quelli che rovinano tutto con i loro comportamenti inopportuni. In particolare, quelli che non si sanno godere l’attimo, non vivono nel presente, ma stanno costantemente con un aggeggio – macchina fotografica o smartphone che sia – in mano. O quelli che osano pensare di migliorare la perfezione della Natura con un filtro Instagram. Torneremo a lamentarci dei tempi moderni, senza sapere che tutto questo è già successo una volta.
La storia dello specchio Claude è una storia di arte e tecnologia, turismo e politica, natura e cultura. Soprattutto, è una storia molto curiosa e poco conosciuta: vale la pena raccontarla.
Tutto inizia con Claude Gellée o Gelée, nella nativa Francia detto anche “le Lorrain”, da noi italianizzato in Claudio Lorenese, e in Inghilterra noto semplicemente come Claude. Era un pittore del XVII secolo (nacque nel 1600 e morì nel 1682, a Roma) attivo fin da giovanissimo in Italia, considerato “il maestro nel genere del paesaggio ideale”. Ritraeva paesaggi in una luce soffusa, crepuscolare, e rovine di epoca romana che si stagliavano nella natura selvaggia. Tutta un’estetica artificiosa e un po’ decadente, che piaceva tanto, all’epoca, e ancora di più nel secolo successivo. Tanto che qualcuno s’inventò questo specchietto portatile, che rendeva la realtà simile a un dipinto di Claude Lorrain: di qui il nome di specchio Claude.
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Come le fake news hanno ammazzato la post verità
Pubblicato: 9 gennaio 2021 Archiviato in: Articoli | Tags: art border line, artslife, dai giornali, fake news, media Lascia un commento
“La verità amico mio è noiosa”, diceva il protagonista di un vecchio film di Sorrentino. Figuriamoci la post verità. Forse è per questo che non se ne parla quasi più. Il termine “post truth” iniziò a circolare qualche anno fa – in relazione alla diffusione di notizie false e di supposte manipolazioni dell’opinione pubblica tramite internet e i social media – insieme a quello di “fake news”: all’inizio le due espressioni viaggiavano appaiate, ed erano usate in maniera interscambiabile, come se fossero sinonimi. Non lo sono affatto, ma l’idea che è passata è quella. Anzi: dopo un po’ il termine “post verità” ha iniziato a circolare sempre meno, mentre quello di fake news è andato sulla bocca di tutti. Vuol dire che non era un concetto valido? Al contrario: vuol dire che è talmente pervasivo da essere diventato l’acqua in cui nuotiamo. E il fatto che non se ne parli sta qui a dimostrarlo.
Lo strapotere delle fake news…
Per alcuni, non si dovrebbe parlare neanche di fake news. Segue il poco stimolante dibattito sulla novità del concetto: le bufale sono sempre esistite, ci sono sempre state notizie false messe in giro ad arte per scatenare reazioni, o sopirle, così come ci sono sempre state le leggende metropolitane, le superstizioni, le fesserie. C’è stata sempre la propaganda: non ricordo chi, diceva che la storia andrebbe studiata leggendo i giornali delle nazioni che stanno perdendo una guerra, giornali che raccontano una serie di trionfi completamente inventati, finché i cittadini non si ritrovano i carrarmati sotto casa. Ora, io non sono un amante del termine fake news, e inoltre tendo a vedere in ogni fenomeno più la continuità che l’innovazione a tutti i costi, ma bisogna ammettere gli elementi nuovi: la tecnologia e l’uso sistematico, pervasivo. Se il comunismo era il socialismo più l’elettricità, le fake news sono la propaganda più il web 3.0.
Altro punto spesso oggetto di controversia, inane: le fake news sono veramente in grado di modificare la realtà? E giù studi che dimostrano tutto e il contrario di tutto: che senza gli eserciti di troll e profili fake che ticchettano incessantemente in un oscuro scantinato di qualche paese est europeo, la Brexit non ci sarebbe mai stata e Trump non avrebbe vinto le elezioni; che, viceversa, l’inondazione di fake news non ha avuto alcun influsso sul pensiero e sul voto della gente, spostando al massimo lo 0,5%. Tutte analisi che mancano il punto, perché si concentrano su metriche meramente quantitative, e non guardano al quadro di riferimento.
Poi ci sono le analisi qualitative e terminologiche, i distinguo, appena più interessanti: la differenza tra disinformation e misinformation, manipolazione e omissione, errore materiale e trolling. Il fatto è che ormai “fake news!” è diventato un mantra, una cosa che si dice per mettere fine a una discussione, un po’ come l’espressione “è vecchia” che si usava quando stavo alle medie. È un’arma no, non a doppio taglio, ma con un doppio manico: prova ne sia che Donald Trump, il maggior beneficiario dell’inquinamento del discorso politico, ha passato i 4 anni di presidenza ad accusare gli altri, tipo il New York Times e altri giornaletti parrocchiali del genere, di propalare fake news. Il bue che dice cornuto all’asino (o al cervo?). Ancora una volta, fissarsi nell’osservazione dei dettagli fa perdere di vista la cornice: e la cornice è quella della post verità.
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Cibo
Pubblicato: 3 gennaio 2021 Archiviato in: Articoli | Tags: art border line, arte, artslife, cibo, dai giornali Lascia un commento
Il cibo è arte? O meglio, il cibo può essere arte? La domanda mi appassiona da sempre, no non è vero, non me n’è mai fregato granché, ho cercato di sfuggirla più che ho potuto, fino a che non me l’hanno posta direttamente, e allora sono stato costretto a pensarci.
Il fatto è che qui vorrei parlare, di tanto in tanto, anche di cibo. Perché la gastronomia è vita quotidiana e politica, innovazione tecnologica e cultura; più banalmente, perché è uno dei campi in cui sono un po’ meno ignorante. Sono ignorante assai in arte, l’ho detto subito, dal punto di vista tecnico; ma il discorso sull’arte incrocia il discorso sul mondo, in ogni suo punto: compresa la tavola.
Perciò, quando un collega mi ha chiesto – e non facendo due chiacchiere al bar di Facebook, ma addirittura per un’intervista – se per me l’alta cucina, il cosiddetto fine dining, fosse un’arte o meno, la prima cosa che mia venuta in mente è stata: ma che cavolo (pun intended) ne so, io. La seconda cosa che mi è venuta in mente, è stata un’espressione: “arte plastica effimera”. E gli ho scritto quanto segue.
Arte plastica effimera. Queste tre semplici parole furono un’agnizione, mi aprirono una visuale completamente diversa, quando le sentii la prima volta da Piercarlo Grimaldi, antropologo culturale ed ex rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche. Lui in verità parlava del pane, e di altre forme di elaborazione gastronomica tradizionale, come gli agnolotti del plin, dove la manualità artigianale sembra toccare vette estetiche elevatissime. E allora, se si può parlare di arte per i cibi popolari, a maggior ragione si dovrebbe per il fine dining, no?
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Piacere, e AD10S
Pubblicato: 23 dicembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: art border line, arte, artslife, dai giornali, libri, maradona Lascia un commentoIo non so nulla di arte. Davvero, non è falsa modestia: non sono affatto un esperto, anzi si può dire che di arte non ci capisco un’acca. Non so neanche cosa sia, l’arte. E d’altro canto, chi è che lo sa, con precisione? Chi potrebbe definire l’arte? All’arte si adatta perfettamente quello che Sant’Agostino diceva del tempo: se nessuno me lo chiede, so che cos’è; se dovessi spiegare a chi me lo chiede, non lo so più. È arte una venere paleolitica, o è solo religione? È arte un pisciatoio rovesciato, o è solo provocazione? È più arte quella di Manzoni o quella di Manzoni? L’arte è nell’occhio di chi guarda, o nella mano di chi crea? Questioni spinose, e annose (e anche un po’ noiose). Dare una risposta non è impossibile: è inutile. Ma soprattutto non chiedetela a me: ve l’ho detto che non sono un esperto. Bene, ma allora che ci stai a fare qui? Ve lo dico subito.
L’arte mi appassiona, mi interroga – come tutte le cose che non capisco, proprio perché non le capisco – mi riguarda. Soprattutto l’arte astratta, le avanguardie, il contemporaneo, il concettuale, il performativo, l’immersivo: quelle cose cioè che stanno sul confine, forse proprio perché sono opere ibride, più da pensare che da guardare. E mi stupisce che siano quelli ignoranti come me ad avversare certa arte, a dire “lo potevo fare anch’io” invece di “lo capisco anche io”, parla di me.
Se l’arte ha un confine, una border line, è però una frontiera porosa, permeabile, è una linea mobile, elastica. L’arte può fagocitare qualsiasi cosa del mondo, anche la più refrattaria; e qualsiasi cosa al mondo può invadere il campo dell’arte. In queste righe, in questa rubrica che si chiama appunto Art Border Line, arrivo come un outsider, come un esule, come un alieno: mando dispacci dall’altro lato del confine.

In questi giorni, gli ultimi di un anno spietato, il mondo sta piangendo la scomparsa di un grande artista. Un genio, dotato di tecnica straordinaria e inventiva sublime. Un personaggio controverso e contestato, dalla vita piena di errori ed eccessi, sopraffazione e autodistruzione, come Caravaggio, come De André, come Burroughs. Un reietto che si è riscattato, uno degli ultimi che è diventato primo. Un capopopolo, un simbolo, un mito. Diego Armando Maradona.
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