URL nel silenzio

La vita a volte può diventare così interessante che ci dimentichiamo di avere paura.

Vi capita mai di avere dei falsi ricordi? Certo che vi capita, capita a tutti, la mente lavora in continuazione creando la realtà, e ricreando il passato. Tra tutti i falsi ricordi, ce ne sono alcuni di natura particolare, in quanto contengono degli anacronismi evidenti: sono i più rassicuranti, perché li riconosciamo subito come falsi; sono i più inquietanti, perché continuano a sembrarci veri. Io per esempio ho nella mente l’immagine vivida del passeggino di mia figlia mentre lo spingo per le strade affollate di Marrakech: ma in Marocco ci sono andato alla fine del secolo scorso, mentre lei sarebbe nata solo dieci anni dopo.

Da un po’ di tempo, poi, mi capita di avere dei falsi ricordi pandemici. (Molti, da quando tutto questo è iniziato, hanno dei sogni pandemici; ma evidentemente il virus ha esteso il suo dominio dal sogno all’immaginazione diurna.) Mi ricordo una discussione che ebbi a vent’anni o poco più in un negozio di dischi, a proposito di musica strumentale e musica elettronica, con il gestore di quello spazio angusto, lui con una mascherina nera da cui spuntava la folta barba brizzolata, io con la mia solita chirurgica spelacchiata e maleodorante. Impossibile; vero. Ma la cosa più sconcertante è che insieme ai falsi ricordi pandemici stanno venendo fuori anche dei falsi falsi ricordi pandemici: eventi realmente vissuti che la mia mente, nell’attimo in cui affiorano alla coscienza, istintivamente rubrica come falsi. Mi sembra impossibile, per dire, aver preso un volo intercontinentale, o essere stato pigiato dentro l’anello di uno stadio insieme ad altre novantamila persone (ma davvero ce n’entrano così tante in uno spazio così ristretto?). Mi sono rigirato questi pensieri in testa per settimane. Poi ho letto l’ultimo libro di Don DeLillo: Il silenzio.

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«Daniele Del Giudice, scienziato della parola»

Nel 2014 il biologo Edward O. Wilson concludeva il suo libro Il significato dell’esistenza umana con un appello lanciato agli uomini di scienza e a quelli di lettere, per riavvicinare i due mondi: auspicava che uno spirito umanistico e letterario animasse la scienza, soprattutto la divulgazione ma non solo; e d’altra parte invitava gli scrittori, specialmente i romanzieri, a interessarsi delle cose di scienza, a trattare biologia evolutiva e fisica quantistica come realtà nelle quali possono sorgere storie.

Esattamente trenta anni prima, nel 1984, Daniele Del Giudice si apprestava a mettere in pratica questo suggerimento. Dopo aver esordito con Lo stadio di Wimbledon, andava a Ginevra, al CERN, per visitare il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle. Vi sarebbe rimasto una settimana, prendendo meticolosi appunti di tutti i suoi incontri, e traendo ispirazione per un romanzo misterioso e affascinante, bellissimo: Atlante occidentale.

La scienza, anche quella dura come la fisica, ha ispirato generazioni di scrittori (oltre che di mistici): universi paralleli e viaggi nel tempo, per nominare due miti fondativi della fantascienza, sono spesso giustificati e corredati nei romanzi anche più pop da pagine e pagine di teorie e formule, affascinanti quanto inverificate. Ma qui Del Giudice fa scienza, non fantascienza: volendo, si potrebbe dire che fa science fiction nel senso più letterale e auspicabile del termine, narrativa sulla scienza.

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Il mio Roth preferito: La macchia umana

È stato il primo libro di Roth che ho letto: è successo quando, più o meno a cavallo tra lo scorso millennio e questo, ho pensato che era ora di smetterla di fare lo snob e leggere solo autori morti. Ho quindi iniziato dai classici contemporanei, e nel 2000 Roth classico lo era già. All’inizio però La macchia umana mi diede un po’ fastidio, proprio perché contemporaneo: tutti quei riferimenti a Clinton, al caso Lewinski (1998), a una Storia che a me sembrava ancora troppo vicina, contingente, cronaca. Ma subito dopo il libro prende il volo: grazie alla scrittura di Roth, alla sua capacità di prenderti per mano e guidarti per periodi lunghissimi eppure cristallini; grazie al suo genio capace di cogliere l’universale nel concreto, nell’immanente. Essere ebrei in America, essere neri in America – essere privilegiati o reietti in America: un groviglio di contraddizioni, un sovrapporsi di strati che la storia di Coleman Silk illumina.

E poi: Philip Roth è considerato uno scrittore misogino se va bene, altrimenti sessista, quasi becero nel privilegiare in modo assoluto il punto di vista del maschio. Eppure con Faunia Farley, l’inserviente analfabeta, ci ha regalato uno dei personaggi femminili più duri, spettacolari e sorprendenti dell’intera storia della letteratura. Ma sopra ogni cosa La macchia umana è un capolavoro sull’ineluttabilità di certi destini, o di tutti; sull’agire eroico e inutile di noi piccoli umani. Ha la potenza, e la bellezza, di una tragedia greca. Contemporaneo, classico.

(mio contributo al pezzo collettivo che si può leggere su Esquire Italia)


Borne in the USA

(Per gentile concessione dell’autore, pubblico questo articolo di Aristide Maselli uscito sulla rivista online Alfabeta2)

Nella metropoli dell’Atlantico meridionale dove sono nato, c’era un giardinetto in cui andavo quando ero piccolo. C’è ancora; anzi nel corso degli anni è stato migliorato: teorie di scivoli e tunnel dove prima era un prato spelacchiato, giostre elettriche dove una volta giravano dei pony mezzo drogati, una recinzione alta per evitare che di notte s’accampino ubriaconi e spinellati. Ma l’ultima volta che ci sono tornato, il giardinetto era chiuso: una vicenda che non ho ben compreso di alberi pericolanti e mancanza di fondi, la provvisorietà definitiva, insomma il solito mix di legalismo formalista e indolenza che abbiamo noi latini. Il parchetto, abbandonato a sé stesso per alcuni mesi, ha subito una metamorfosi sorprendente: un sottile strato di muschio ha ricoperto la pavimentazione, erbacce hanno forzato il passaggio tra le pietre, alcuni arbusti sono rinsecchiti, altri hanno avuto una crescita imprevedibile, assumendo forme abnormi. Colombi e altre bestiole meno visibili hanno colonizzato i manufatti umani, che nel mutato contesto assumono un’aria incongrua, spettrale. Uno spettacolo non bello – ché la natura non è bella ma semplicemente è: una visione miniaturizzata, potente e orrorifica, di quello che accadrebbe al mondo se si rompessero certi delicati equilibri.

E si badi: stiamo parlando di qualche metro quadro di giardino all’interno di un ambiente comunque fortemente antropizzato e controllato come quello di una grande città; e stiamo parlando dell’azione di forze naturali in una condizione di partenza compromessa ma non perdutamente degradata. Immaginate invece cosa succederebbe se un misto di catastrofi naturali e disastri umani decimasse la popolazione del globo; se i pochi superstiti iniziassero a vagare da una terra all’altra come profughi senza speranza, trovando fiumi sempre più inquinati, animali mutanti sempre più arrabbiati; se gli ultimi agglomerati venissero soggiogati da una misteriosa Compagnia dedita alla creazione di esseri-macchina, innesti di biologia e tecnologia, per scopi non benefici, e che le stesse creature, tra cui un plantigrade alto come un palazzo e in grado di volare, sfuggissero al controllo dei creatori seminando morte e distruzione. È in simile scenario, disperato e finale, che Rachel incontra il protagonista dell’ultimo, eponimo romanzo di Jeff VanderMeer.

Trovai Borne in una plumbea giornata di sole in cui Mord, l’orso gigante, si aggirava dalle parti di casa nostra. Ai miei occhi non era che materia organica di risulta, all’inizio. Non sapevo quanto sarebbe stato importante per noi. Non potevo sapere che Borne avrebbe cambiato tutto.

Questo è l’incipit di Borne (Einaudi, pag. 340, traduzione di Vincenzo Latronico). Un incipit fatto bene ti aggancia e fa venire voglia di continuare. Un incipit capolavoro è in grado di contenere, sia stilisticamente sia nella narrazione, l’intero libro che segue – non so, mi vengono in mente quello lussureggiante e pieno di time shift di Cent’anni di solitudine, o quello secco e psicotico de Lo straniero. VanderMeer ti mette ko in quattro parole: plumbea giornata di sole. Che mondo marcio sarà mai questo? È già tutto lì: il resto è una chiosa, una pleonastica e meravigliosa spiegazione.

Effetto simile me l’aveva provocato l’anno scorso Annientamento, primo libro della Trilogia dell’Area X (Autorità e Accettazione gli altri due; da poco Einaudi ha ripubblicato in volume unico il tutto), trilogia che della fantascienza ambientalista o new weird che dir si voglia di Jeff è – finora – il capolavoro. Verso l’inizio la protagonista, raccontando la spedizione nell’Area X, parla della sua squadra formata da una psicologa un’antropologa una biologa e una topografa, e dice: “Io ero la biologa”. Cioè, in che senso ero? (Qui dove scrivo non ho visto Annihilation, il film Netflix con Natalie Portman tratto da; ma voi che mi leggete nel futuro sì, invidia.) Eppure la trilogia, nella sua magnifica e angosciante bellezza, mi aveva progressivamente deluso: come se il passo lungo non reggesse la tensione; come se la necessità di spiegare tutto, alla fine, non riuscisse a cavarsi dall’impasse tra la banalizzazione e il finale alla Lost. Colpa del suo merito, della sua ambizione di voler essere romanzo mondo, onnicomprensivo e corale, al di là dello spazio e del tempo. Qui invece VanderMeer stringe il campo, e azzecca il colpo gobbo: non spiega – se non a brandelli – non teorizza, non contestualizza – potremmo essere sulla terra ma anche su un altro pianeta, in un futuro lontano o più probabilmente in un presente alternativo.

Come mai il mondo è diventato così?
Non lo so. Per colpa delle persone, Borne. Siamo stati noi a fare tutto questo -. E continuavamo a farlo.
È sempre stato così?
Non sempre. C’erano più persone, era meglio -. Ma non dipendeva dal fatto che ci fossero più persone.
Più persone, – aveva detto Borne, riflettendoci su.
Sì. E in tutto il mondo c’erano delle città in cui le persone vivevano in pace -. Non c’era mai stato un tempo in cui tutti, ovunque, vivessero in pace. Nessuno aveva mai conosciuto una pace duratura, se non ignorando le atrocità della storia, e cioè il fatto che la pace non aveva niente di duraturo. Il che significava che eravamo una specie irrazionale.
Città ovunque, – aveva detto Borne, come incapace di comprendere il significato delle mie parole.

 

Il bello di Borne (libro) è che Borne (personaggio) è un mistero anche per i protagonisti della storia, non solo per il lettore. All’inizio sembra una cosa, poi uno scarto organico. Poi Rachel se lo porta a casa e lo tratta come una pianta; poi scopre che si muove; infine inizia a parlare, prima a ripetere le parole degli altri poi a fare domande, a capire. Ehi ma, state pensando anche voi, è precisamente quello che succede con un bambino! Eh già, bravi; d’altra parte il gioco è esplicito fin dal titolo: Borne è born(nato) ma anche borne (portato), participio passato di bear (che vuol dire anche orso). È il figlio che Rachel e il suo socio-compagno Wick non potranno mai avere, è l’incarnazione di un desiderio? Se sentite anche voi puzza di metafora, state tranquilli: è molto di più, e molto di meno.

Proprio come un figlio Borne cresce, anche fisicamente, e poi se ne va a dormire in un’altra stanza, e poi scappa di casa, e infine viene cacciato di casa. Ma la similitudine ha un limite, perché Borne non è un adolescente ribelle, non è un umano, forse non è nemmeno un essere vivente – cosa è non lo sa neanche lui, e non smette di chiederselo – ha una forma e un colore assurdi, anche se può variarli più o meno a piacimento; e fa delle cose terribili che lui chiama “conoscere”. È un mostro, come il figlio-mostro della Metamorfosi di Kafka? (E qui c’è un critico, del cui nome non voglio ricordarmi, che avanza in privato una interpretazione psicanalitica aberrante: Borne sarebbe la proiezione del desiderio frustrato di genitorialità, sì ma non dei personaggi, bensì dell’autore, di Jeff VanderMeer e sua moglie Ann, socia collega e sodale; questa impossibilità deriverebbe poi dalla omosessualità latente e repressa di Jeff, che verrebbe a galla nella sua tendenza a scegliere protagoniste femminili, e a immedesimarsi in esse alla perfezione).

Il cielo era solcato da avvoltoi – buon segno. Un cadavere voleva dire che c’era stato qualche cosa di vivo, almeno temporaneamente.

Quasi contemporaneamente, è uscita una stupenda antologia di racconti, curata da Ann e Jeff: Le visionarie. Fantascienza, fantasy e femminismo(Nero Editions, pag. 536, coordinamento traduzioni di Claudia Durastanti e Veronica Raimo). Autrici che dagli anni 70 a oggi hanno rivoluzionato la letteratura combattendo una doppia battaglia contro le discriminazioni: di genere (femminile) e di genere (fantascientifico). Pilastri come Ursula Le Guin e James Tiptree jr., ma anche nomi meno noti ma altrettanto meritevoli (molti dei quali, tra l’altro, destinatari delle deliranti lettere di Jan Schrella ne Lo spirito della fantascienza di Bolaño, ma questa è una storia che in parte abbiamo già raccontato, e in parte non racconteremo mai).

Racconti diversi per ambienti e stili, ma accomunati da fili conduttori: mondi alternativi spesso crudelmente impossibili, o prossimi al precipizio; mutazioni animali e miseri umane. Leggere Le visionariegiustapposto a Borne – cosa che consiglio di fare, cioè leggerli entrambi ASAP – è suggestivo: si finisce per pensare che curatori e autori abbiano lavorato ai due libri contemporaneamente, e che idee e topos si siano riversati dall’uno all’altro, come in una sorta di progetto transmediale e collettivo.

Eravamo crostacei senza coscienza, sia morti sia vivi.

Chi vi ricorda? Esatto. VanderMeer non ha timore di citare, omaggiare, frullare e ricreare in modo originale, tutto quanto c’è stato di grandioso nella letteratura fantastica degli ultimi decenni. L’ambiguità tra umano e “creato” è puro Dick, perché se gli androidi sognano pecore non elettriche, allora anche gli umani possono avere ricordi impiantati. Gli innesti di tecnologie nei corpi pagano dazio alla tradizione cyberpunk, ma gli inserimenti di materiale biologico nei macchinari mi sembrano meno vicini alla science fiction (e più alla realtà odierna?). Certi paesaggi sconsolati senza redenzione, inquinati senza speranza, incapaci di uccidere solo perché siamo tutti già morti, sono cugini stretti di Antoine Volodine (Terminus radioso, ma anche Gli animali che amiamo, 66thand2nd editore) – e nipotini delle interminabili agonie di Beckett.

Summa del genere e capolavoro autonomo, Borne (il libro, non il personaggio) che cos’è? Azzardo: la distopia post-apocalittica di un’ucronia; ovvero il futuro andato a male di un presente alternativo. O forse no – o forse no.

E tu cosa avresti fatto, lettore, che sei riuscito a seguirmi come mi ha seguita la Maga, invisibile e sempre all’erta e completamente irrilevante?

 


Natura morta con playlist

Ci sono le storie troppo belle per essere vere. E storie troppo belle per essere false. Dicerie, aneddoti, voci di corridoio, supposizioni, deduzioni, semplici fantasie: che illuminano un personaggio o un’epoca meglio della realtà. (La realtà è sopravvalutata). Storie assolutamente plausibili, ma irrimediabilmente false. Storie perfette, e chi se ne frega se non sono mai accadute. Sarebbero potute accadere. Sarebbero dovute accadere.

DYER_cop einaudiSono passati vent’anni e finalmente qualcuno (Einaudi) si è deciso a ristampare Natura morta con custodia di sax, uscito nel 1993 per la piccola Instar – non così piccola da allora, grazie anche al successo di quel libro. Un capolavoro. Di più, un capostipite: oggi, e col senno di poi, viene individuato come uno dei primi esempi di quello stile – narrativa non-fiction o saggistica raccontata – che ora va per la maggiore, anzi sembra l’unico accettato. Quello di Gomorra per intenderci, ma soprattutto quello di Limonov e L’avversario. Però, a pensarci bene, c’è una distinzione, sottile ma non piccola: le semi-biografie di Emmanuel Carrère, e tutte le altre opere simili, partono dai dati reali per poi lavorare di fantasia, facendo fill the gap dove le informazioni mancano o aggiungendo particolari che servono alla trama. Geoff Dyer fa il cammino al contrario, parte da suggestioni e fantasie tutte sue, ispirate a canzoni o fotografie, e solo dopo ricerca qualche appiglio reale. Perciò questo articolo vuole rispettare la sua invenzione stilistica, che programmaticamente ricalca l’intreccio tra improvvisazione e composizione, tra invenzione e citazione dai classici, tipico del jazz, e impossibile da districare, come lui stesso dice in prefazione. E vuole essere memore del monito di George Steiner, citato in postfazione, sulla pleonasticità di qualsiasi commento sulla musica e l’arte, in quanto parassitario e di secondo livello – senza contare che un pezzo tradizionale su Natura morta rischierebbe addirittura di essere di terzo livello, un commento sul commento. Perciò questa non è una recensione, né tantomeno un lavoro da detective alla ricerca delle fonti, un’indagine per distinguere il falso dal vero. Ma una risalita alle fonti immaginarie, alle suggestioni musicali e fotografiche che stanno dietro la scrittura: arbitraria e parziale, proprio come lo sono quelle. Insomma, è una playlist.

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La carica dei 101 microromanzi quantistici

paterlini

Piergiorgio Paterlini, Fisica quantistica della vita quotidiana, Einaudi

I titoli sono una trappola: per il lettore, ma anche per l’editore. Un titolo come Fisica quantistica della vita quotidiana è pensato per attirare, ma può anche spaventare o indurre confusione: con quell’aria non certo da trattato accademico, ma da manuale divulgativo pur sempre ostico. Invece non è un saggio scientifico, e neanche filosofico: è molto di più, è narrativa. La citazione esplicita da Freud (Psicopatologia della vita quotidiana) cela un altro riferimento, al più grande bestseller degli ultimi anni: La solitudine dei numeri primi. Anche lì, infatti, il gioco era accostare due mondi opposti: sentimenti e matematica, fisica e quotidianità. Cosa c’è di più lontano dalla vita quotidiana della fisica quantistica, una disciplina che studia l’infinitamente piccolo, e la cui carica innovativa sta proprio nel postulare che le particelle elementari sono soggette a leggi che non valgono nella realtà di tutti i giorni? Eppure questo libro vuole dimostrare proprio il contrario, ma lo fa per vie traverse.

Meno male che ci viene in aiuto il sottotitolo: 101 microromanzi. Prescindendo un attimo dalla differenza tra microromanzo e microracconto (che ovviamente sarebbe modulata sulla differenza tra romanzo e racconto, e che secondo Jacopo Cirillo su Finzioni consiste nel fatto che il secondo si fonda sull’ellisse, sul non detto, mentre il primo crea un mondo) quel che ci troviamo davanti sono 101 oggetti narrativi, minuscoli e potenti. Storie folgoranti di una pagina, una pagina e mezza al massimo; ma spesso molto più corte: tre righe, un rigo solo, addirittura in un caso al titolo segue soltanto un emoticon. Le ambientazioni e i generi, per così dire, sono i più vari, sono quasi tutti: c’è la storia d’amore, il giallo, la fantascienza, il neorealismo, l’horror, il romanzo di formazione… A volte si tratta “solo” di storielle divertenti, battute; ma anche quando c’è dell’altro, rimane costante il gusto del surreale, della provocazione, del gioco letterario alla Queneau. E si capisce, se si tiene presente chi è Piergiorgio Paterlini: un fromboliere delle parole, giornalista (fondatore con Serra del mitico Cuore) e scrittore fiction e non-fiction (Matrimoni gay).

Ma il punto è un’altro. Le 101 storie celebrano l’apoteosi, elevano a paradigma la caratteristica principale del racconto breve, che è l’effetto sorpresa, la capacità di rovesciare tutto con la frase finale (di rovesciare tutto quello che si era dato per scontato, avete presente La sentinella di Fredrick Brown, e perciò è giusto parlare di ellisse come caratteristica del racconto, ma appunto ecco perché secondo me si tratta di racconti e non romanzi, con buone pace di altri e dello stesso autore). La bravura, e la capacità di non annoiare, di Paterlini sta nel modo sempre diverso in cui l’effetto è raggiunto. A volte cambia il punto di vista: un uomo picchia un ragazzo che si agita e tenta invano di divincolarsi, arriva la polizia, anzi no è un’ambulanza, il personaggio pericoloso viene infine bloccato, ma è il ragazzo, un povero epilettico. A volte cambia la natura del protagonista, che noi diamo per scontato sia un uomo: assistiamo all’esecuzione di un condannato, e invece è un rospo torturato da ragazzini; in un altro caso è addirittura Dio che crea l’universo. Insomma, alla faccia “di chi crede che la realtà sia quella che si vede”, come diceva il poeta. Ecco che cosa c’entra la fisica quantistica: se quella è la scienza dopo la quale l’ipotesi di universi paralleli non è più una fantasia di romanzieri allucinati, la scienza che ci insegna che l’osservatore modifica un fenomeno con il solo fatto di osservarlo (sì, è il noto principio di indeterminazione di Heisenberg, bellissimo nella sua semplicità) , questo libro ne è l’applicazione pratica in letteratura.

Paterlini ci crede: tanto è leggero e scanzonato nei racconti, quanto appassionato e convinto nei paratesti. Sul sito dell’Einaudi chiarisce che da un lato non esistono fatti ma solo interpretazioni, per dirla con Nietzsche

Ho scritto questo libro per invitare le persone a vedere i fatti con il criterio della complessità, per far capire che un gesto nasconde mille significati possibili e spesso opposti, e per questo abbiamo inventato la parola e la scrittura

ma dall’altro lato puntualizza: che questa storia non sia una scusa per togliere valore alle parole, tanto un’interpretazione vale l’altra, e quindi ognuno può dire quello che vuole, o al limite anche stare zitto

è vero che anche la parola può essere ingannevole, è ovvio, ma mica tutti sono politici. Mica tutti sono marinai. Basta pensare che parliamo solo per fotterci a vicenda. Qualcuno parla anche con sincerità. E ho scritto questo libro per urlare che il silenzio non è mai, dico mai, una risposta. Che con il silenzio – salvo rare, dichiarate eccezioni (ma se dichiarate entrano nella categoria del “dire” non del “non dire”) – non si va da nessuna parte. Di sicuro, il silenzio non è una risposta chiara, univoca. Uno può dire: «non voglio parlarti mai più». Ma deve dirlo. Almeno questo. Non cucirsi la bocca e basta.

Ed ecco che c’entra anche la filosofia. Fisica quantistica della vita quotidiana entra in punta di piedi, con la modestia del profano, ma con la potenzialità di una bomba nel dibattito che da un annetto a questa parte sta appassionando i filosofi, beati loro. La diatriba che oppone i reduci del postmodernismo e del pensiero debole ai ringalluzziti alfieri del new realism: quelli che “esistono solo le interpretazioni, non i fatti”, e quelli che “esiste la realtà, unica e dura”. Esistono i fatti, certo che sì. Ed esistono le interpretazioni. Che sono infinite. Proprio come sono infiniti i motivi per amare questo libro.

(Articolo uscito sul Mattino di oggi)


L’accusata. Tratto da una storia Wiera

Agata Tuszynska, Wiera Gran. L’accusata, Einaudi, traduzione di Margherita Botto, pag. 336, euro 20

Questo libro è tratto da una storia falsa. Wiera Gran. L’accusata parla di Vera Gran, all’anagrafe Wiera Grynberg, e già sul nome abbiamo più versioni. Donna di bellezza magnetica (come si vede nella foto di copertina), cantante dalla voce calda e sensuale: questi due – e l’ambientazione nella Varsavia occupata dai nazisti – sono gli unici punti su cui tutti sono d’accordo. Per il resto, la storia della Gran sono due storie, e allora per forza di cosa una sarà vera e l’altra falsa: ma quale? Da una parte c’è la ragazzina ebrea di talento che ogni impresario teatrale vuole portarsi a letto, dall’altra la giovane donna altezzosa e fredda; da una parte l’artista nel ghetto che per mantenere sé, la mamma e le sorelle, non può far altro che esibirsi dovunque e comunque, dall’altra la diva che calca le scene di locali ambigui frequentati da tedeschi e collaborazionisti; da una parte la benefattrice che fonda un orfanotrofio, dall’altra la riccona, la “puttana della Gestapo”; da una parte quella che riesce a fuggire dal ghetto e resta nascosta come un topo fino alla fine della guerra, dall’altra quella che viene vista girare liberamente per la parte ariana della città, e sempre in compagnia di alti ufficiali dei Reich.

Finita la guerra, scampato l’orrore della deportazione e del lager, inizia l’orrore che accompagnerà Wiera per tutta la sua lunghissima vita: si presenta da Szpilman, il suo pianista di tanti concerti, e quello invece di accoglierla con un “Che bello rivederti viva”, dice “Come, non sei morta?!”. Sarà solo il primo di tanti: la meraviglia si muta in sospetto, il sospetto in accusa. Nell’immediato dopoguerra ebrei e polacchi erano molto severi con i collaborazionisti, e c’è da crederci. Wiera si fece processare per fare chiarezza, e fu anche assolta. Ma quell’ombra, quella costante occasione di ricatto, la perseguitò ovunque, dalla Francia a Israele fino in Sudamerica: fino a stroncarle una carriera sempre sul punto di spiccare il volo (si esibì a fianco di Aznavour, venne definita “la Piaf polacca”) ma mai definitivamente decollata; fino a farla lentamente impazzire. Szpilman, il pianista, scrisse un libro, da cui venne tratto il famoso film di Polanski: nel libro, e nel film, la Gran semplicemente non c’è, una sorta di damnatio memoriae a vittima ancora in vita.

Agata Tuszynska, figlia di una sopravvissuta del ghetto, è autrice di biografie (Isaac B. Singer) come di dolorosi racconti di vicende familiari: qui tiene insieme magnificamente entrambi i lati. La giornalista-scrittrice conosce Wiera Gran nel 2003, quando ormai l’ex cantante vive barricata in casa, e tormentata dai deliri di persecuzione (se ne intuisce il motivo…) vede microspie e scarafaggi dappertutto. Ma la Tuszynska non demorde, si fa raccontare da lei tutto quel che ricorda, cerca di separare l’astio dalla paranoia, compulsano insieme atti giudiziari e lettere private; poi cerca e interroga tutti i testimoni dell’epoca, quelli ancora vivi. Il libro non è una biografia romanzata, ma neanche un’inchiesta: piuttosto la storia del coinvolgimento personale dell’autrice mentre conduce l’inchiesta. Agata più va avanti, tra documenti e racconti, più i dati che accumula sono divergenti, contraddittori, finché si convince che trovare la verità non è impossibile: è inutile.

Pensiamoci: è facile parteggiare per le vittime o per gli eroi; è comodo per noi, che nel ghetto o a Treblinka non ci siamo mai stati, metterci nei panni di Anna Frank o di Primo Levi, di Schindler o di Perlasca. Mettiamoci invece nei panni della gente comune, che in una situazione estrema ha una sola, risicatissima possibilità di sopravvivere. Faremmo di tutto per portare a casa la pelle? E che si intende per “tutto”? E che si intende per “collaborare”? Arruolarsi nella polizia ebraica, che aiutava i tedeschi a caricare i propri fratelli sui treni diretti ai campi di sterminio, certo, è collaborare – anche se pure su quello ci sarebbe da dire, perché la deportazione non era iniziata subito, e la polizia era una specie di servizio d’ordine, si trattava in sostanza di fare da cuscinetto tra Gestapo ed ebrei. Ma per esempio, redigere un giornale che per forza di cose sarà sottoposto al controllo tedesco, quando scrivere è l’unico lavoro che si sa fare: è collaborare o tentare di sopravvivere? E gestire un locale dove inevitabilmente verranno a farsi un bicchiere ufficiali invasori? E cantare in uno di questi locali? Ed essere costretta, come capitò a Wiera, a esibirsi un paio di volte e sotto implicita minaccia (di cosa, è ovvio) in una festa a casa di un noto collaborazionista?

No, giudicare non è possibile, provare a capire invece sì: questa è l’unica verità. Perciò, questo libro è tratto da una storia vera.

(Versione integrale dell’articolo uscito oggi sul Mattino)


Le sue prigioni

Sandro Bonvissuto, Dentro, Einaudi 2012, p. 184, euro 17.50

Gilbert Keith Chesterton, nel romanzo giallo L’uomo che fu Giovedì, nomina una torre posta ai confini del mondo “la cui sola architettura è malvagia”. Borges chiosa proponendola come esempio di puro orrore, il quale nasce dal mostruoso, dall’asimmetrico, dall’inconcepibile (al contrario, l’Inferno immaginato da Dante è formalmente perfetto e altamente funzionale). Anni dopo, il Michel Foucault di Sorvegliare e punire mostrerà che quella torre non solo esiste, non solo non è lontanissima anzi sta in mezzo a noi, ma è anche perfettamente razionale: si chiama carcere. Oggi Sandro Bonvissuto ci prende e ci mette direttamente all’interno di quell’architettura malvagia.

Basterebbe il titolo del libro: Dentro. Basterebbero le prime pagine, in cui senza raccontarci un prima o un perché, ci porta con lui in piena notte, da una macchina a un corridoio pieno di cancelli, attraverso stanze sempre più vuote, fino a una cella. Potrebbe bastare, ma non basta. Perché Bonvissuto – laureato in filosofia e cameriere in un’osteria romana, 42 anni e all’esordio letterario – descrive minuziosamente la prigione e il suo essere costruita apposta per offendere: interminabili sequenze di porte metalliche, ballatoi da psicosi, finestre senza vetri anche con la pioggia e d’inverno, bagni senza porte che ti danno la sensazione di vivere costantemente in una fogna, docce senza tende così che il lavarsi – ma anche quell’altra cosa che si fa senza vestiti – avvenga sotto gli occhi di tutti. Fino al muro, “il più spaventoso strumento di violenza esistente”. Descrive, Bonvissuto, e insieme riflette: la caratteristica della sua scrittura è quella di far procedere di pari passo il fatto e il pensiero. A ogni micro-avvenimento raccontato, segue una micro-scheggia di riflessione: un pensiero tagliente e lucido come un coltello, che ogni volta in mezza paginetta sviscera concetti come il tempo, il suicidio, ma anche la notte e la televisione. Con apparente nonchalance, con una densità quasi insostenibile.

Ci sono anche gli episodi, certo, perché è comunque un racconto e non un saggio, e sono episodi altrettanto allucinanti: dalla biblioteca a disposizione dei detenuti che consiste in un solo libro, fino al raggiungimento dell’estrema spersonalizzazione, di cui ti rendi conto quando i secondini urlano il tuo nome e tu non capisci che stanno chiamando te. Ma è la riflessione a essere centrale, e tra tutte la riflessione centrale riguarda il reato: in carcere si parla solo di quello, con i familiari con gli avvocati con i giudici, finché ogni detenuto finisce per identificarsi con il proprio reato, per assomigliare, lombrosianamente, al proprio reato. Perciò Bonvissuto, conoscendo il potere della parola, anzi sapendo che la parola è l’ultima forma di resistenza, decide di non nominarli mai, i reati: né il suo né quelli degli altri, né per soddisfare la nostra curiosità né quando sarebbe proprio necessario per capire un episodio.

A un certo punto, ben oltre la metà delle 170 pagine del libro, la storia della sua breve esperienza in galera finisce. E seguono un po’ incongruamente altri due scritti molto più corti – racconti a sé? capitoli di un romanzo che procede a salti temporali e all’indietro? non si sa, non importa – uno ambientato all’inizio del liceo e un altro nel mondo magico dell’infanzia. E qui si vede la classe: perché se si tratta di un’esperienza estrema come il carcere, si può immaginare che produca concetti, pagine altrettanto estreme; facile, viene da dire, se hai visto i mostri in faccia, riuscire a raccontarli. Ma Bonvissuto applica lo stesso metodo ai fatti quotidiani, continuando a inanellare folgorazioni e piccole verità: sulla morte dei cortili, sul perché i profeti siano tutti storpi, sull’origine dei banchi a due, sulla stretta relazione tra pensare e camminare. E allora si capiscono due cose. Uno, che il titolo non è riferito (solo) alla prigione, ma a un dentro più intimo, all’anima delle cose e delle persone. Due, che non c’è giustificazione: se riesce a tirare fuori l’impensabile anche da una cosa che abbiamo fatto tutti come imparare ad andare in bicicletta, allora non c’è niente da fare, è di un’altra categoria.

(Versione integrale dell’articolo uscito ieri sul Mattino di Napoli)


Da Wu Ming al jazz etiope, siamo tutti meticci

Ci sono due tipi di libri magici. Quelli che ti trascinano nel loro mondo, e quelli che invadono il tuo mondo. I libri del primo tipo sono quelli che mentre li leggi, la realtà esterna svanisce e tu sei completamente risucchiato nell’universo della finzione; poi magari chiudi il libro, e finisce lì. I libri del secondo tipo sono quelli che mentre li leggi, sì bello, ma magari ti puoi pure distrarre, te ne puoi pure staccare senza tanta pena; però poi, mentre sei lì che vai al lavoro, o che carichi la lavastoviglie, ti sorprendi a pensare: chissà che starà facendo tizia, chissà come va a finire quell’incontro di caio. E ti accorgi che pensi ai personaggi del libro come a delle persone vere, peggio, come a degli amici.

Wu Ming 2 e Antar Mohamed, Timira, Einaudi

Ora , è vero che nel caso di Timira i personaggi sono persone vere per davvero. Ma è anche vero che sono protagonisti di vicende così straordinarie, eppure così emblematiche, da meritare la qualifica di romanzesche: da meritare un romanzo. Timira è il libro che ho scelto per l’ultima puntata – per quest’anno – della mia rubrica radiofonica Il libro che suona (che cos’è) nella trasmissione Flatlandia su Radio onda d’urto. A Flatlandia avevano già parlato di questo “romanzo meticcio” la settimana scorsa intervistando Wu Ming 2. Comunque: è la storia di Isabella Marincola, nata a Mogadiscio da un ufficiale italiano e una donna somala, portata a neanche due anni a Roma, cresciuta lì con la moglie del padre insieme al fratello Giorgio (che morirà partigiano nel ’45), modella e attrice, tornata a Mogadiscio nel ’62 per sposare un somalo conosciuto in Italia, ritornata qui nel ’91 come profuga a causa della guerra civile che sconquassa(va) la Somalia. Meticcia la protagonista, meticcia la scrittura: Antar Mohamed, coautore, è il figlio di Isabella nonché ovviamente personaggio del romanzo.

Come si capisce, questa storia personale incrocia più volte la Storia cosiddetta maiuscola – come sempre nelle narrazioni del collettivo Wu Ming e suoi derivati. Ed è una Storia in parte dimenticata, rimossa: quella del colonialismo all’italiana. Un aspetto di cui non ci siamo mai presi la responsabilità fino in fondo, a differenza di imperi come Francia o Inghilterra, che con le ex colonie hanno un rapporto molto stretto, in parte non risolto, ma comunque riconosciuto. Noi no, e questo sia a livello politico che a livello di coscienza sociale: se mi chiedi a bruciapelo “L’Italia è stata una potenza coloniale?” ti rispondo no, quando mai. Forse perché la Seconda guerra mondiale ci ha messo mentalmente nella parte dei perdenti, dei poveracci, altro che potenza, e poi noi il fascismo lo abbiamo subito, mica voluto. Una sorta di rimozione collettiva, che ci porta a sapere magari tutto sulle schifezze fatte dal re del Belgio in Congo, o ad aver imparato a memoria La battaglia di Algeri, e però ignorare la Somalia, sia di allora che di ora.

Altre rimozioni toccate nel libro: episodi come la strage di Stramentizzo, dove perde la vita Giorgio Marincola, unico partigiano coloured della storia d’Italia, a quanto risulta. Questo eccidio nazista, attenzione alle date, avviene il 4 maggio ’45, cioè nove giorni dopo la conclusione ufficiale delle ostilità: che a guerra brutta e finita ci siano stati scontri e stragi come quella, non è proprio una cosa che abbiamo tutti sulla punta della lingua.

L’oblio storico fa pendant con quello personale: Isabella Marincola è un nome che a nessuno dice niente – anche a causa del fatto che nelle sue apparizioni pubbliche figurò di volta in volta con il cognome del padre, con quello della madre, con quello del primo o del secondo marito, e in certi casi cambiando anche il nome proprio in Timira, appunto – ma visse da protagonista nella scena artistica romana del dopoguerra. Modella per pittori e scultori, compreso un arrapatissimo Guttuso, ma diciamo che nessuno si salva dal cliché del “sarà disponibile in quanto”… giovane modella squattrinata? o giovane gazzella africana? Ma anche attrice, di teatro e di cinema: era una delle lavoratrici del mitico Riso amaro – en passant, la mondina con la pelle nera, un impossibile nel vercellese del ’48, eppure fortemente voluto dal regista De Santis: per dire quanto di surreale, di fantastico, di letterario ci fosse nel cosiddetto neorealismo. Anche se poi proprio a causa del suo color caffellatte non ha potuto mai avere parti di primissimo piano. Comunque i suoi ricordi sono pieni di incontri con personaggi famosi: c’è per esempio una bellissima foto con Sordi – nel libro è costante anche se discreta la presenza di materiali d’archivio e immagini – e c’è uno scambio di battute in cui il mammasantissima Indro Montanelli fa la figura del razzista cretino.

Il disco con cui ho azzardato il parallelo è:

Mulatu Astatqè, Ethiopiques 4, Buda musique

Azzardato perché, come racconta la stessa Isabella in una memorabile pagina che in radio ho letto, l’Etiopia non è la Somalia, guarda un po’. Anzi è “un vicino ingombrante, sempre pronto a invadere, a imporre un impero”. E ricevere, come le è capitato, un mazzo di rose con annesso biglietto “Per la principessa Makonnen”, sovrana etiope appunto, è un po’ come se a una signorina polacca un cascamorto tedesco offrisse dei fiori con dedica “Per la zarina di Russia”. Con sprezzo del pericolo, mi sono avventurato nel paragone. Un po’ per le somiglianze storiche di fondo – anche l’Etiopia è stata colonia italiana – che fanno risaltare ancora di più le differenze, e un po’ per essere meticci fino in fondo.

Mulatu Astatqè è nato in Etiopia, ha studiato musica in Galles, poi a Londra, e infine – primo africano in assoluto – all’università mondiale del jazz, la Berklee di Boston. Vibrafonista e compositore, fu seguace, come tanti jazzman dell’epoca, dei ritmi afro-caraibici; in seguito si è inventato una originale miscela di latin jazz e musica etiope, fondando quello che è passato alla storia come un genere a sé, l’Ethio-jazz. Ecco: considerato che l’Italia ha avuto dal ’50 al ’60 l’amministrazione fiduciaria della Somalia – cioè la gestione del cammino verso l’indipendenza, oggi diremmo transizione democratica – ed è stato un caso unico nella storia, dato che non si è mai fatto fare il tutor all’ex colonizzatore; considerato che invece l’altra parte dell’Africa orientale, l’Etiopia appunto, fu affidata agli inglesi; insomma, e forzando un po’ la mano, potremmo evidenziare la differenza dei risultati: loro hanno prodotto Mulatu Astatqè, noi Siad Barrè.

E per chiudere, a proposito di meticciato. Uno dei leitmotiv di Timira è “essere profughi significa…”, e di volta significa una cosa diversa, ma mai consolante. Io direi che la parola centrale non è profugo, è un’altra: questo libro va al di là dei meritori, e centratissimi, obiettivi di chiarezza storica e sociale. Oltre le intenzioni coscienti degli autori, resta poi l’oggetto narrativo come cosa autonoma: e questo Timira, come i migliori prodotti della letteratura contemporanea, pone il problema dell’identità. Chi sono? Chi sei? Chi è Isabella Marincola / Timira Hassan, africana di nascita ed europea di educazione, negra che traduce il greco e il latino, troppo scura per non essere guardata con razzismo in Italia e troppo chiara per non essere vista con sospetto in Somalia, ragazza a Roma e donna a Mogadiscio – ma senza imparare in trent’anni più di qualche parola in somalo – e anziana a Bologna?

C’è un bellissimo passaggio che parte dalla parola “stronza” per diventare un apologo sull’equivoco verbale, sull’equivoco tout court: o lo leggete direttamente nel libro, o lo ascoltate qui – letto da me e con il sottofondo di Mulatu – e mi dite com’è venuto.