Se Aldo Busi fosse nato oggi

Certo, se Steve Jobs fosse nato a Napoli, non avrebbe mica eccetera eccetera. Ma, e se Aldo Busi fosse nato oggi?

primopiano_aldo_busiMi sono ritrovato in mano (a casa dei miei: inopinata agnizione, direbbe lui) una copia di Seminario sulla gioventù. Una delle tante edizioni rivedute (questa, dell’88 a marchio Mondadori) del libro d’esordio, uscito per Adelphi nell’84. Ha una prefazione di Piero Bertolucci, che rievoca la lunga gestazione di questo romanzo, o meglio la lunga gestazione di questo scrittore. Racconta Bertolucci che un giorno del 1965 il ragazzo del bar, salito a riprendere i bicchieri, gli allungò un manoscritto, spaventoso per mole non meno che per titolo (Il Monoclino). Chissà come, lui non lo respinse, e addirittura lo lesse, “stupefatto di trovarmi davanti ogni tanto, nella farragine indescrivibile di quella colata di parole, una pagina perfetta, magistrale”.

Due cose gli furono subito chiare: il mostro era impubblicabile, il ragazzo era uno scrittore. Intuizione confermata dalla prova cui lo sottopose: scrivimi un racconto breve, e il barista gliene portò sette, di cui uno “strabiliante”. Nonostante questo – ecco il passaggio cruciale – quando il ragazzo chiese consiglio al redattore, quello cosa rispose?

Io gli dissi che in Italia l’abisso tra il barismo e il mondo delle lettere è da quest’ultimo considerato incolmabile, e che la parola “autodidatta” è un insulto mortale. Mi sembrava quindi opportuno che creasse una distanza almeno geografica tra passato e futuro e che, non essendo Montichiari, indubitabilmente, un luogo di provenienza abbastanza esotico, andasse all’estero, imparasse le lingue, facesse se possibile studi “regolari” e tornasse trionfalmente sulla scena.

Istruzioni che il giovane Busi, con tutta la sua sbadataggine e sbandataggine, eseguì in maniera pressoché letterale, che tenero. Via in Francia, Inghilterra, Spagna, Germania, facendo i lavori più umili e imparando le lingue, poi di nuovo in Italia, il diploma, l’università, le traduzioni. Infine, l’ingresso trionfale: il libro, mille volte riscritto e mutato anche nel titolo, venne pubblicato da Adelphi. Quasi vent’anni dopo l’episodio di cui sopra.

Ora, riuscite a immaginare gli stessi avvenimenti oggi? Se cioè Busi fosse nato non nel ’48 ma nel ’96, e adesso diciassettenne spedisse il suo megafile a un grande editore? Giovanissimo, belloccio, illetterato, barista, nato in provincia: il massimo. L’ufficio marketing gli piomberebbe addosso, e incomincerebbe a costruire il personaggio. Il romanzo verrebbe emendato e levigato, dalla diretta mano di un editor in ombra o comunque sotto sua stretta sorveglianza, e pubblicato nel giro di pochi mesi. Riesco a leggere anche le fascette.

“Un talento istintivo per la narrazione”

“Il barista minorenne che ci farà impazzire tutti. Di piacere”

“Tra la campagna e i Campari, ma dove cavolo avrà imparato a scrivere così? (La Repubblica)”

“La dimostrazione che due lauree non servono a niente, se si hanno due palle (un blogger)”

A scanso di equivoci: non voglio fare l’elogio dei bei tempi andati. Anche da un punto di vista morale, non c’è differenza nel fatto che le caratteristiche di Busi – giovane, autodidatta, barista – cinquant’anni fa valessero come handicap, e oggi sono considerate atout: positivi o negativi, sempre di odiosi pregiudizi si tratta. Guardiamo alla sostanza: dove ci portano i due diversi metodi? Nel ’65, con il metodo Bertolucci, abbiamo ottenuto che un aspirante esordiente è rimasto tale per venti anni, e alla fine è diventato il formidabile scrittore che conosciamo. Oggi, avremmo l’ennesimo bimbo prodigio che dopo poco viene dimenticato. E ci perderemmo Aldo Busi.


Povero Cristo, brutto e cattivo

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Philip Pullman, Il buon Gesù e il cattivo Cristo, Ponte alle Grazie 2010, traduzione di Maurizio Bartocci, pag. 168, euro 14

Allora, chi mi conosce lo sa. Per tutti gli altri, premessa: non sono un baciapile, anzi temo di eccedere in senso opposto. Quindi se critico un’opera che tocca argomenti religiosi, non sarà perché è blasfema. Al limite, perché lo è troppo poco. Detto questo. Ieri finalmente ho letto Il buon Gesù e il cattivo Cristo. Forse perché ce lo avevo lì da tempo e non riuscivo mai a iniziarlo (l’avessi saputo, che si legge in un’ora e mezza). Forse perché il titolo, l’argomento, il tutto mi intrigava. Forse per le inevitabili polemiche che aveva suscitato. Insomma ci avevo messo un carico di aspettative che alla fine boh, sono andate un po’ deluse.

(Certo l’idea di rileggere, anzi di riscrivere la storia di Gesù non è che Philip Pullman l’abbia avuta lui per primo. Però, lo spunto iniziale bisogna ammetterlo, è buono. E poi si sa che la Bibbia, come tutti i libri capolavoro – come tutti i libri, direbbe Borges – è sempre suscettibile di nuove interpretazioni. Anzi, produce una nuova narrazione ogni volta che un nuovo lettore ne scorre le righe). Perciò, quella che segue non è una disamina critica punto per punto. Ma un’analisi lampo in tre flash, tre scenette salienti, tre snodi della vicenda che fanno emergere i motivi del boh.

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Dante Gabriel Rossetti, Annunciazione

1. M’ha fatto curnuto ‘e santu Martino.

Me lo sono sempre chiesto, perché la tradizione popolare vuole che sia San Martino il protettore dei cornuti (cit. a 1’55”), quando c’era bello e pronto… vabbè lasciamo stare. Perché diciamocelo: il sospetto che la storia dell’annunciazione non sia andata proprio così, che quell’angelo ci abbia messo del suo, era venuto un po’ a tutti, almeno tra quelli che stanno a cercare il fatto dietro il mito. Però poi dipende uno da come la racconta. Pullman inizia non c’è male, facendo una specie di versione in prosa della ur-preghiera:

Maria una sera udì un sussurro provenire dalla finestra.
“Maria, ma lo sai che sei bella? Sei la più leggiadra tra le donne. Il Signore deve averti preferita per la tua grazia e la tua dolcezza, per i tuoi occhi e le tue labbra…”.
Confusa, Maria chiese: “Chi sei?”. “Sono un angelo, rispose la voce. “Lasciami entrare e ti rivelerò un segreto”.

Fino a quel momento la storia di Maria – infanzia, consacrazione al tempio, matrimonio forzato – ha ricalcato abbastanza quella che conosciamo dall’album La Buona Novella (non è che Philip abbia copiato De André, entrambi si saranno andati a leggere i vangeli apocrifi). Ma poi Pullman contamina il quadro con l’elemento sordido dell’inganno:

“Quale segreto?”, chiese.
“Tu concepirai un figlio”.
Maria rimase sconcertata. “Ma mio marito è lontano”, disse.
“Ah, il Signore vuole che ciò sia subito. E io sono qui perché questo avvenga. Maria, tu sei benedetta tra le donne, altrimenti non ti sarebbe mai successa una cosa simile! Devi rendere grazie al Signore”.
E quella notte stessa Maria concepì un figlio.

Quasi una violenza. Leggiamo invece con quanta grazia De André dice la stessa cosa:

Nel grembo umido, scuro del tempio,
l’ombra era fredda, gonfia d’incenso;
l’angelo scese, come ogni sera,
ad insegnarmi una nuova preghiera:

poi, d’improvviso, mi sciolse le mani
e le mie braccia divennero ali,
quando mi chiese – Conosci l’estate
io, per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento.

Ci siano elementi concreti, materiali, fisici, ma contemporaneamente il tutto è mantenuto a un livello di poesia assoluta:

e lui parlò come quando si prega,
ed alla fine d’ogni preghiera
contava una vertebra della mia schiena.

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Il famoso Giano

2. Doppelgänger bang bang

Secondo momento topico: natale. Anzi, momento topico per eccellenza di tutto il libro. Ecco nasce Gesù, la levatrice non è arrivata in tempo, anzi sì: so’ ddu’ ggemelli, surprise! Ma come sono diversi, si vede subito: il primo bello in carne e tutto pacione, l’altro – che la mamma chiama Cristo – poverino ha un brutto colore, è secco secco e piange sempre. E pure quando crescono: Gesù è sveglio, vivace, ne combina di tutti i colori; Cristo invece sta sempre nell’ombra, salvo intervenire all’ultimo momento per salvare il fratello, ma sempre un po’ verde d’invidia, perché la star resta quell’altro. Insomma sono quasi la stessa persona, solo che uno è buono, ma buono buono, e l’altro cattivo. Sounds familiar? Ma certo! Il visconte dimezzato di Calvino. Per dirne uno.

E poi, bisogna fare i conti con la legge non scritta della commedia degli equivoci. La legge non scritta dei thriller la conosciamo bene: se a un certo punto compare una pistola, prima o poi deve sparare. Analogamente, la legge della commedia degli equivoci vuole che, se ci sono due gemelli, prima o poi deve avvenire lo scambio. E infatti, nel momento culminante del finale travolgente…

3. Juda’s Christ

Per tutto il tempo, il povero Cristo ha seguito quel figo di Gesù, mescolandosi tra i discepoli. E, dietro suggerimento di un misterioso personaggio che ogni tanto compare dal nulla, ha iniziato ad annotarne le gesta e le parole. Inserendo ogni tanto, sempre sotto la spinta dell’innominato consigliere, un surplus di miracoloso, di edificante, di utile alla causa. Quando le circostanze non gli hanno permesso di avvicinarsi – è diverso, ma pur sempre gemello, cavoli! – ha preso appunti per interposta persona, delegando uno degli apostoli. Anche se il nome non viene mai fatto, noi lettori sospettiamo che il repoeter sia quel Giuda dell’Iscariota.

Ma ora che succede? Il misterioso saggio ha convinto Cristo che bisogna fare qualcosa di eccezionale, affinché la predicazione di Gesù non si disperda nel vento come quella di un profeta qualsiasi, uno dei tanti: ci vuole un sacrificio, e solo Cristo, controfigura perfetta, può farlo. Il povero Cristo accetta di buon grado, finalmente contento di fare qualcosa di utile, e grandioso: morire al posto del fratello! Ma non è questo lo scambio che ha in mente il burattinaio, indovinate invece…

Prima però, dev’esserci la denuncia, l’arresto. E qui la licenza poetica diventa cortocircuito: è Cristo che si va ad accordare con Caifa, è Cristo che schiocca il fatidico bacio, è Cristo che ritira i trenta denari. In pratica Giuda, sempre se era lui, smette di fare il galoppino delle dichiarazioni di Gesù e scompare dalla scena, mentre Cristo si sostituisce al Giuda evangelico e fa tutto quello che dovrebbe fare quello. Però alla fine nessuno si allontana e va ad impiccarsi. Insomma, un casino.

Quanto più semplice, più lineare, più eversiva, la rilettura di Borges (poi dice che cito sempre Borges, ma che ci posso fare se è il migliore) ovvero la terza delle Tre versioni di Giuda immaginata dal teologo svedese Nils Runeberg:

Dio, argomenta Runeberg, s’abbassò alla condizione di uomo per la redenzione del genere umano; ci è permesso di pensare che il suo sacrificio fu perfetto, non invalidato o attenuato da omissioni. Limitare ciò che soffrì all’agonia d’un pomeriggio sulla croce, è bestemmia. Affermare che fu un uomo e che fu incapace di peccato, implica contraddizione: gli attributi di impeccabilitas e di humanitas non sono compatibili. Kemnitz ammette che il Redentore poté sentire fatica, freddo, turbamento, fame e sete; è anche lecito ammettere che poté peccare e perdersi. Il famoso passo: “Salirà come radice da terra arida; non v’è in lui forma, ne bellezza alcuna… Disprezzato come l’ultimo degli uomini; uomo di dolori, esperto in afflizioni” (Isaia LIII 2-3) è per molti una profezia del crocifisso, nell’ora della sua morte; per alcuni (per Hans Lassen Martensen, ad esempio) una confutazione della bellezza che per volgare consenso s’attribuisce a Cristo; per Runeberg, la puntuale profezia non d’un momento solo, ma di tutto l’atroce avvenire, nel tempo e nell’eternità, del Verbo fatto carne. Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all’infamia, uomo fino alla dannazione e all’abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia, avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Gesù; scelse un destino infimo: fu Giuda.

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Quando eravamo figli di Annibale

raiz Raiz, al secolo Gennaro Della Volpe, detto a inizio carriera Rais, o forse ‘o Raiss, e per un certo periodo noto come Reeno, ma insomma e definitivamente per la maggior parte di noi “quello degli Almamegretta” (anche se con il gruppo d’origine le frequentazioni sono sporadiche ormai da un decennio). Raiz dicevamo, negli ultimi mesi ha firmato ben due album, e di segno opposto: mentre il primo (YA!, 2011, per la major Universal) è un dance-pop internazionale, francamente imbarazzante sia nei proponimenti che nella realizzazione, l’ultimo (Casa, 2012, realizzato insieme al gruppo di ricerca etnica Radicanto) riporta a galla la sua migliore vena acustica e meridionalistica: i pezzi non sono originali – è una specie di summa della sua storia musicale dall’epoca Nun te scurda’ fino a ieri, più tre standard world music come il canto sefardita La rosa enflorece – ma gli arrangiamenti sono gustosi e l’insieme regge alla grande.

Però non di questo volevo parlarvi, ma appunto degli Almamegretta, del loro primo album, il cui ventesimo anniversario (mannaggia, vent’anni!) cade proprio in questi giorni. Per capire cosa fu Figli di Annibale, bisogna considerare la scena politica e musicale del 1992 a Napoli, in Italia, nel mondo. Per chi lo ha vissuto, un periodo di intensità irripetibile, e a differenza di quanto succede di solito, molto più chiaro e decifrabile all’epoca che adesso, a distanza di tempo e di tutto. Il muro di Berlino era caduto ma la Prima Repubblica ancora no, gli immigrati non erano clandestini ma vu cumpra’ o marocchini e Berlusconi era solo il presidente del Milan, il rock commerciale impazzava come in tutto il decennio precedente, ma all’inizio dell’anno Michael Jackson era stato spodestato al primo posto in classifica da Nevermind dei Nirvana. E c’era il rap, e c’erano le nostre posse, che animavano il circuito dei centri sociali con un mix di veemenza elettronica e ribellismo sociale.

Figli-di-AnnibaleIn questa situazione, gli Almamegretta arrivarono come un terremoto. E dire che Figli di Annibale non è nemmeno un album completo, ma una strana via di mezzo tra LP e singolo: quattro pezzi. Ma che pezzi: innanzitutto il Rais non rappava solamente – eppure quando rappava, con quel vocione roco e incazzato al punto giusto, faceva i buchi a terra – ma cantava pure, incredibile!, e con altrettanta potenza. La musica poi: reggae e raggamuffin non erano solo il sottofondo-pretesto per acrobazie declamatorie, come nell’uso delle posse, ma suoni padroneggiati con scioltezza, e però non esclusivi, anzi parte di una tavolozza di colori molto più ampia, che lasciava spazio alle radici partenopee come al melisma arabo, mettendo così musicalmente in pratica l’idea di meticciato predicata (in napoletano) nei testi. E i testi, appunto: politica sì, ma con poesia, non semplice invettiva ma neorealismo di logica stringente (‘O bbuono e ‘o malamente) nel quadro di un’identità che dal Mediterraneo si allarga ad abbracciare tutti i sud del mondo (Sanghe e anema) sorretta da suggestive tesi storiche (Figli di Annibale).

A distanza di due decenni, se forse è azzardato dire che la musica non è poi andata molto più avanti (per quanto…), è obbligatorio ammettere che in quei quattro piccoli pezzi c’era il germe di quasi tutto quello che sarebbe venuto dopo, per gli Almamegretta e non solo. Per correre, è sempre perfetto: galvanizzante nel ritmo, di ampio respiro nella melodia, stimolante nelle liriche. Unico problema, come si è detto, la lunghezza. Di per sé è un po’ corto, ma se mettete la funzione “ripeti album” sul lettore mp3, ne scoprirete un altro pregio: anche se lo suonate più volte, non sarete mai stanchi. E hai detto niente.

(Articolo uscito sul numero di novembre del mensile sportivo Correre)


Blue Camel, vent’anni fa il capolavoro di Abou-Khalil

Questo mese ci muoveremo alla scoperta di una terra straniera, di uno strumento meraviglioso, di un musicista eccezionale. La terra è l’Arabia, ma non la moderna nazione dell’Arabia Saudita, bensì il vasto mondo arabo, l’ex dominio dei califfi che dalla Mesopotamia si estende fino alle propaggini del Marocco che si bagna nell’oceano. Lo strumento è l’oud, che il quel mondo è definito sultan-e-saz, cioè il re degli strumenti, e che da noi è anche noto come liuto arabo: in realtà sarebbe più corretto dire il contrario, perché è dall’oud che derivò nel tardo medioevo il nostro liuto. Anche se rimane una differenza fondamentale, perché il liuto ha un manico dove sono segnati i tasti, come nella chitarra per capirci, mentre l’oud ha una tastiera cieca: il che se da un lato lo rende difficile da suonare, dall’altro contribuisce al suo fascino e soprattutto dà la possibilità di fare i quarti di tono, quelle “mezze note” che stanno per esempio tra un do e un do diesis, che non esistono nelle scale della musica occidentale e che invece sono una delle peculiarità di quella araba.

Il musicista si chiama Rabih Abou-Khalil, ed è uno dei due o tre geni che hanno portato l’oud fuori dalle secche di una tradizione classica immutabile, e oltre il recinto del mondo arabo per renderlo famoso e apprezzato anche in occidente. Questo movimento è evidente fin dalla biografia di Abou-Khalil: nato nel ’57 a Beirut (dove studia con migliori maestri di oud) nel ’78 fugge dalla devastazione della guerra civile libanese e approda a Monaco di Baviera (nel cui conservatorio impara il flauto). È naturale che fin dalle sue primissime registrazioni, che inizieranno non molto tempo dopo, il suo pallino sia stato di mescolare le varie influenze della sua formazione – in particolare è appassionato di jazz – e dei posti in cui ha vissuto: in questo senso è sicuramente un pioniere della world music, anche prima che di world music si iniziasse a parlare. Ma tutti questi input trovano compimento ed espressione insuperabile in un album uscito esattamente venti anni fa, nel 1992: ed è di questo che parleremo, grazie alla coincidenza con l’anniversario ma non solo per quella.

Già il nome è un programma di meticciato: Blue Camel. Dove il quadrupede del deserto rappresenta l’origine, le radici, mentre l’aggettivo non allude tanto al colore (pur se la copertina, con i magnifici arabeschi astratti, è blu eccome) o al blues come genere, o alla tristezza sottesa, ma è una citazione degli innumerevoli brani jazz costruiti su questo calembour (Blue Monk, Blue Trane ecc.). Qui l’incontro oriente-occidente si fa fisico: perché Abou-Khalil non si affida solo a se stesso, come pure potrebbe essendo un virtuoso impareggiabile e un compositore colto, ma chiama a raccolta i migliori di vari generi. Un occhio alla line up: in prima fila, quella dei solisti, ci sono accanto a lui due campionissimi del jazz americano più innovativo, Charlie Mariano al sassofono e Kenny Wheeler alla tromba, come pure al basso elettrico (elettrico!) c’è una colonna chiamata Steve Swallow. Ma è nella sezione ritmica, nella sarabanda di percussioni, che le fantasie multietniche del leader si scatenano: il portoricano Milton Cardona alle congas, l’indiano Ramesh Shotham alle percussioni varie, il fido siriano Nabil Khaiat ai tamburi a cornice; come dire, dai Caraibi al Gange il mondo è mio.

Rabih Abou-Khalil ha una tecnica solistica spettacolare, in mano a lui l’oud non ha nulla di invidiare ai più veloci sprinter della chitarra, ma a fare veramente grande la sua musica è appunto questo misto di sapori internazionali, e la sua capacità di lasciare lo spazio, le luci delle ribalta ai vari compagni di viaggio. Blue Camel, come la maggior parte delle sue produzioni, è un album tutto strumentale, ma non c’è da spaventarsi: jazz e musica araba addolciscono a vicenda le rispettive asprezze, e mentre il primo dà una maggiore vivacità a situazioni un po’ monocordi e ripetitive, la seconda riempie il discorso di melodie affascinanti che subito entrano in testa. Ma il vero asso nella manica, per noi che la musica la ascoltiamo (anche) quando corriamo, è manco a dirlo nel ritmo. E mentre i singoli pezzi favoriscono la frequenza dei passi con il loro andamento ipnotico e costante, tra un pezzo e l’altro ci sono cambi di tempo che ben accompagnano un “lungo” (il disco supera abbondantemente l’ora). A un inizio medio-sostenuto seguono fasi più concitate, che si alternano a momenti di maggiore relax, ideali per farsi portare dal flusso della musica senza pensieri e senza sforzi. D’altra parte, cosa c’è di meglio di un fresco cammello blu per attraversare la calura del deserto, per correre attraverso la vampa d’agosto?

(Articolo uscito sul numero di agosto del mensile sportivo Correre)


Il Trane dei desideri

Quarant’anni fa il mondo del jazz – meglio, il mondo della musica; meglio, il mondo – veniva travolto da un fiume in piena, da un treno lanciato, da una valanga di fuoco. Questo cataclisma aveva un nome e un cognome: John Coltrane. Il sassofonista americano era arrivato tardi fra i grandissimi, a trent’anni suonati, nel 1956, in un mondo di enfant prodige e gioventù bruciatissime. Era stato poi scoperto e valorizzato da due miti come Miles Davis e Thelonious Monk, infine aveva registrato cose notevoli a suo nome, come Blue Train e soprattutto Giant Steps. Ma My favorite things fu tutta un’altra cosa, e ancora adesso è considerato dagli esperti uno degli album più importanti della storia del jazz.

Il quale jazz, in quei primi anni ’60 – superata la rivoluzione be-bop, i raffreddamenti del cool e i furori di ritorno dell’hard-bop – era conteso tra due gigantesche forze modernizzatrici: da un lato l’iconoclastia intransigente, e dalla connotazione anche socio-politica, del free jazz, capofila Ornette Coleman; dall’altro il ribaltamento, meno clamoroso ma dalle conseguenze più durature, operato da Miles e i tanti altri seguaci del jazz modale. Precisamente in mezzo, Coltrane. Che del free aveva il rabbioso impegno per la causa dei fratelli neri, e stilisticamente il ricorso a grugniti urla fischi e altre sperimentazioni sonore; dal jazz modale prese l’innovatività, la rottura di una tradizione basata sul canzoniere americano, l’attenzione per le musiche di altri continenti – Africa, India – infine la possibilità di esplorare la propria anima e l’universo in un flusso di coscienza libero.

My favorite things ha una serie di primati: è il primo album che Trane incide per la Atlantic, ed è il primo in cui mette su il suo storico quartetto, con l’alter ego, il formidabile McCoy Tyner al piano, e il possente Elvin Jones alla batteria, mentre i bassisti cambieranno spesso. Infine, per la prima volta recupera il sax soprano, che dopo i fasti del dixieland era stato abbandonato dal jazz, e ne fa un uso tutto suo.

Incredibilmente in tanta novità, i quattro lunghi brani dell’album sono tutti standard, nessuna composizione di Coltrane, eppure. C’è una tosta But Not For Me di Gershwin. C’è una Everytime We Say Goodbye di Cole Porter straziante però molto tesa. C’è una spericolata, impossibile Summertime, che da ballata o canzoncina diventa un uptempo sorprendente. C’è infine la title track, una vecchia e diecimila volte coverizzata canzone di Rodgers-Hammerstein.

Eppure: il modo di rileggerle è così originale, così personalizzato che lo stesso Coltrane ricorderà: “Molti pensano, sbagliando, che My Favorite Things sia una mia composizione; vorrei tanto averla scritta io…”. È il famoso fenomeno dell’appropriazione della cover, quello per intenderci secondo cui tutti dicono Azzurro di Celentano o Knockin’ on heaven’s door dei Guns’n’Roses. Il pezzo – un valzer, altra stranezza – viene preso e modificato nella struttura armonica, in modo che le improvvisazioni possano scorrere con meno vincoli; spesso durante i quasi 14 minuti si affaccia la semplice melodia del tema, per poi subito re-immergersi in un flusso per il quale Arrigo Polillo, nella sua bibbia Jazz, spenderà queste parole: “un effetto traumatico sugli ascoltatori, che venivano coinvolti in un vortice di musica densa e stordente, molto spesso incantatoria”.

Resta da capire perché questo album sia così adatto per correre. Ma precisamente per le stesse ragioni che lo rendono un grande album tout court! Innanzitutto la sua modernità: non a tutti piace il jazz, ed effettivamente quello classico di Charlie Parker è complicato e ostico, mentre Coltrane è più accessibile, non perché sia commerciale ma perché parla un linguaggio universale. Poi, la lunghezza dei brani aiuta a mantenere il ritmo costante, senza spezzarlo con continui silenzi; mentre la popolarità di molte melodie fornisce un sostegno, un ancoraggio. Infine, il carattere ipnotico del jazz modale, imperniato su pochi accordi e ampi assoli, è l’ideale per farsi trasportare, quando fatica ed estasi sono una cosa sola, e nell’assenza di pensieri è più facile entrare in contatto con le sfere celesti. O perlomeno, con il meraviglioso universo sonoro di John Coltrane.

(Articolo uscito in versione abbreviata sul numero di maggio del mensile sportivo Correre)


Karen Russell, il Pulitzer del futuro

Insomma, ieri sono stati assegnati i Pulitzer 2012. E allora, qual è la notizia? La notizia è che quello per la letteratura, sezione fiction, non è stato assegnato. Come, non assegnato. Proprio così, tre candidati, nessun vincitore: evidentemente i giudici si riservano il diritto di dire sì, bravi, però non vince nessuno. Una gara senza vincitori, sembra un po’ contro la logica, ma se ci pensate non è un’ipotesi così sbagliata, in teoria.

Karen Russell, Il collegio di Santa Lucia per giovinette allevate dai lupi, Elliot edizioni 2006

In pratica, stupore worldwide perché fra i tre c’era the late David Foster Wallace, santo subito, sicché negargli il trionfo è parso a molti bestemmia. Ma in mezzo ai tre c’era anche Karen Russell. Ed è di lei che vorrei parlarvi, perché è una scrittrice formidabile. Dico subito che non ho letto (ancora) Swamplandia!, romanzo uscito l’anno scorso e col quale era candidata al premio. Ma ho letto il suo primo libro, Il collegio di Santa Lucia per giovinette allevate dai lupi, l’ho letto anni fa e non me lo tolgo più dalla testa.

Che cos’ha di così straordinario lei? Karen Russell è nata nell’81 ed è stata inserita tra i migliori scrittori americani under 35. Quindi la giovane età (beh relativa ormai, trent’anni, però il primo libro è uscito quando ne aveva venticinque e quindi è stato scritto quand’era ancora più piccola) e i precoci riconoscimenti. Ma questo non la rende unica: anche Paolo Giordano è giovane e pluripremiato, anche Benjamin Hale, anche Salvatore Scibona. Possiamo dare altre coordinate.

Diciamo innanzitutto della struttura del libro. Che si presenta come una raccolta di racconti, e poi piano piano molti elementi convergono: i personaggi che ritornano, l’ambientazione in una indefinita località tropicale che ricorre. Ma non si arriva mai al romanzo, alla trama unica ricostruita o ricostruibile. Una narrazione per frammenti, un puzzle di cui mancano molti pezzi, che sembra la nuova frontiera del post-postmoderno dopo la sbornia di new-neorealismo che ci hanno propinato negli ultimi anni. Anche qui, non sarebbe niente di nuovissimo: lo hanno fatto in vari di recente, da Elizabeth Strout con Olive Kitteridge, che però ha un mood molto malinconico e d’antan, allo spumeggiante Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan – di cui qui si è detto già e anche in forme strane – la quale non a caso è Pulitzer 2011. Ma c’è di più.

Lo sfondo, l’ambientazione giocano moltissimo nel creare straniamento: è una località tropicale con tutte le stranezze floro-faunistiche tra i Nationa Geographic e il realismo magico sudamericano. Ma si sente anche molto l’aria a stelle e strisce, e infatti è la Florida, una specie di Florida dentro un incubo. Perché non si capisce bene dove stiamo, se in un futuro molto prossimo, o in un presente alternativo andato a male. Distopia, o fantascienza di prossimità, e qui il punto di riferimento è George Saunders, con i suoi parchi tematici che simulano una realtà inesistente all’interno di una finzione che descrive una realtà altrettanto stralunata, e leggermente nauseante. Rispetto a Saunders però c’è meno ricorso a derive tecnologiche alla Dick, e più vicinanza al fantastico.

Il fantastico classico, se non suonasse strano il termine. Quello di Julio Cortàzar, per capirci. E infatti con l’argentino Russell ha in comune almeno due cose. Una è l’uso magistrale del non detto: non si spiega il contesto, l’ambientazione con tutte le sue stranezze e tutte le normalità è data per scontata, sta lì e basta. Da qui l’effetto spiazzante che rende grandiosamente incomprensibili alcuni racconti, come per esempio Casa occupata che apre la raccolta Bestiario. E poi la scoppiettante inventiva, in stile cronopios e famas, di nomi cose personaggi animali situazioni.

Infine, a rendere il tutto ancor più inquietante, il fatto che protagonisti siano sempre bambini e preadolescenti, che già di per sé sono un mondo governato da logiche a parte. Insomma, Karen Russell avrebbe potuto vincerlo il Pulitzer. E allora, qual è la notizia? Che lo vincerà in futuro, ne vincerà di premi in futuro, e se non li vincerà, sicuro li meriterà.


Toti Scialoja, il poeta è un giocatore

Questo è un post che volevo scrivere da un sacco di tempo. (Lo faccio oggi che è la giornata mondiale della poesia, va’). Perché è da un sacco di tempo che sto leggendo questo libro, e non l’ho ancora finito. Non che sia particolarmente lungo, 250 pagine sì e no. O che sia particolarmente difficile, anzi. È che, quando l’avrò finito, avrò finito di leggere Toti Scialoja. E per me sarà un giorno molto triste, più di quando è morto, nel 1998, che a stento sapevo chi era.

Toti Scialoja è vittima di almeno tre equivoci.

1. Innanzitutto, siccome oltre a scrivere poesie è stato anche artista, la vulgata corrente vuole che sia stato notevole come pittore e tutto sommato trascurabile come letterato. Invece è il contrario: almeno a quello che mi dicono alcuni esperti d’arte, il suo apporto figurativo non fu granché originale; mentre nei versi, e questo è un mio parere, giganteggia.

Contro te, povero verme
le lagnanze sono eterne

2. Poi, è passato alla storia come poeta per bambini, quindi minore. A parte il fatto: ma che avete da dire contro i bambini? Che tra l’altro sono i critici letterari più severi, perché non fanno finta: se una storia o una filastrocca non funzionano, non si fanno prendere e basta. Ma poi, per bambini perché? Perché le sue poesie sono brevi? Allora anche M’illumino d’immenso: una sciocchezzuola. Perché parlano di animali? Allora pure Esopo e Orwell: scrittori per l’infanzia. Perché sono in rima? Allora da Dante a Caproni, tutti minori. Perché fanno ridere? Suvvia, siamo seri! La verità è che questi spassosissimi animali che cucinano, fumano e chiacchierano, sono noi e non sono noi, sono una metafora e un mondo magico: ci fanno perdere e poi ritrovare, e poi tornare a perdere, e non è esattamente questo che chiediamo alla poesia, alla lettura?

Ovunque il guardo io giro
vedo il tuo sonno, o ghiro!

Addirittura ci sarebbe una cesura netta nella produzione di Scialoja, un doppio binario poesia per bambini / poesia per adulti, sancito ufficialmente dal fatto che i due filoni confluiscono in due distinte raccolte, come due operae omniae: questa Versi del senso perso (1961-1985) e Poesie 1979-1998 (Garzanti, con prefazione di Giovanni Raboni). Ora, al di là della parziale sovrapposizione cronologica, l’idea che Scialoja scrive filastrocche per l’infanzia fino a un certo punto, e poi rinsavisce e si mette a poetare seriamente, è una favola mal riuscita, di quelle a cui non crederebbe neanche un bambino, appunto. Alla prova dei fatti non c’è soluzione di continuità fra una poesia dell’ultima raccolta per l’infanzia e la prima “normale”: non a caso una si chiama Tre lievi levrieri e l’altra Scarse serpi. Anzi, sfido a riconoscere la provenienza tra questa

La tristizia il nevischio il solstizio d’inverno
nel buio natalizio sono sempre di turno
quando cespi di vischio sono appesi all’inferno
e scherza senza rischio la dama col liocorno
o tristizia o nevischio o solstizio d’inverno

e questa

All’ombra dei cipressi
sulle sponde di Cipro
il cancello d’ingresso
viene sprangato al vespro.

Oltre gli addii reciproci
e tornare sui passi
che potranno proporci
i cippi – i corvi bassi?

Con ciò non voglio dire che lo stile di Scialoja sia rimasto sempre uguale. Anzi. Ma c’è un’evoluzione costante e graduale, che se poi si prendono i due estremi appare come una traversata oceanica (è il percorso di una vita: voi siete gli stessi di trent’anni fa?). Ecco l’epigrammaticità della prima raccolta

Se busso
la lepre
che m’apre
mi copre
di baci
la punta
del naso
mi dice

mi piaci
per puro caso”

Qui invece il respiro amplissimo degli anni ’90, una sorta di esametro ispirato – a detta dello stesso poeta – a una traduzione di Omero fatta da Pascoli. Versi lunghissimi che sfondano il muro dell’endecasillabo, quattordici quindici anche sedici sillabe

Stremati giungemmo al guado e in fila attraversammo il fiume
l’acqua ci arrivava al petto così finalmente prendemmo
riposo mentre andavamo così si scioglieva l’infamia
spinti e sorretti dall’acqua qualcuno tranquillo reggendo
per le corna la capra scarmigliata che al suo fianco annaspa

Il fuoco ancora a qualcuno era negli occhi ma il dolore
si era alleggerito! Sparso con una parità inattesa
in ogni parte dell’acqua che allentava i colpi del cuore
per tutti il peso totale del dolore era uguale al peso
del liquido che la parte immersa della capra sposta

3. Infine, lo stigma: poeta del nonsense. Avallato da lui stesso, che intitola la raccolta totale Versi del senso perso (ma sarebbe curioso sapere quanto ci sia di suo – anche se le assonanze sono tipicamente scialojane – e quanto di scelta editoriale, dato che i singoli libri hanno titoli come Una vespa! Che spavento e Ghiro ghiro tonto). In realtà Scialoja sapeva che le parole sono fatte di lettere, di suoni, di altre parole, e che con tutte queste cose ci si può giocare, anzi ci si deve – non a caso l’edizione che ho io, uscita nel 2009 dopo penosi anni di fuori catalogo, è in una collana diretta da Stefano Bartezzaghi (e con una dotta e divertita prefazione di Paolo Mauri). Nonsense, poi. Ma una cosa così, la prima della prima raccolta, è mancanza di senso o metafisica pura?

Topo topo
senza scopo
dopo te cosa vien dopo?

Dall’altro lato, la poesia è musica, “musica sovra ogni cosa!”, e quindi melodia, timbro, suono – di qui le assonanze, che in Scialoja funzionano ancora meglio se lette ad alta voce – e anche ritmo, perciò rima, alla faccia del succitato Verlaine.

Vive a Zara anzi vi langue
la zanzara senza zeta
non si azzarda a succhiar sangue
ma nient’altro la disseta

Poi ci sono le citazioni (“La lepre ha il più crudele dei musi…”) e qui ditemi se anche il postmoderno è una roba da bambini.

T’amo, o pio bue!
anzi, ne amo due

Ancora un esempio, dove intrecci di assonanze, ritmo lento e senso di tristezza, raggiungono la vetta.

Stanca stasera cala la starna
sopra la panca scruta la Marna
poco starnazza, molto starnuta
la strana scarna starna canuta

Ma secondo me il vero capolavoro è un altro, quello che in due versi raccoglie tutta la poetica di Toti Scialoja: la musica, gli animali, il senso che si torce su se stesso ma alla fine esce più limpido di prima, il bere, l’angoscia esistenziale.

Quando il sorcio
beve un sorso
di fernet
si contorce
dal rimorso
d’esser me