Come le fake news hanno ammazzato la post verità

“La verità amico mio è noiosa”, diceva il protagonista di un vecchio film di Sorrentino. Figuriamoci la post verità. Forse è per questo che non se ne parla quasi più. Il termine “post truth” iniziò a circolare qualche anno fa – in relazione alla diffusione di notizie false e di supposte manipolazioni dell’opinione pubblica tramite internet e i social media – insieme a quello di “fake news”: all’inizio le due espressioni viaggiavano appaiate, ed erano usate in maniera interscambiabile, come se fossero sinonimi. Non lo sono affatto, ma l’idea che è passata è quella. Anzi: dopo un po’ il termine “post verità” ha iniziato a circolare sempre meno, mentre quello di fake news è andato sulla bocca di tutti. Vuol dire che non era un concetto valido? Al contrario: vuol dire che è talmente pervasivo da essere diventato l’acqua in cui nuotiamo. E il fatto che non se ne parli sta qui a dimostrarlo.

Lo strapotere delle fake news…

Per alcuni, non si dovrebbe parlare neanche di fake news. Segue il poco stimolante dibattito sulla novità del concetto: le bufale sono sempre esistite, ci sono sempre state notizie false messe in giro ad arte per scatenare reazioni, o sopirle, così come ci sono sempre state le leggende metropolitane, le superstizioni, le fesserie. C’è stata sempre la propaganda: non ricordo chi, diceva che la storia andrebbe studiata leggendo i giornali delle nazioni che stanno perdendo una guerra, giornali che raccontano una serie di trionfi completamente inventati, finché i cittadini non si ritrovano i carrarmati sotto casa. Ora, io non sono un amante del termine fake news, e inoltre tendo a vedere in ogni fenomeno più la continuità che l’innovazione a tutti i costi, ma bisogna ammettere gli elementi nuovi: la tecnologia e l’uso sistematico, pervasivo. Se il comunismo era il socialismo più l’elettricità, le fake news sono la propaganda più il web 3.0.

Altro punto spesso oggetto di controversia, inane: le fake news sono veramente in grado di modificare la realtà? E giù studi che dimostrano tutto e il contrario di tutto: che senza gli eserciti di troll e profili fake che ticchettano incessantemente in un oscuro scantinato di qualche paese est europeo, la Brexit non ci sarebbe mai stata e Trump non avrebbe vinto le elezioni; che, viceversa, l’inondazione di fake news non ha avuto alcun influsso sul pensiero e sul voto della gente, spostando al massimo lo 0,5%. Tutte analisi che mancano il punto, perché si concentrano su metriche meramente quantitative, e non guardano al quadro di riferimento.

Poi ci sono le analisi qualitative e terminologiche, i distinguo, appena più interessanti: la differenza tra disinformation e misinformation, manipolazione e omissione, errore materiale e trolling. Il fatto è che ormai “fake news!” è diventato un mantra, una cosa che si dice per mettere fine a una discussione, un po’ come l’espressione “è vecchia” che si usava quando stavo alle medie. È un’arma no, non a doppio taglio, ma con un doppio manico: prova ne sia che Donald Trump, il maggior beneficiario dell’inquinamento del discorso politico, ha passato i 4 anni di presidenza ad accusare gli altri, tipo il New York Times e altri giornaletti parrocchiali del genere, di propalare fake news. Il bue che dice cornuto all’asino (o al cervo?). Ancora una volta, fissarsi nell’osservazione dei dettagli fa perdere di vista la cornice: e la cornice è quella della post verità.

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La vera novità del giornalismo: riflessioni a partire dal sondaggio Acta – Slow News

Per un giornalista, parlare di giornalismo dovrebbe essere la cosa più facile del mondo. E invece, c’è sempre un quid di reticenza, o meglio di resistenza: la stessa che mi ha portato a procrastinare per vari giorni la stesura di questo articolo.

È una perplessità soggettiva, innanzitutto, una remora: il timore di essere troppo coinvolti, un residuo scrupolo nei confronti di quello che una volta si chiamava conflitto d’interessi, un’eco della massima tramandata dai vecchi maestri per cui “le fatiche del cronista non fanno notizia”, e che decenni di personal essay e gonzo journalism hanno scalfito ma evidentemente non espulso dal super-io.

C’è poi un ostacolo oggettivo: il fatto che per riflettere su noi stessi e la nostra professione, usiamo gli stessi strumenti (la parola scritta o orale) e gli stessi media (testate cartacee e online, blog, radio e podcast, tv e video, social) che usiamo per svolgere la nostra professione; cosa che un ingegnere e un pittore, un musicista o un chirurgo, non fanno. Ci si sente un po’ come il fotone della meccanica quantistica, che illuminando ciò che deve studiare, siccome ne condivide la natura, inevitabilmente lo distorce.

Il risultato? I due estremi: o una eccessiva timidezza, il relegare macro questioni nelle 15 righe di comunicato del C.d.r. a pagina 42; oppure una esagerata autoreferenzialità, che allargando troppo il discorso lo annacqua, e contemporaneamente rende ancora meno credibile la categoria.

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Parole che non lo erano: da autocertificazione a Zoom, la neolingua della pandemia

“Il Coronavirus viaggia nei droplet ma permane anche in aerosol, e gli asintomatici non sono meno pericolosi per cui più ancora delle FFP2 è raccomandato il distanziamento sociale”. Oppure. “Zoom va bene per la Didattica a distanza, ma dopo il bollettino delle 18 vediamoci per un aperiskype”.

Dice un adagio – suggestivo ma non sempre corretto – relativo ai cibi confezionati: leggi l’etichetta, se ci trovi più di tre ingredienti che tua nonna non capirebbe, non comprarlo. Ora, in meno di sei mesi, noi siamo diventati i nostri nonni. Prendiamo le frasi qui sopra, scriviamole su un foglietto e con la macchina del tempo spediamole a inizio gennaio 2020: nessuno ci capirebbe un accidente. Eppure oggi ci sembrano perfettamente sensate, anzi sono linguaggio di uso comune.

La pandemia, tra le tante cose, ha cambiato la lingua. Per sempre? Staremo a vedere, come per le altre cose. Parlare di parole non sembri ozioso, uno sterile esercizio intellettuale, mentre lì fuori a milioni si ammalano e muoiono, a miliardi sprofondano nella povertà: le parole sono il modo in cui ci raccontiamo le cose; secondo i più estremisti, il modo in cui creiamo le cose. Qual è allora la nuova lingua della pandemia?

Non siamo certo i primi a chiedercelo: la Treccani, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità, ha realizzato un elenco dei 100 vocaboli più usati durante l’epidemia di Covid-19; ma dentro, come si può immaginare, c’è di tutto. La linguista Vera Gheno ha fatto un’analisi altrettanto tecnica, ma partendo da un rilievo empirico: ha chiesto a ognuno dei suoi contatti Facebook di indicare le 3 parole personalmente più importanti. Dal lato opposto, l’artista Jacopo Rinaldi ha scritto un bellissimo mantra della fase 1, una poesia d’avaguardia, un rap silenzioso, una lista omerica.

Più modestamente, vorrei qui far notare una cosa: ci sono vari livelli di novità nel linguaggio della pandemia, che funzionano in modo diverso. Possiamo dividere le parole in tre categorie: i neologismi veri e propri, spesso crasi di parole esistenti, quasi sempre calchi dall’inglese (coronabond, aperiskype, infodemia); i termini tecnici usati in un ambito ristretto e improvvisamente note a tutti (cluster, codice ateco, droplet, FFP2, R0, sierologico, spillover); infine le parole più interessanti, quelle in uso già prima, con un significato generico e neutro, che improvvisamente hanno subito un’accelerazione, una torsione, e ora hanno un senso ben preciso, nella maggior parte dei casi minaccioso.

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Una giornata da recluso: diario della quarantena e guida alle risorse culturali open

Stamattina mi sono svegliato con l’angoscia. E non era l’ansia generica da contagio, o il basso continuo della preoccupazione per certi familiari lontani, persone anziane e con patologie pregresse, come si dice. Era una cosa più sottile.

Non so a voi, ma a me non mi sta pesando tanto la quarantena fisica, quanto quella mentale. Uscire, uscivo poco già prima: certo ricordarsi l’autocertificazione quando si scende a buttare l’immondizia, pensare di dover dare una giustificazione credibile se si fanno due passi in più nelle strade deserte, non aiuta.

Aggiungete che qui in Piemonte le scuole non hanno mai aperto da prima delle vacanze di carnevale (21 febbraio), per cui di fatto siamo in mezza clausura da tre settimane, e quando leggo altrove “quarantena giorno 3”, quel che penso è: tsk, pivelli. Ma quello che mi sta stressando – e non credevo, o almeno non credevo così presto – è la gabbia mentale. Non si parla d’altro, non si pensa ad altro. Anche volendo, anche sforzandosi.

Oggi, stranamente, avevo qualche ora libera: bene, mi sono detto, mi metto a scrivere quel longform che rimando da settimane. Non era neanche una cosa leggera, o inattuale: climate change e apocalissi, estinzioni e de-estinzioni, fini dei mondi conosciuti e strategie di sopravvivenza. Be’, mi sono fatto forza per cercare un barlume di quell’entusiasmo che avevo quando lo proposi ma niente, l’idea mi rendeva felice come se avessi dovuto fare un pezzo sulle fantasie dei copri-divano.

Passerà? Passerà. Come ne usciremo? Non si sa. Per ora saltabecchiamo dalle timeline dei social ai siti dei giornali: la pandemia è prima di tutto infodemia, compulsione da refresh.

Dice ma dovrai pure lavorare: eh sì, peccato che quando non leggo scrivo, e indovinate un po’?, scrivo di libri che parlano di epidemie, per esempio. Certo, c’è modo e modo di informarsi sullo stesso argomento: ci sono le intelligenti divulgazioni di Oggiscienza e di Roberta Villa, ci sono interessanti riflessioni su come il Coronavirus stia mettendo a nudo le fragili impalcature della nostra industria culturale e delle nostre stesse vite. Sta sorgendo tutta una letteratura dell’emergenza, con consigli utili pratici e psicologici, con teorie e approfondimenti generali. Okay, ma non si sfugge. Si seleziona, ma non si scappa.

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Come l’Urban Dictionary è diventato il peggio di internet

Vi sarà capitato, negli ultimi anni, di finire sulle pagine di Urban Dictionary. Prima per caso, via Google, e poi aprendolo direttamente, per decifrare in modo rapido una parola o un’espressione in slang. Succede spesso, a noi che su internet (e fuori) siamo in una zona grigia, a metà tra raffinati costruttori di meme e/o giovanissimi frequentatori di TikTok da un lato, e il popolo del buongiornissimo che non va oltre Facebook e Aranzulla dall’altro; noi che siamo normie o boomer per i primi, intellettuali elitari per i secondi; noi che più semplicemente abbiamo la fortuna di toccare tangenzialmente certi ambienti, pur senza farne parte appieno. E quindi senza capirne al volo la lingua.

Per esempio: dopo l’attentato di Toronto nell’aprile 2018 il termine “incel” è uscito dalla nicchia in cui si trovava (quella della subcultura incel, appunto) per diventare sempre più mainstream: apice toccato quest’anno con Joker, ditemi se conoscete qualcuno che l’ha visto (e l’hanno visto tutti) senza aver poi pronunciato la parola “incel”, anche solo per dire che non c’entra niente. Però, altre parole di quella cultura non sono così note: per dire, leggiamo “currycel” o “ricecel”, e pur sospettando che siano le versioni etniche di un incel, rispettivamente indiana e cinese, diamo un occhio all’Urban Dictionary. Ricecel: Somebody with the frame of a 12 year old boy and a micro peen who thinks the reason he can’t get laid is because of the media. Ok, weird. Oppure: una volta non so come – o meglio, lo so ma ve lo dico dopo – sono caduto sulla definizione di “cisgender”: Normal. A term that is used as derogatory by the LGBT community who thinks everyone who is normal is the antichrist. People who like their genitalia how it came. E mi si è spalancato l’abisso, perché cliccando su LGBT troverete un’altra definizione traboccante di odio e vittimismo gratuito. Passando di lemma in lemma è sempre peggio, un labirinto di insulti e hate speech. Insomma, il peggio di internet. Com’è possibile? Come è successo che uno strumento utile – che il New York Times ha definito il dizionario del linguaggio istantaneo – sia diventato una tale schifezza? Per capirlo dobbiamo partire dall’inizio, ripercorrendo una storia lunga vent’anni.

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I media italiani hanno scaricato Salvini così in fretta che all’estero non ci credono

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(GETTY IMAGES via Esquire)

La situazione è grave ma non è seria, diceva Flaiano. La situazione oggi in Italia è sempre più grave, e sempre meno seria. Chi ci ha capito qualcosa in questo agosto delirante di crisi politica, innescata dall’autosabotaggio dell’invincibile Salvini nel suo momento di massima gloria, e sfociata nella formazione di un governo surreale? Sarebbe tutta da ridere, se non fosse in gioco il futuro di ognuno di noi – o forse proprio per questo, meglio prenderla a ridere.

Ma se c’è una cosa più ridicola dei repentini cambiamenti di fronte e opinione da parte delle formazioni politiche (Mai con Pidioti! Mai con i grullini!), è la facilità con cui mutano lato al mutare del vento tutti gli altri, dai semplici elettori ai più rispettabili opinionisti. Vale la pena allora fare un passo indietro, osservare le cose con un occhio più distaccato, alieno. Un divertente articolo dell’Atlantic parla proprio del rapido cambio di tono nella stampa italiana “after the Fact”. E parte citando un altro celebre Flaiano, quello sugli italiani che corrono sempre in aiuto del vincitore.

Lo avrete notato: per quanto ben protetto all’interno della bolla, ognuno di noi è in contatto social con dei parenti o dei compagni di classe delle elementari le cui opinioni sono imbarazzanti, ma nei confronti dei quali il cringe non arriva mai al punto tale da troncare i rapporti (e menomale: sono dei piccoli bagni di realtà, come andare al bar, visto che ormai anche la colazione noialtri la si ordina con Deliveroo). Ebbene, solo io ho fatto caso a una improvvisa impennata dei meme sul Capitano, da parte di chi solo qualche giorno prima faceva girare i post dell’inesistente John B. Keating?

(Continua su Esquire)


Perché Facebook ti tratta come gli spacciatori fanno con i drogati

Ormai lo sanno anche i sassi: Facebook ha cambiato l’algoritmo. Mark Zuckerberg ha promesso (o minacciato) che d’ora in avanti saranno privilegiate le “interazioni social” a discapito dei “contenuti pubblici”. Quello che nessuno ancora sa è cosa significhi questo in pratica, cioè come si tradurrà nella nostra timeline quotidiana.

L’ipotesi al momento più accreditata è questa: sarà dato più spazio alle interazioni personali e meno alle notizie (soprattutto se rimandano a siti esterni, l’eterno spauracchio di fb). Vedrai più profili e meno pagine, più amici e meno brand, più gattini – o foto del tramonto sulla spiaggia postate da tuo cugino – e meno post come questo. E non solo perché in questo post c’è scritto che Facebook è come uno spacciatore che taglia le dosi per renderti ancora più dipendente.

Più che dal contenuto, le possibilità che tu legga questo articolo dipenderanno dal fatto che tuo cugino – sempre lui – lo abbia condiviso o meno.

(Continua su Esquire Italia)


Privacy 3.0, socialcosi e grande fratello: questione d’ingenuità o di ladigaghismo?

Allora, questo video l’avrete visto tutti, nei giorni scorsi impazzava sul web: si intitola “Stupendo spot belga sull’ingenuità della gente riguardo i propri dati in pasto ai social network” e sarebbe (perché un pochino puzza di bufaletta, ma questo non è importante, ora) sarebbe una pubblicità progresso con sottotitoli in italiano. Un mago legge nella mente delle persone – tatuaggi, vita sessuale, numero di conto corrente – finché si svela il trucco: dietro il tendone c’è un’intera squadra che setaccia internet e mette insieme informazioni pubbliche che le stesse persone hanno sparso qua e là in rete, soprattutto sui social. Morale: state attenti a quello che dite perché potrà essere usato contro di voi.

Non so a voi, ma a me queste dimostrazioni a effetto sanno sempre un po’ di complottismo, grillismo, paranoia esagerata. Peccato che proprio negli stessi giorni mi sia capitata una storia analoga, dove io addirittura assumo il ruolo del cattivo. Per puro caso. Un critico teatrale che avevo nominato in un pezzo mi contatta via mail, io prima di rispondergli lo googlo e leggo che è del ’77, gli scrivo e tra le altre cose dico “ci diamo del tu visto che siamo quasi coetanei?”. Continuiamo a chiacchierare e viene fuori l’idea di vedersi, in fondo alla sua mail trovo la firma con l’indirizzo, gli scrivo “abiti proprio vicino alla scuola elementare di mio figlio”. Lui risponde che anche sua figlia va a scuola nella stessa strada, che magari è la stessa scuola, io a questo punto lo cerco su facebook, anche se non gli chiedo ancora l’amicizia, e… lo riconosco. Per cui gli scrivo: “Ciao, papà di Marika!”. Al che lui, scherzoso ma evidentemente un po’ inquietato: “Sai quanti anni ho, sai dove abito, sai come si chiama mia figlia… aiuto qui c’è il Grande Fratello”.

Io non ho fatto altro che mettere insieme – e come dicevo per puro caso, senza cioè uno scopo indagatorio – una serie di info pubbliche o a me accessibili: l’età (da internet), l’indirizzo (dalla mail), il nome della figlia (dalla sua faccia, che vedo tutti i giorni live e che ritrovo su facebook). A lui sono sembrato un agente della Stasi. O Gennaro D’Auria.

Torniamo quindi alla morale classica: fessi che non siete altro, se postate il diametro del vostro ombelico su pinterest, poi non vi lamentate quando vi perseguiteranno i feticisti degli odori corporei. E in effetti, conosco una persona che ha messo sul citofono un numero invece del cognome (qui a Torino si usa…), e poi però su linkedin rende visibile al mondo il numero di cellulare (e una foto del profilo in cui sembra molto attraente). Il problema, si dirà, è che noi nati nell’era geologica pre-1.0, quella dove la conquista tecnologica si chiamava tv-color, non ci rendiamo conto: vediamo il mondo reale come pieno di insidie e quello virtuale come pieno di opportunità, senza pensare che spesso è tutto al contrario. O meglio: probabilmente non ci sono molti head hunter che girano in mezzo alla strada a caccia di curriculum, ma ci possono essere un bel po’ di stalker o mariuoli a spasso per il web.

Eppure, forse, non è solo questione di ingenuità. Qualche mese fa girava sulle bacheche facebook un fake che faceva dire a qualche nostro amico

WOW!!! Il mio profilo è stato visto 38 volte SOLO OGGI, sembra che io abbia un certo numero di persone che mi seguono eheheh!!! Scopri chi visita il tuo profilo su http://********

Anche in questo caso, poco importa che sia (qui sicuramente) bufala, spam, virus. Quello che ci interessa è il desiderio che va a titillare: “WOW”… “SOLO OGGI”… ma soprattutto “mi seguono”. Ecco il punto: mi seguono. Noi vogliamo essere seguiti. Il nostro desiderio è la fama. (Il nostro dio è la fama, e klout è il suo profeta).

È il desiderio che ha portato un mio amico/collega – uno con qualche follower in più su twitter, un paio di libri un po’ meno di nicchia all’attivo, collaborazioni con testate un pochino più prestigiose, uno insomma appena una spanna sopra di me, ergo una non-star come me – a dirmi qualche tempo fa, con assoluta serietà e sprezzo del ridicolo: “Ah già, questo fatto mio tu lo sai perché mi segui…”. Mi segui.

Ed è inutile che vi chiamate fuori, è un morbo che ci ha contagiato tutti, dal più tamarro fan di Lady Gaga al più hipster contributor di Pitchfork. È il ladigaghismo, malattia senile dello starsystemismo, così superbamente descritto (inventato?) da Massimo Balducci in questo libro.

(…) indurre il pubblico a sentirsi contagiato – come per osmosi – dalla celebrità che la diva porta con sé. Se oggi l’unica lotta di classe rimasta non è più tra ricchi e poveri, ma tra famosi e anonimi, Gaga regala ai fan l’emancipazione più consolatoria e risolutiva: ognuno di noi può sviluppare una “Fama interiore”, che è bella come se si fosse famosi davvero, e neanche solo per 15 minuti ma per sempre! Cosa ci debba poi essere dentro quella celebrità, interiore o esteriore che sia, non ha alcuna importanza: essa nobilita qualsiasi contenuto. È la versione postmoderna dell’arricchitevi tutti reaganiano, con la Fama al posto dei soldi.

Insomma, non c’è dubbio che per proteggerci dobbiamo cambiare le impostazioni della privacy. Ma non nel nostro account, nel nostro cervello.

PS: per fortuna ogni tanto qualche liscio il GF lo prende ancora, e a me che sono un noto macho tutto muscoli e motori consiglia i seguenti acquisti: