URL nel silenzio
Pubblicato: 13 febbraio 2021 Archiviato in: Articoli | Tags: Andrea Gentile, Apparizioni, dai giornali, Don DeLillo, Einaudi, federica aceto, La ricerca, libri, Nottetempo, recensioni Lascia un commentoLa vita a volte può diventare così interessante che ci dimentichiamo di avere paura.
Vi capita mai di avere dei falsi ricordi? Certo che vi capita, capita a tutti, la mente lavora in continuazione creando la realtà, e ricreando il passato. Tra tutti i falsi ricordi, ce ne sono alcuni di natura particolare, in quanto contengono degli anacronismi evidenti: sono i più rassicuranti, perché li riconosciamo subito come falsi; sono i più inquietanti, perché continuano a sembrarci veri. Io per esempio ho nella mente l’immagine vivida del passeggino di mia figlia mentre lo spingo per le strade affollate di Marrakech: ma in Marocco ci sono andato alla fine del secolo scorso, mentre lei sarebbe nata solo dieci anni dopo.
Da un po’ di tempo, poi, mi capita di avere dei falsi ricordi pandemici. (Molti, da quando tutto questo è iniziato, hanno dei sogni pandemici; ma evidentemente il virus ha esteso il suo dominio dal sogno all’immaginazione diurna.) Mi ricordo una discussione che ebbi a vent’anni o poco più in un negozio di dischi, a proposito di musica strumentale e musica elettronica, con il gestore di quello spazio angusto, lui con una mascherina nera da cui spuntava la folta barba brizzolata, io con la mia solita chirurgica spelacchiata e maleodorante. Impossibile; vero. Ma la cosa più sconcertante è che insieme ai falsi ricordi pandemici stanno venendo fuori anche dei falsi falsi ricordi pandemici: eventi realmente vissuti che la mia mente, nell’attimo in cui affiorano alla coscienza, istintivamente rubrica come falsi. Mi sembra impossibile, per dire, aver preso un volo intercontinentale, o essere stato pigiato dentro l’anello di uno stadio insieme ad altre novantamila persone (ma davvero ce n’entrano così tante in uno spazio così ristretto?). Mi sono rigirato questi pensieri in testa per settimane. Poi ho letto l’ultimo libro di Don DeLillo: Il silenzio.
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Humanewashing is the new dishwashing
Pubblicato: 9 febbraio 2021 Archiviato in: Articoli | Tags: animali, dai giornali, Dissapore, food, humanewashing Lascia un commentoMucche felici, galline che razzolano all’aperto, conigli che corrono nei prati. Sono immagini, e frasi, che ricorrono con insistenza, nelle pubblicità e sulle confezioni di carne e altri prodotti animali. Perché il consumatore è sempre più sensibile al benessere delle bestie allevate, e anche se di leggi non ce ne sono, o sono vaghe, le imprese si danno da fare. Ma è tutto vero quello che dichiarano o che, più sottilmente, ci inducono a pensare? Secondo molte associazioni che tutelano gli animali, nella maggior parte dei casi si tratta di puro marketing, al limite del comportamento ingannevole nei confronti del consumatore. Tanto che da qualche anno è stato coniato, sulla scorta di greenwashing, un nuovo termine: humanewashing.
Che il consumo di carne attuale e gli allevamenti industriali così come strutturati oggi siano insostenibili, ormai lo sa anche il più accanito dei carnivori. Per l’ambiente, per la salute di chi mangia e, last but not least, per gli animali. Le soluzioni sul piatto sono molteplici, e non alternative ma concorrenti: consumare meno carne, anche se non diventeremo tutti vegetariani; implementare le alternative hi tech, come la finta carne vegetale o la carne coltivata in laboratorio; cambiare il sistema degli allevamenti, dando più peso ai piccoli produttori “etici” e spingendo quelli grandi ad adottare comportamenti virtuosi. E i grandi non si fanno pregare: solo che, ovviamente, intervenire sulla narrazione piuttosto che sulla sostanza è più facile, rapido ed economico. Ecco nascere lo humanewashing: il greenwashing è un ambientalismo di facciata, consistente nell’adottare superficiali misure “verdi” e nel far credere di aver abbandonato le pratiche maggiormente inquinanti. Lo humanewashing consiste nel fare affermazioni fuorvianti, esagerate o semplicemente false a proposito del trattamento “umano” degli animali, e delle condizioni in cui nascono, vivono e vengono uccisi.
Tipicamente si traduce in espressioni tanto suggestive quanto vaghe: “naturale”, “responsabile”, “locale”, “piccolo”, “felice” e in ancora più ingannevoli e generiche immagini associate, colline e contadini, colori pastello con prevalenza di verde e linee morbide; tutto, è chiaro, all’insegna del “come una volta”.
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Come le fake news hanno ammazzato la post verità
Pubblicato: 9 gennaio 2021 Archiviato in: Articoli | Tags: art border line, artslife, dai giornali, fake news, media Lascia un commento
“La verità amico mio è noiosa”, diceva il protagonista di un vecchio film di Sorrentino. Figuriamoci la post verità. Forse è per questo che non se ne parla quasi più. Il termine “post truth” iniziò a circolare qualche anno fa – in relazione alla diffusione di notizie false e di supposte manipolazioni dell’opinione pubblica tramite internet e i social media – insieme a quello di “fake news”: all’inizio le due espressioni viaggiavano appaiate, ed erano usate in maniera interscambiabile, come se fossero sinonimi. Non lo sono affatto, ma l’idea che è passata è quella. Anzi: dopo un po’ il termine “post verità” ha iniziato a circolare sempre meno, mentre quello di fake news è andato sulla bocca di tutti. Vuol dire che non era un concetto valido? Al contrario: vuol dire che è talmente pervasivo da essere diventato l’acqua in cui nuotiamo. E il fatto che non se ne parli sta qui a dimostrarlo.
Lo strapotere delle fake news…
Per alcuni, non si dovrebbe parlare neanche di fake news. Segue il poco stimolante dibattito sulla novità del concetto: le bufale sono sempre esistite, ci sono sempre state notizie false messe in giro ad arte per scatenare reazioni, o sopirle, così come ci sono sempre state le leggende metropolitane, le superstizioni, le fesserie. C’è stata sempre la propaganda: non ricordo chi, diceva che la storia andrebbe studiata leggendo i giornali delle nazioni che stanno perdendo una guerra, giornali che raccontano una serie di trionfi completamente inventati, finché i cittadini non si ritrovano i carrarmati sotto casa. Ora, io non sono un amante del termine fake news, e inoltre tendo a vedere in ogni fenomeno più la continuità che l’innovazione a tutti i costi, ma bisogna ammettere gli elementi nuovi: la tecnologia e l’uso sistematico, pervasivo. Se il comunismo era il socialismo più l’elettricità, le fake news sono la propaganda più il web 3.0.
Altro punto spesso oggetto di controversia, inane: le fake news sono veramente in grado di modificare la realtà? E giù studi che dimostrano tutto e il contrario di tutto: che senza gli eserciti di troll e profili fake che ticchettano incessantemente in un oscuro scantinato di qualche paese est europeo, la Brexit non ci sarebbe mai stata e Trump non avrebbe vinto le elezioni; che, viceversa, l’inondazione di fake news non ha avuto alcun influsso sul pensiero e sul voto della gente, spostando al massimo lo 0,5%. Tutte analisi che mancano il punto, perché si concentrano su metriche meramente quantitative, e non guardano al quadro di riferimento.
Poi ci sono le analisi qualitative e terminologiche, i distinguo, appena più interessanti: la differenza tra disinformation e misinformation, manipolazione e omissione, errore materiale e trolling. Il fatto è che ormai “fake news!” è diventato un mantra, una cosa che si dice per mettere fine a una discussione, un po’ come l’espressione “è vecchia” che si usava quando stavo alle medie. È un’arma no, non a doppio taglio, ma con un doppio manico: prova ne sia che Donald Trump, il maggior beneficiario dell’inquinamento del discorso politico, ha passato i 4 anni di presidenza ad accusare gli altri, tipo il New York Times e altri giornaletti parrocchiali del genere, di propalare fake news. Il bue che dice cornuto all’asino (o al cervo?). Ancora una volta, fissarsi nell’osservazione dei dettagli fa perdere di vista la cornice: e la cornice è quella della post verità.
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Cibo
Pubblicato: 3 gennaio 2021 Archiviato in: Articoli | Tags: art border line, arte, artslife, cibo, dai giornali Lascia un commento
Il cibo è arte? O meglio, il cibo può essere arte? La domanda mi appassiona da sempre, no non è vero, non me n’è mai fregato granché, ho cercato di sfuggirla più che ho potuto, fino a che non me l’hanno posta direttamente, e allora sono stato costretto a pensarci.
Il fatto è che qui vorrei parlare, di tanto in tanto, anche di cibo. Perché la gastronomia è vita quotidiana e politica, innovazione tecnologica e cultura; più banalmente, perché è uno dei campi in cui sono un po’ meno ignorante. Sono ignorante assai in arte, l’ho detto subito, dal punto di vista tecnico; ma il discorso sull’arte incrocia il discorso sul mondo, in ogni suo punto: compresa la tavola.
Perciò, quando un collega mi ha chiesto – e non facendo due chiacchiere al bar di Facebook, ma addirittura per un’intervista – se per me l’alta cucina, il cosiddetto fine dining, fosse un’arte o meno, la prima cosa che mia venuta in mente è stata: ma che cavolo (pun intended) ne so, io. La seconda cosa che mi è venuta in mente, è stata un’espressione: “arte plastica effimera”. E gli ho scritto quanto segue.
Arte plastica effimera. Queste tre semplici parole furono un’agnizione, mi aprirono una visuale completamente diversa, quando le sentii la prima volta da Piercarlo Grimaldi, antropologo culturale ed ex rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche. Lui in verità parlava del pane, e di altre forme di elaborazione gastronomica tradizionale, come gli agnolotti del plin, dove la manualità artigianale sembra toccare vette estetiche elevatissime. E allora, se si può parlare di arte per i cibi popolari, a maggior ragione si dovrebbe per il fine dining, no?
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Che cos’è il colonialismo climatico (e come rovesciarlo)
Pubblicato: 30 dicembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: CheFare, clima, colonialismo, dai giornali Lascia un commento
Un bianco Natale sotto una coltre di candida neve, un Capodanno più casalingo e cozy che mai, i giorni delle feste passati sul divano sotto la copertina di flanella appena avuta in regalo, a leggere o guardare una serie TV, sorseggiando una tisana calda o un buon whisky, mentre il ceppo sfrigola nel camino… Piccole grandi verità universali, valide in ogni tempo – e rinforzate dalla pandemia, quest’anno – e in ogni luogo, no? No. Quando ad ogni celebrazione festiva, come a ogni cambio di stagione, ci ripetiamo – l’industria culturale e del consumo ci ripete – questi mantra, non solo ricadiamo in un cliché, ma contribuiamo a imporre, nel mondo globalizzato, il nostro punto di vista e il nostro ritmo a miliardi di persone che stanno vivendo tutt’altra esperienza.
La giornalista Alicia Kennedy, newyorkese che ora vive a Portorico, ne ha parlato nella sua newsletter a proposito dell’autunno: io vivo ai tropici, e qui le stagioni semplicemente non esistono, ma ci becchiamo ugualmente le narrazioni a base di copertine e whisky, moda autunno/inverno e october blues e november rain. I food blog ci bombardano con ricette a base di funghi e modi per cuocere la zucca, ma chi le ha mai viste queste cose. Questo nella fascia equatoriale, ma peggio ancora va a quelli dell’emisfero sud, con le stagioni completamente invertite: pensate a come può essere surreale per i cattolicissimi brasiliani o argentini festeggiare il nostro White Christmascon 30 gradi all’ombra.
È vero, indubbiamente l’emisfero boreale contiene più terre emerse e quindi più popolazione rispetto a quello australe, ma non ci prendiamo in giro: è una questione di dominio, di rapporti di forza. Tanto che Alicia Kennedy tira in ballo un’espressione che si usa da qualche tempo, colonialismo climatico, e conclude dicendo che la definizione del soggetto privilegiato (e inconsapevole dei propri privilegi) andrebbe aggiornata: maschio bianco etero cisgender… e abitante di una zona temperata. (Ehm, ce lo ho tutte.)
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Piacere, e AD10S
Pubblicato: 23 dicembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: art border line, arte, artslife, dai giornali, libri, maradona Lascia un commentoIo non so nulla di arte. Davvero, non è falsa modestia: non sono affatto un esperto, anzi si può dire che di arte non ci capisco un’acca. Non so neanche cosa sia, l’arte. E d’altro canto, chi è che lo sa, con precisione? Chi potrebbe definire l’arte? All’arte si adatta perfettamente quello che Sant’Agostino diceva del tempo: se nessuno me lo chiede, so che cos’è; se dovessi spiegare a chi me lo chiede, non lo so più. È arte una venere paleolitica, o è solo religione? È arte un pisciatoio rovesciato, o è solo provocazione? È più arte quella di Manzoni o quella di Manzoni? L’arte è nell’occhio di chi guarda, o nella mano di chi crea? Questioni spinose, e annose (e anche un po’ noiose). Dare una risposta non è impossibile: è inutile. Ma soprattutto non chiedetela a me: ve l’ho detto che non sono un esperto. Bene, ma allora che ci stai a fare qui? Ve lo dico subito.
L’arte mi appassiona, mi interroga – come tutte le cose che non capisco, proprio perché non le capisco – mi riguarda. Soprattutto l’arte astratta, le avanguardie, il contemporaneo, il concettuale, il performativo, l’immersivo: quelle cose cioè che stanno sul confine, forse proprio perché sono opere ibride, più da pensare che da guardare. E mi stupisce che siano quelli ignoranti come me ad avversare certa arte, a dire “lo potevo fare anch’io” invece di “lo capisco anche io”, parla di me.
Se l’arte ha un confine, una border line, è però una frontiera porosa, permeabile, è una linea mobile, elastica. L’arte può fagocitare qualsiasi cosa del mondo, anche la più refrattaria; e qualsiasi cosa al mondo può invadere il campo dell’arte. In queste righe, in questa rubrica che si chiama appunto Art Border Line, arrivo come un outsider, come un esule, come un alieno: mando dispacci dall’altro lato del confine.

In questi giorni, gli ultimi di un anno spietato, il mondo sta piangendo la scomparsa di un grande artista. Un genio, dotato di tecnica straordinaria e inventiva sublime. Un personaggio controverso e contestato, dalla vita piena di errori ed eccessi, sopraffazione e autodistruzione, come Caravaggio, come De André, come Burroughs. Un reietto che si è riscattato, uno degli ultimi che è diventato primo. Un capopopolo, un simbolo, un mito. Diego Armando Maradona.
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Un regalo di Natale da Shirley Jackson
Pubblicato: 21 dicembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Adelphi, dai giornali, La luna di miele di Mrs. Smith, La ricerca, libri, recensioni, shirley jackson, Simona Vinci Lascia un commentoQuesta storia inizia con un manoscritto ritrovato, un viaggio nel tempo, un regalo da parte di un fantasma: sembra proprio un racconto di Shirley Jackson, invece è la sua vita – anzi, la nostra.
Oltre 25 anni dopo la morte della scrittrice americana, avvenuta nel 1965, dei «raccoglitori coperti di ragnatele ritrovati in un fienile del Vermont» arrivano a casa dei figli. C’è il manoscritto originale di Hill House, ma ci sono anche scritti brevi inediti: a quel punto inizia la quest degli eredi, ed è una missione di successo. Da fratelli e da altri familiari, in archivi e biblioteche pubbliche, spuntano materiali variegati come appunti e diari, ma soprattutto racconti, spesso inediti, o pubblicati solo su riviste. C’è materiale per un libro, alla raccolta segue la selezione: in America il volume è uscito con il titolo Just an Ordinary Day, da noi ci pensa Adelphi, che in La luna di miele di Mrs. Smith (traduzione di Simona Vinci) inserisce gli inediti puri, riservando al prossimo libro gli scritti presi da magazine e antologie.
Come sono questi vecchi/nuovi racconti di Shirley Jackson? I due figli e curatori, nell’introduzione, tengono a sottolineare che «non sono tutti raggelanti capolavori come La lotteria», e ci mancherebbe. Ma, forse proprio per questo mettere le mani avanti, che abbassa le aspettative, io li ho trovati meravigliosi come sempre. Leggendo, ho iniziato a lasciare dei segni in corrispondenza dei pezzi più belli, lo faccio spesso, da quando ho capito che dimentico anche i libri che amo, oltre ai manuali di diritto amministrativo, mi da l’illusione del controllo, di poter ritrovare le cose facilmente in seguito: stavolta, fatica inutile, perché arrivato a metà mi sono accorto di aver segnato come memorabile praticamente ogni racconto.
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“L’ospite”: il bestiario occulto di Amparo Dávila
Pubblicato: 7 dicembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: Alfredo Zucchi, amparo davila, dai giornali, Giulia Zavagna, La memoria dell’uguale, La ricerca, libri, recensioni, Safarà editore Lascia un commentoMa come abbiamo fatto a vivere finora senza Amparo Dávila? Una scrittrice formidabile, racconti brevi di potenza inaudita, che non assomigliano a niente, e dicono tutto. Da non credersi come sia arrivata a noi solo ora, dopo la fine di una vita lunga: nata in Messico nel 1928, Dávila è morta quest’anno. In patria per fortuna era già culto, anche se ha scritto pochi libri, e con parecchi anni tra un’uscita e l’altra, e ha ricevuto il meritato riconoscimento molto tardi. Ma viva la nostra ignoranza, se ci permette di avere un regalo così bello in questo 2020 che vabbè lasciamo stare. E viva Safarà, piccolo editore che dopo aver portato in Italia Alasdair Gray (Lanark, seguito di recente da 1982, Janine) e Gerald Murnane (Le pianure, e da poco Tamarisk Row), ora pubblica L’ospite e altri racconti – nella traduzione, come sempre impeccabile, di Giulia Zavagna.
Bene: ma come sono, di che parlano i racconti di Amparo Dávila? Di “insolito”, “terrore”, “quieta disperazione”, “fantastico quotidiano”, “condizione femminile”, “universale”. Non ci si capisce niente? Vediamo allora l’area di riferimento, alcuni nomi a cui è stata accostata. Pronti, via: Edgar Allan Poe, Franz Kafka, Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, Leonora Carrington, César Aira, Shirley Jackson. Niente male, eh? La cosa pazzesca è che questi paragoni non sono iperbolici, anzi a stento rendono l’idea: immaginatevi un ottovolante che passa dall’uno all’altra di questi autori, a tutta velocità in poche righe, e ancora sarete lontani dalla verità.
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Lo spettatore è un visionario
Pubblicato: 4 dicembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: CheFare, dai giornali, libri, Lo spettatore è un visionario, Luca Ricci, Lucia franchi, recensioni, teatro Lascia un commentoChe cosa deve fare il pubblico? Qual è il ruolo dello spettatore rispetto all’opera d’arte? La domanda può sembrare oziosa, puramente teorica, ma lo è solo in parte. La concezione classica attribuisce al fruitore dell’opera – libro, mostra, spettacolo, film – un ruolo passivo rispetto a quello attivo del creatore: un ruolo di mera stazione ricevente.
Il pubblico legge/guarda/ascolta, e gode dell’arte, o non ne gode, a seconda delle conoscenze oggettive e delle preferenze soggettive: può anche sollevare dubbi e critiche, ma nel suo foro interiore, e comunque ex post, dopo la fruizione. Il suo spazio d’azione, la sua libertà d’iniziativa, è esplicabile tutt’al più nel futuro, quando può scegliere di andare a vedere o non andare a vedere un altro spettacolo dello stesso autore.
Eppure, anche accettando la posizione dello spettatore come semplice punto di arrivo, non si può negare che il pubblico sia una componente essenziale nell’opera d’arte, un elemento costitutivo, come direbbero i giuristi. Ci si chiede infatti che senso abbia un libro i cui caratteri non vengono decodificati da nessuno che li assembla in parole e frasi di senso compiuto; che senso abbia una pièce che viene recitata in un teatro vuoto. Ci si potrebbe chiedere, estremizzando ma non troppo, se l’opera in questione esista, proprio come ci si chiede se esiste il rumore prodotto da un albero che cade in una foresta dove non c’è nessuno.

La concezione classica è stata quindi messa in crisi in epoca moderna, sotto la spinta di motivazioni sia teoriche sia politiche, per così dire, nel senso di essere sorte in opposizione a uno status subordinato e inferiore del pubblico. Saggi come Opera aperta di Umberto Eco (1962) e La morte dell’autore di Roland Barthes (1968) suggerirono che gli aspetti volutamente incompleti o necessariamente indeterminati di un’opera stimolano la necessaria interpretazione attiva del fruitore, che assurge al rango di co-creatore. Per Barthes la morte dell’autore è propedeutica alla nascita del lettore, “luogo in cui si produce l’unità del testo”.
Oggi la carica eversiva di queste teorie è da un lato stemperata, dall’altro assimilata: non abbiamo nessun problema ad accogliere letture di opere che vanno al di là delle intenzioni dell’autore, per esempio.
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Cuscus: il primo animale addomesticato dall’uomo
Pubblicato: 29 novembre 2020 Archiviato in: Articoli | Tags: cuscus, dai giornali, Dissapore, food Lascia un commentoQual è stato il primo animale addomesticato dall’uomo? Sono i dubbi che non ti fanno dormire la notte, lo so, soprattutto di questi tempi. E lo so, i più smart tra voi hanno già pensato: ma che domande, ovviamente il cane. Già, il cane, o meglio ancora il lupo, o per essere più precisi l’antenato comune – e ora estinto – del cane e del lupo. I quali infatti sono cugini, anzi fratelli, perché geneticamente uguali, anche se guardando un carlino non si direbbe. Quindici, ventimila anni fa, o prima ancora: canidi affamati e gregari si saranno avvicinati sempre più a un gruppo di umani attorno al fuoco, ma senza aggredirli, ricavandone qualche boccone di scarto e offrendo poi in cambio un decisivo aiuto nella caccia, e forse negli scontri con altri gruppi.
Ma stiamo andando fuori strada. Allora, riformulo: qual è stato il primo animale addomesticato dall’uomo a scopi alimentari? Direttamente alimentari, s’intende: per mangiarne le carni, berne il latte. La capra, la pecora, poi il maiale; solo dopo verranno mucche e galline – le api sono un caso a parte. Questo è quello che si sa, quello che tutti abbiamo creduto finora. Ma la storia potrebbe essere diversa.
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