La fiction su De André è un vangelo apocrifo

Io non volevo vederlo, questo film su Fabrizio De André, non volevo neanche sentirne parlare: non volevo proprio che esistesse. Il primo istinto, quando qualche tempo fa ho saputo che lo stavano facendo, è stato quello di comprare un biglietto per Marte, di fuggire il più lontano possibile da questa cosa. Perché lo so, lo sappiamo tutti, come sono i biopic: come riescano a banalizzare, ad appiattire, anche quelli fatti meglio; come riescano a fare di un personaggio pubblico – ovvero un personaggio di cui ognuno ha la propria versione, la propria interpretazione privata – un eroe nazionale, un santino uguale per tutti. Per fortuna finora la cosa mi aveva toccato solo di striscio: Padre Pio, Oriana Fallaci, Pietro Mennea… non è che siano proprio i miei miti, ecco. Ma De André, è diverso. Se per te che leggi è la stessa cosa, puoi capire; se no, pensa al tuo equivalente.

Poi è successo che ho letto una cosa scritta dagli sceneggiatori (Giordano Meacci e Francesca Serafini), i quali parlano di “tradimento voluto”, “memoria distorta”, “inventato dal vero”, e insomma la curiosità mi è venuta. Ed è vero: è tutto vero, quello che scrivono loro sull’interpretazione, quindi è falso, è tutto falso quello che si vede nel film. Cioè, si fa per dire: i tratti essenziali della biografia ci sono – quelli noti perché pubblici, quelli meno noti sono stati ricostruiti insieme a Dori Ghezzi, che ha appoggiato l’operazione. Ma se le biopic normalmente si risolvono in agiografie, questo è un vangelo apocrifo (d’altra parte, non era stato lo stesso De André a utilizzarli come fonte della Buona novella?).

(Continua su Esquire)


Il gioco dell’universo

(Questo racconto è stato pubblicato il 19 gennaio 2018 dalla rivista online CrapulaClub)

ISTRUZIONI PER L’USO
Questo racconto si può leggere in due modi, come il romanzo Il gioco del mondo. Si può cominciare dall’inizio, e proseguire fino a che la parola FINE non indica chiaramente la conclusione della vicenda. Oppure si possono seguire le indicazioni tra parentesi: ogni volta che si trova una lettera maiuscola tra parentesi, si scende a leggere il paragrafo contrassegnato da quella lettera nella sezione “Da altre parti”; alla fine di quel paragrafo poi si trova un numero, che riconduce su, a un paragrafo delle sezioni precedenti. Spero che sia chiaro, e che Palmer Eldritch mi perdoni.

A B., C., D. e…

(Z)

Dall’altra parte

1
Avrei trovato la? È a quest’ora, è quando arriva quest’ora, soprattutto, che devo resistere alla tentazione di abbandonarmi, di parlare, di raccontarle tutto. Il bevatrone è a riposo, o meglio va avanti da solo, per un po’. Lei è là, dietro al bancone, che mi prepara l’aperithe senza guardarmi. Io sono qua, come tutte le sere, che mi trattengo.
(F)

2
Lei è solo una ragazza, la ragazza del bar, una brava ragazza a quanto sembra, anche se tra noi non c’è quasi dialogo. Eppure per me è importante: certo non è la persona con cui ho più confidenza nell’universo (ma poco ci manca, e questo la dice lunga su come sono messo), però è sicuramente quella che vedo di più. Io non sono la stessa cosa per lei, lo so, di clienti il locale dell’aperithe obbligatorio ne ha tanti, ognuno coi suoi gusti, il matcha latte, il caffè turco, il litchi scremato. Ma non è questo il motivo per cui, alla fine, riesco a tacere, a non seccarla con me e il lavoro e la mia questione privata, anche se mi becca nel momento più deprimente della giornata: è che sarebbe inutile.
Raccontare, ogni tanto penso, significa far ricordare: riportare alla memoria di chi ascolta, rimembrare una cosa che già sa. Rifletteteci un attimo: tutte le volte che qualcuno vi ha spiegato o narrato qualcosa, e questo qualcosa lo avete davvero afferrato, vi ha davvero fatto risuonare una corda dentro, ebbene non avete avuto l’impressione che quella cosa la sapevate già, l’avevate sempre saputa? Non si può dire niente di nuovo: non si può realmente comunicare, se non qualcosa che la persona davanti a voi, in qualche modo inconsapevole o oscuro, non abbia già dentro di sé. E la ragazza davanti a me non capirebbe. Altra è la donna che io cerco.
(H)

3
Le stelle non sono mai state la mia passione, gli alieni non sono la mia fissazione. Eppure mi trovo qui, in questa città del deserto settentrionale – cieli tersi, pochissime luci – ideale per l’osservazione e la ricerca. Un lavoro vale l’altro, pensai anni fa, subito dopo il college, e accettai. Niente di più falso, niente di più vero.
(L)

(Continua su Crapula)


Reincarnation blues: l’aldilà torna di moda, almeno nei libri

La morte si appresta a vivere una nuova vita? L’aldilà sta tornando di moda? Se la letteratura fosse ancora in grado di indicare dei trend, diremmo di sì. E sarebbe un bene: perché la morte è la grande rimozione della nostra vita. Le società tradizionali affrontano la paura della fine con la consolazione delle religioni; che sono (anche) delle variazioni sul tema del dopo: paradisi eterni, reincarnazioni, fasi di passaggio… La nostra società, laica e disincantata, affronta la morte in altro modo: facendone un tabù. Ma il rimosso torna a galla quando meno ce lo aspettiamo, e non smette di tormentarci e inquietarci per tutta la vita.

Negli ultimi tempi si sono moltiplicati i romanzi ambientati nell’aldilà, in qualche aldilà. Solo per dirne un paio: l’arcinoto Lincoln nel Bardo, che ha portato George Saunders a vincere il Booker Prize; un viaggio tra anime sospese in una condizione intermedia. Ma anche La scomparsa di me di Gianluigi Ricuperati, il cui protagonista appena trapassato si risveglia ogni giorno all’interno di una delle persone che ha conosciuto in vita. In libri come questi il tema è trattato sempre con il filtro dell’ironia, con il distacco del postmoderno (e menomale); ma l’impressione è che l’aldilà sia qualcosa in più di un mero espediente letterario.

Portabandiera di tale tendenza letteraria potrebbe allora diventare questo Reincarnation blues, appena uscito per e/o nella traduzione di Gianluca Fondriest; l’autore, Michael Poore, è un insegnante dell’Indiana al suo secondo romanzo.


Perché Facebook ti tratta come gli spacciatori fanno con i drogati

Ormai lo sanno anche i sassi: Facebook ha cambiato l’algoritmo. Mark Zuckerberg ha promesso (o minacciato) che d’ora in avanti saranno privilegiate le “interazioni social” a discapito dei “contenuti pubblici”. Quello che nessuno ancora sa è cosa significhi questo in pratica, cioè come si tradurrà nella nostra timeline quotidiana.

L’ipotesi al momento più accreditata è questa: sarà dato più spazio alle interazioni personali e meno alle notizie (soprattutto se rimandano a siti esterni, l’eterno spauracchio di fb). Vedrai più profili e meno pagine, più amici e meno brand, più gattini – o foto del tramonto sulla spiaggia postate da tuo cugino – e meno post come questo. E non solo perché in questo post c’è scritto che Facebook è come uno spacciatore che taglia le dosi per renderti ancora più dipendente.

Più che dal contenuto, le possibilità che tu legga questo articolo dipenderanno dal fatto che tuo cugino – sempre lui – lo abbia condiviso o meno.

(Continua su Esquire Italia)