Il giallo dell’estate? Ha ottant’anni

deangelisIn mancanza di un vero e proprio giallo dell’estate che ci assilla dalle pagine di cronaca, converrà volgere lo sguardo alla letteratura di genere: meglio se storica, meglio ancora se preistorica. È quello che fa la casa editrice Sellerio, che da un po’ di anni a questa parte va ripubblicando i romanzi di Augusto De Angelis (1888-1944). Di lui sappiamo che fu il creatore del primo detective seriale della letteratura italiana, in quindici libri scritti dal ’35 al ’43; che fu incarcerato per antifascismo e che morì per le conseguenze di un pestaggio fascista; che il suo personaggio, il commissario De Vincenzi, fu portato in tv da Paolo Stoppa negli anni ’70 in una serie di sceneggiati.

Sì vabbe’, ma in pratica, com’è leggere questi gialli? Un tuffo nel passato. Non come nei romanzi di ambientazione storica, che sono delle ricostruzioni più o meno accurate di un’epoca, ma in cui si percepisce la mano contemporanea. Qui, è come frugare nei documenti d’archivio, e contemporaneamente risalire agli albori del poliziesco all’italiana, appunto alla sua preistoria. Ad esempio, prendiamo questo Il canotto insanguinato (pag. 366, euro 14) e vediamo in quanti modi è un tuffo nel passato. Nello stile: deliziosamente, sinceramente raffinato; vi si trovano autentici pezzi d’antiquariato, come questo: “uno dei tanti profughi, che la rivoluzione di Lenin ha ventilabrati pel mondo”. Nell’ambientazione: molto internazionale e deluxe; casinò ed equivoche bische, yacht e Pascià, la Riviera di ponente e la Costa azzurra – in un’epoca in cui davvero tali scenari erano privilegio di pochi, e però ci volevano due giorni per arrivare in treno a Strasburgo e le automobili “correvano” a venticinque all’ora. Nei personaggi: caratteri, ma non macchiette; l’esule russo, la bella spia francese, l’ambasciatore turco, il gioielliere olandese, la bionda fatale con un orribile segreto, il croupier doppiogiochista… e lo stesso commissario italiano, che si affida più al fiuto che alla logica, più alla psicologia che all’interrogatorio brutale – senza disdegnare le rivoltellate se necessario. Infine, nella trama: un mistero che parte con un omicidio soltanto presunto, anche se poi i cadaveri non mancheranno; che prima sembra una storia d’amore e gelosia, poi uno squallido regolamento di conti tra drogati del gioco d’azzardo, poi ancora un intrigo spionistico internazionale, e forse è tutte queste cose assieme e molto di più.

Un tuffo nel passato: e nonostante questo, De Angelis costruisce una narrazione avvincente e moderna, tutta fatti, un inseguimento e un colpo di scena dopo l’altro. Senza concessioni alla prosa d’arte, che ai tempi andava per la maggiore. E senza la tentazione di fare moralismi, o peggio ancora sociologia, piaga che affliggerà tanti cosiddetti gialli nei successivi ottanta anni.

(Versione integrale dell’articolo uscito oggi sul Mattino)


Davide Longo e la complicità del male

bramardDi solito, quando si vuole mettere in luce l’originalità di un thriller moderno, si dice che il suo autore conosce benissimo gli elementi, i topoi e i cliché del giallo classico, e si diverte a disporli in maniera inusuale, scompigliando l’ordine, sovvertendo le regole del genere. (La si dice, questa cosa, da così tanto tempo che viene da chiedersi, in verità, se sia mai esistito il “giallo classico”.) Davide Longo, piemontese di 43 anni, è autore di pochi e ben calibrati romanzi, e lavora alla Scuola Holden come didatta, qualsiasi cosa ciò voglia dire. In questo Il caso Bramard (Feltrinelli, 256 pag., euro 17) ritornano i suoi temi prediletti: le montagne, le arrampicate, la pochezza dell’uomo in confronto alla natura. Ma compaiono, appunto, anche tutti i leitmotiv del giallo: l’eroe – un commissario in pensione, anziano e disincantato, con un grande dolore nascosto -, l’antagonista – un serial killer spietato e imprendibile, che inconsciamente desidera farsi prendere -, l’invasione del privato nel professionale, perché l’ultima vittima dell’assassino fu la moglie del commissario, ed è a lui che nel corso degli anni l’introvabile manda delle lettere con una canzone di Leonard Cohen, finché in una per caso (?) ci trovano un capello, e col DNA l’indagine, ovviamente in modo informale, riparte.

Longo manovra l’intreccio con mestiere sicuro, e applica la regola show don’t tell all’estremo: i personaggi vengono mostrati mentre compiono azioni di cui il lettore non coglie il significato se non dopo un po’, o un tanto. Sicché sembra, più che di leggere una sceneggiatura già bella e pronta (complimento spesso usato per denigrare), proprio di guardare un film. E sì, certo, le regole del thriller sono sovvertite, ma in modo così sottile e pervasivo che sarebbe complicato dirne. Con una eclatante eccezione. Nello schema tipico, dal classico (Conan Doyle) al moderno (il Bioy Casares de L’invezione di Morel), un mistero che all’inizio sembra inspiegabile se non ricorrendo al sovrannaturale, viene riportato poi dal solutore nell’alveo della logica. Qui invece, man mano che ci si avvicina alla fine, e si intravede la soluzione, essa ci appare più inverosimile e assurda che in principio. La bravura di Davide Longo sta nel rendere la vicenda, nonostante tutto, credibile. Ma il vero dramma è un altro.

La vera assurdità è che lo stesso commissario, lo stesso lettore, è costretto ad inchinarsi davanti alla perfezione, alla bellezza dell’opera del serial killer. Come a dire che con il male tutti noi – in qualità di autori, o di testimoni silenziosi, o di semplici compartecipi del genere umano – siamo comunque coinvolti.

(Versione integrale dell’articolo uscito oggi sul Mattino)


Se Indro Montanelli è una questione privata

indro_montanelli Paolo Di Paolo è uno scrittore giovane (1983) ma già affermato. Libro dopo libro, emerge un filo conduttore, sottile ma consistente: l’impossibilità di prescindere dalla realtà, storica e sociale; la necessità di raccontarla da un’angolazione laterale, attraverso le vicende private di persone qualunque. Se in Dove eravate tutti (2011) gli ultimi trent’anni di prima e seconda Repubblica sono intrecciati alle vicende personali di un ragazzo dietro il quale non si fatica a immaginare l’autore, nell’altro romanzo Mandami tanta vita (2013) il protagonista vive nell’ombra del grande intellettuale antifascista Piero Gobetti, che non riesce mai a incontrare anche se le loro storie si sfiorano più volte. L’ultima opera è se possibile ancora più interessante, perché non è un romanzo: Tutte le speranze (Rizzoli, pag. 216, euro 17) porta il sottotitolo esplicativo Montanelli raccontato da chi non c’era. Non è un romanzo, ma neanche una biografia. Piuttosto, la storia di una ricerca che nasce da una fissazione personale: quella di un ragazzo di quattordici anni che voleva fare il giornalista, e incominciò a corrispondere con Indro Montanelli tramite la sua rubrica di posta.

Di Paolo ha uno stile di scrittura senza rotture o pretese d’avanguardia, classico, quando non vagamente retrò; l’impianto del libro è però molto più innovativo di quanto voglia sembrare, delicatamente postmoderno. Innanzitutto, si svolge a ritroso, partendo dal luglio 2001, dalla morte, avvenuta poche ore dopo quella di Carlo Giuliani a Genova; racconta in seguito gli ultimi anni, vissuti dall’autore in prima persona, poi quelli ricostruiti attraverso interviste e testimonianze, infine i primissimi, a inizio ‘900, dove solo vecchie carte d’archivio hanno supportato. Poi, Di Paolo abbatte senza tanto clamore lo steccato tra narrativa e saggistica, come pure il tabù per il quale l’autore del saggio deve scomparire dietro i fatti, e s’inventa una sorta di meta-saggio (frequenti sono le riflessioni introdotte da un “mentre facevo le ricerche per questo libro”). Non mancano inserimenti di foto, immagini curiose come un Garibaldi che sembra Cristo, documenti pubblici o privati, lettere ai giornali (le sue); e c’è anche il momento surreale di un’intervista mai fatta a Berlusconi.

paolo-di-paoloMa quest’angolazione privata, quasi minimale, non è solo una scelta stilistica: è una dichiarazione di metodo. Perché di uno come Montanelli tutti hanno un’opinione, tutti hanno detto tutto e il contrario di tutto: fascista e antifascista, patriota e anti-italiano, anticomunista e antiberlusconiano, liberale e democristiano (“Turatevi il naso…”) , misogino e misantropo, persino filiforme e pingue (“Montanelli? Un falso magro” sentenziò una volta la direttrice di Vogue). Tutte definizioni, nella loro pretesa di essere assolute, false – e tutte, in qualche momento della sua lunga vita, vere. Il racconto in prima persona consente di avvicinarsi a un soggetto così debordante senza commettere quel doppio errore tanto frequente: senza fingere un’obiettività che non esiste, senza giudicare ma cercando di capire. Alla fine è questa, la migliore lezione di Montanelli. E Paolo Di Paolo, anche se poi non ha fatto il giornalista, l’ha imparata benissimo.

(Versione integrale dell’articolo uscito oggi sul Mattino)


Amore guerra e nostalgia, nel primo romanzo di Eshkol Nevo

RABIN CLINTON ARAFAT

Israele, 1995. Una giovane coppia, lei aspirante fotografa lui studente di psicologia, va a convivere in un villaggio a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme, iniziando a sperimentare la distanza tra l’ideale del nido d’amore e la realtà della vita quotidiana. Nello stesso edificio, vivono i loro padroni di casa, una coppia altrettanto giovane, ma già sposata e con due figli: lui gran lavoratore e un po’ succube dei fratelli ultraortodossi, lei casalinga insofferente. Nello stesso edificio, vorrebbe tornare a vivere un muratore palestinese, o perlomeno a prendere qualcosa di prezioso che la madre ha lasciato lì nella fretta dello sgombero: quella casa, come le altre, era infatti araba prima di venire occupata dai coloni ebrei. Nell’edificio di fronte, una famiglia distrutta dalla morte del figlio militare in Libano: padre e madre due larve, il figlio minore abbandonato da tutti. Ognuna di queste persone è straziata dalla nostalgia, di qualcuno o di qualcosa, di enorme o di sottile. Sullo sfondo, ma a tratti in primo piano, il medioriente in fiamme, e in particolare l’assassinio del premier israeliano Rabin, che aveva appena concluso uno storico accordo di pace.

nevo-nostalgiaTorna in libreria il primo romanzo di Eshkol Nevo, il miglior scrittore israeliano della generazione successiva alla sacra triade Yehoshua-Grossman-Oz. Nostalgia (NeriPozza, trad. Elena Loewenthal, p.414, 18 euro) esce ri-editato e ri-tradotto secondo le indicazioni dell’autore. Come negli altri libri – La simmetria dei desideri e il magnifico Neuland – Nevo racconta una vicenda collettiva; come negli altri libri, lo fa alternando le voci, dando la parola in ogni paragrafo a un protagonista diverso: una soluzione stilistica molto gradevole per chi legge ma nient’affatto semplice per chi scrive. Finito il libro, i personaggi restano: resta nel lettore quella curiosità (direbbe Nevo, quella nostalgia) che porta a chiedersi, cosa staranno facendo adesso? E questo è un risultato importante e difficile, come sanno tutti quelli che hanno provato a scrivere un romanzo, quindi tutti. Come negli altri libri, Nevo intreccia storie private con la grande Storia, e lo fa in modo equilibrato: senza che la Storia diventi una banale metafora della trama narrata, senza che le storie diventino un esile pretesto per teorizzare di politica.

«Per un momento avevamo creduto che la pace sarebbe arrivata davvero», dice a un certo punto qualcuno. Sta parlando di guerra, ma potrebbe anche parlare di amore. Perché è vero, si può provare nostalgia anche per ciò che non si è mai avuto.

(Articolo uscito oggi sul Mattino di Napoli)


Ecologia e nucleare, c’è chi dice sì

Ambientalisti a favore del nucleare. Sembra strano, e in effetti al senso comune suona come una contraddizione. Dimostrare che non lo è, questa è la missione che si è data Vincenzo Pepe, professore di Diritto costituzionale a Napoli 2 e fondatore del movimento ecologista FareAmbiente. Pepe, originario del Cilento, riversa la sua storia e il suo pensiero in un libro: Non nel mio giardino (Baldini&Castoldi, pag. 350, euro 19.90). Un libro che mescola ricordi di vita privata con resoconti della sua esperienza amministrativa (è stato presidente del Consorzio smaltimento rifiuti a Caserta), racconta la nascita dell’associazione e fa una breve storia del nucleare in Italia: dal primo referendum dell’87, di poco successivo alla tragedia di Chernobyl, al secondo del 2011, anch’esso sciaguratamente vicino al disastro di Fukushima.

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Samuel Beckett e il falsario

Samuel Beckett è autore un poema intitolato Whoroscope, un gioco di parole variamente tradotto in italiano con Puttanoroscopo o Oroscopata. Samuel Beckett una volta fece uno scherzo all’Università di Dublino, tenendo una conferenza sul francese Jean du Chas, fondatore del Concentrismo, scrittore e movimento entrambi inventati da lui. Beckett scrisse la sceneggiatura di un film intitolato Film il cui protagonista è Buster Keaton; inoltre curò personalmente la regia di una serie tv tedesca. La sua pièce Aspettando Godot fu usata per un programma di riabilitazione in un carcere di massima sicurezza in Svezia: dopo due anni di prove e un inaspettato successo, alla prima rappresentazione esterna alla prigione gli attori scapparono. Siccome odiava essere un personaggio famoso, Beckett negli ultimi anni portava la barba e i capelli lunghi, e solo quando doveva essere visto o fotografato si radeva, fabbricando l’immagine che tutti conosciamo. Samuel Beckett era esperto di api e teneva un grande alveare sul tetto del suo palazzo. Una volta Beckett telefonò al noto comico Coluche chiedendogli se poteva scrivere dei testi per lui. Samuel Beckett per farsi beffe degli accademici inserì dei documenti falsi – biglietti di viaggi mai fatti, riviste mai lette – negli archivi da consegnare ai ricercatori che studiavano la sua opera.

Quali di questi fatti sono veri e quali falsi?

apicoltura-clichy

Il falsario è un bizzarro scrittore parigino di nome Martin Page, già autore di titoli come Una perfetta giornata perfetta e Come sono diventato stupido, per rendere l’idea del tipo. Con questo L’apicoltura secondo Samuel Beckett (Edizioni Clichy, traduzione di Tania Spagnoli, pag. 96, euro 10) omaggia il genio irlandese che scelse la Francia – e la lingua francese – come sua patria. E lo fa mescolando realtà e invenzione, verità improbabili e falsità molto plausibili (per i pignoli: vere sono le prime quattro affermazioni, false le altre). Il romanzo, scritto con taglio ironico e leggero, ci consegna un Beckett burbero e goloso, un po’ tirchio e molto simpatico. La vicenda si svolge durante la breve collaborazione tra l’anziano scrittore e un suo assistente (nella finzione letteraria, il libro è il diario di quest’ultimo). L’autore di Malone muore e L’innominabile è impegnato a bilanciare gli abissi di disperazione in cui lo precipitano le sue riflessioni, con lavori manuali – i fiori, il miele – e concretissime tazzone di cioccolata calda. Soprattutto, è impegnato a occultare o falsificare la sua vita, non tanto per proteggere la sua privacy, quanto per la convinzione che la vita privata di uno scrittore sia “molto sopravvalutata”. Dice a un certo punto Beckett (ma ovviamente la frase è inventata): «Quello che conta è la biografia di chi legge i miei libri, più che la mia. Gli accademici farebbero meglio a indagare sulle proprie vite se vogliono capire qualcosa della mia opera. (…) Studiare la mia vita è un modo per non vedere ciò che accade nella loro e che i miei libri tentano di rivelare».

Così lo stesso romanzo, questa frammento di bio-fiction, si autogiustifica, o meglio mette in pratica ciò che predica. Samuel Beckett era un ottimo cuoco, specializzato in piatti di pesce tradizionali della Louisiana: vero o falso?

(Articolo uscito oggi sul Mattino di Napoli)


Davide Enia, teatro di guerra

eniaShakespeare in poltrona ha la stessa efficacia? E Bob Dylan, lo merita il Nobel per la letteratura? Annosa questione, se un testo che è stato scritto per essere recitato su un palcoscenico o davanti a una macchina da presa, o peggio ancora per essere cantato, possa funzionare anche se viene semplicemente letto, come un romanzo o una poesia. Davide Enia taglia il nodo gordiano e oggi, dopo Italia-Brasile 3 a 2 di tre anni fa, manda in stampa maggio ’43 (Sellerio editore, pag. 104, euro 12): che funziona eccome.

Davide Enia appartiene alla schiera degli autori-attori, quella che ha avuto il capofila in Marco Paolini e un acclamato rappresentante in Ascanio Celestini. Come per quest’ultimo, il teatro civile del trentanovenne palermitano affonda le radici nella tradizione orale, nella narrazione popolare; e più che di monologhi o pièce, sicuro lui preferisce parlare di “cunti”. Ma è proprio omettendo il teatro, l’azione e l’oralità, che il libro funziona come libro: Enia asporta tutte le indicazioni per l’attore – movimenti in scena, parti cantate – e così il testo scorre fluido e senza intoppi (sono invece presenti un bel po’ di note per chiarire i termini dialettali: era proprio necessario, tradurre “babbiare”, dopo tanto Camilleri?).

Nel maggio ’43, il 9 precisamente, ebbe luogo un bombardamento a tappeto della città di Palermo: inconsueto, perché di giorno, e devastante, perché quasi tutto il centro fu annullato, e ne porta i segni ancora oggi. Racconta l’autore (nella nota finale; mentre uno scritto introduttivo è firmato dall’altra star del teatro siculo contemporaneo, Emma Dante) che da questa osservazione, meglio dall’osservazione di essere cresciuto in mezzo alle macerie senza essersene accorto, nasce la scintilla di maggio ’43. È una rimozione – che ne riecheggia un’altra, collettiva e gigantesca: a infliggerci le ferite più crudeli sono stati gli Alleati, quelli che ci hanno liberato – e quindi è felice l’intuizione di Enia che fa raccontare i fatti a un ragazzino di dodici anni. Il piccolo Davide, che negli anni ’80 non vede le cicatrici dalle quali è circondato, è l’omologo del piccolo Gioacchino che nel ’43 passa attraverso tutti gli strazi della guerra – scappare nei rifugi anti-bomba con la statua di santa Rosalia, sfollare in campagna, mangiare solo limoni per una settimana, imbrogliare e farsi imbrogliare, infine vedere crollare il proprio mondo – e non li vede, o meglio non ne vede il senso tragico, irreparabile. Poi, Davide si renderà conto (e scriverà maggio ’43). Gioacchino, non si sa. E noi?

(Articolo uscito oggi sul Mattino)


Questi scrittori fantasma

fantasmaNapoli ha fame di irrealtà. Forse perché i suoi abitanti vivono una realtà a volte così dura che è meglio fuggire nella fantasia. O forse al contrario, perché conoscono la realtà così a fondo, e sanno quanto può essere assurda e imprevedibile (ci sono più cose in cielo e in terra…). Sta di fatto, che gli scrittori napoletani sembrano avere una naturale propensione al fantastico. Senza neanche voler risalire ai classici – i fantasmi di Eduardo, le meraviglie di Basile, i miracoli di San Gennaro – basti pensare alle recenti sperimentazioni metaletterarie e autofiction di Domenico Starnone, ma anche ai più giovani Cristiano de Majo, autore di un esemplare metaromanzo (Vita e morte di un giovane impostore scritta da me, il suo migliore amico), e Aldo Putignano, curatore addirittura di un’Enciclopedia degli scrittori inesistenti

Non è un caso allora, anche se è stato un risultato nient’affatto programmato, che degli autori di questo Scrittori fantasma, un piccolo capolavoro di neo-irrealismo, ben sei su otto tra curatori e scrittori, siano napoletani. A partire da Piero Sorrentino e Massimiliano Virgilio, che firmano la trasmissione radiofonica Zazà, e hanno avuto l’idea. Un’idea semplice: spesso i personaggi dei libri sono scrittori essi stessi, e quindi capita che nella vicenda siano nominate le loro opere, ma altrettanto spesso non si va al di là del titolo e di qualche particolare. Sappiamo ad esempio che Arturo Bandini, protagonista della saga di John Fante, scrive Il cagnolino rise, ma non ne conosciamo la trama; dai saggi di Morelli, Cortàzar riporta solo stralci; mentre dei libri scritti dai romanzieri inventati da Borges ci sono arrivate le sue recensioni e basta; e dei racconti citati a frotte in Pynchon o David Foster Wallace, neanche quelle. Leviamoci lo sfizio allora, si sono detti Sorrentino e Virgilio, scriviamoli noi; o meglio, facciamoli scrivere ai nostri autori preferiti: ed ecco Scrittori fantasma (Elliot edizioni, pag. 190, euro 18.50). Insomma, un libro che parla di libri che stanno in altri libri; scrittori che fingono di essere altri scrittori che sono stati immaginati da altri scrittori ancora. È quella che in gergo si chiama metaletteratura, e che puzza da lontano di giochino intellettuale, onanistico e autoreferenziale. Ma lo è? No, per lo meno non in questo caso: perché la spinta non viene dall’ego degli scrittori, ansiosi di misurarsi con i maestri (che ci sarebbe anzi da scappare per la paura), ma dalla curiosità di lettori, da un desiderio frustrato.

Giusi Marchetta parte con un superclassico: Il pesciolino nascosto, “formidabile libro di racconti” scritto dal fratello del giovane Holden, il quale poi va a Hollywood “a sputtanarsi”. Ma di che parla l’eponima short story? Giusi ce ne rivela qualche particolare, ma si guarda bene dallo scriverla tutta: segue piuttosto le vicende di Daniel Caulfield, che in effetti cede a più di un compromesso con lo studio system, accettando di scambiare nella sceneggiatura il pesciolino con un più popolare cane, con tutte le ridicole conseguenze del caso.

Maurizio Braucci è l’unico che esegue il compito alla lettera: racconta la storia immaginata dal console Geoffry Firmin, protagonista di Sotto il vulcano di Malcom Lowry. Ma anche qui rimaniamo fregati perché, siccome nel libro-padre il console muore, il libro-figlio è incompiuto: la vicenda, un’avvincente spy story, si interrompe sul più bello, mannaggia.

Giuseppe Montesano è invece autore di un pezzo debordante, magnifico: sulla scorta del Bolaño de La letteratura nazista in America, immagina un avvocato che abbia, o millanti di aver, ricevuto dallo stesso genio cileno l’invito a scriverne una versione nostrana. Ecco allora Il pensiero liberal-nazista in Italia, una grottesca galleria di autori e teorie tutti da ridere; sennonché un po’ alla volta, orrore, vediamo emergere i protagonisti e i luoghi comuni dei nostri ultimi anni da incubo. Dietro pseudonimi a prova di querela, le identità appaiono a volte immediate altre meno, e la sfida casomai sarebbe sgamarle tutte: chi sarà l’economista nano Edmondo Trommetta? Chi il romanziere Pierangelo Perraratto? E chi il politico Grande-Papa che ritiene di essere immortale?

All’opposto, Valeria Parrella scrive il pezzo più breve, ma anche il più coraggioso: si cala nei panni di Jaromir Hladìk, che nel Miracolo segreto di Borges sta per essere giustiziato, quando Dio ferma il mondo per consentirgli di finire I nemici, una tragedia in tre atti, in versi. E la Parrella, miracolo, si mette a comporre esametri: che sono brutti, lo ammette lei stessa, anzi lo fa apposta. Per rendere perfetta la mimesi – lei, napoletana dalla prosa scarna – con un ampolloso poeta ebreo di Boemia che non è mai esistito.

E dopo il romano Lorenzo Pavolini, che dona un talento da scrittore al famoso scrivano Bartleby di Melville, chiude il milanese Marco Rossari. Il quale, traduttore di professione, scavalca le impervie montagne della metaletteratura per approdare negli inesplorati territori della metatraduzione. Si inventa cioè un personaggio che si chiama Marco Rossari e fa il traduttore come lui, ma non è lui, perché vive in un mondo parallelo in cui Nathan Zuckerman è uno scrittore reale e Philip Roth uno dei protagonisti dei suoi libri. Rossari-personaggio smania per tradurre Zuckerman (come Rossari-autore smania per tradurre Roth) e decide di cimentarsi con l’ultimo capitolo del suo capolavoro, Carnovsky. Addirittura, le ultime righe sono tradotte due volte, e si leggono su due colonne parallele, perché Rossari-personaggio ci tiene mostrare le differenze rispetto all’interpretazione ufficiale. Una fantasia così sfrenata che ci viene da nominarlo, a Rossari-autore, napoletano ad honorem.

(Versione integrale dell’articolo uscito oggi sul Mattino di Napoli)


Il giallo neorealista di Biondillo

biondilloChe cosa deve fare un romanzo? Divertire, appassionare, sorprendere? Solo questo, e non è mica facile, secondo alcuni. Oppure offrire uno spaccato della società, a detta di altri: gettare una luce obliqua e perciò nuova sulla realtà quotidiana, illuminare la sua banale tragedia, soprattutto in quest’epoca di crisi. O infine, stando a un’altra scuola di pensiero, un libro deve cercare il suo posto nel flusso storico della letteratura, inserirsi in una fitta trama di rimandi reciproci, echi, citazioni criptate. Quale che sia la vostra opinione, l’ultimo libro di Gianni Biondillo (Cronaca di un suicidio, Guanda, pag. 192, euro 14.50) riesce a fare tutte e tre le cose, contemporaneamente. Anzi, una dopo l’altra.

Prima di tutto infatti abbiamo la suggestione letteraria: il romanzo cita in esergo una frase di Pavese (“Per disprezzare il denaro bisogna appunto averne, e molto”), e nel breve antefatto vediamo i preparativi di un suicidio, il biglietto che riprende alla lettera quello dello scrittore de La luna e falò, l’arcinoto “Non fate troppi pettegolezzi”; frequenti poi sono le allusioni quasi scherzose a versi di Montale e altri grandi poeti; in ultimo è proprio un’altra, molto meno conosciuta, frase di Pavese che darà una svolta alle indagini, o forse no.

Perché le indagini ci sono e non ci sono, in questo che dei gialli di Biondillo è il più atipico, “kafkiano” dice il risvolto di copertina, o forse neorealista, purtroppo. Infatti i guai che passa il protagonista sono tutt’altro che surreali e da incubo, anzi troppo plausibili per l’Italia 2013: Equitalia che lo perseguita per un imbroglio fatto non da lui ma dal commercialista, le banche il condominio le casse previdenziali che esigono inflessibili fino all’ultimo centesimo di credito, le case che potrebbe vendere per appianare la situazione ma il mercato immobiliare è fermo, e quelli che invece dovrebbero pagarlo per i suoi lavori che rimandano all’infinito. Altro che giallo, un pianto: d’altra parte, quando l’assassino è dichiarato sin dalla prima riga, anzi dal titolo… Sicché insolito è il lavoro dell’ispettore Ferraro, che torna da altre storie dello scrittore milanese: in vacanza, e impegnato a non farsi sfuggire il rapporto con la figlia, che è adolescente e vive con la madre, si imbatte letteralmente nel cadavere e per forza di cose incrocerà persone e luoghi legati al suicida: l’ex moglie, i pochi amici, la carriera di sceneggiatore di successo ma dalla vita tutto sommato modesta e ritirata. E questo è il taglio sociale, il secondo tra i livelli di lettura che si dicevano.

Ma proprio quando la storia incomincia a mettere più tristezza che rabbia, troppo realistica e simile alle tante cronache nere della crisi, troppo “potrebbe capitare anche a me”, ecco Biondillo che piazza la zampata del giallista. Ecco che succede qualcosa, e la trama incalza, appassiona: si torna indietro per controllare particolari che sono passati inosservati, si va avanti veloce presi dall’ansia di vedere confermati i sospetti, si sbalordisce, si tifa, si ride addirittura. E di più veramente non si può dire, se non che pure l’espressione “colpo di scena” è un’esagerazione, e allo stesso tempo un eufemismo.

(Articolo uscito oggi sul Mattino)


La carica dei 101 microromanzi quantistici

paterlini

Piergiorgio Paterlini, Fisica quantistica della vita quotidiana, Einaudi

I titoli sono una trappola: per il lettore, ma anche per l’editore. Un titolo come Fisica quantistica della vita quotidiana è pensato per attirare, ma può anche spaventare o indurre confusione: con quell’aria non certo da trattato accademico, ma da manuale divulgativo pur sempre ostico. Invece non è un saggio scientifico, e neanche filosofico: è molto di più, è narrativa. La citazione esplicita da Freud (Psicopatologia della vita quotidiana) cela un altro riferimento, al più grande bestseller degli ultimi anni: La solitudine dei numeri primi. Anche lì, infatti, il gioco era accostare due mondi opposti: sentimenti e matematica, fisica e quotidianità. Cosa c’è di più lontano dalla vita quotidiana della fisica quantistica, una disciplina che studia l’infinitamente piccolo, e la cui carica innovativa sta proprio nel postulare che le particelle elementari sono soggette a leggi che non valgono nella realtà di tutti i giorni? Eppure questo libro vuole dimostrare proprio il contrario, ma lo fa per vie traverse.

Meno male che ci viene in aiuto il sottotitolo: 101 microromanzi. Prescindendo un attimo dalla differenza tra microromanzo e microracconto (che ovviamente sarebbe modulata sulla differenza tra romanzo e racconto, e che secondo Jacopo Cirillo su Finzioni consiste nel fatto che il secondo si fonda sull’ellisse, sul non detto, mentre il primo crea un mondo) quel che ci troviamo davanti sono 101 oggetti narrativi, minuscoli e potenti. Storie folgoranti di una pagina, una pagina e mezza al massimo; ma spesso molto più corte: tre righe, un rigo solo, addirittura in un caso al titolo segue soltanto un emoticon. Le ambientazioni e i generi, per così dire, sono i più vari, sono quasi tutti: c’è la storia d’amore, il giallo, la fantascienza, il neorealismo, l’horror, il romanzo di formazione… A volte si tratta “solo” di storielle divertenti, battute; ma anche quando c’è dell’altro, rimane costante il gusto del surreale, della provocazione, del gioco letterario alla Queneau. E si capisce, se si tiene presente chi è Piergiorgio Paterlini: un fromboliere delle parole, giornalista (fondatore con Serra del mitico Cuore) e scrittore fiction e non-fiction (Matrimoni gay).

Ma il punto è un’altro. Le 101 storie celebrano l’apoteosi, elevano a paradigma la caratteristica principale del racconto breve, che è l’effetto sorpresa, la capacità di rovesciare tutto con la frase finale (di rovesciare tutto quello che si era dato per scontato, avete presente La sentinella di Fredrick Brown, e perciò è giusto parlare di ellisse come caratteristica del racconto, ma appunto ecco perché secondo me si tratta di racconti e non romanzi, con buone pace di altri e dello stesso autore). La bravura, e la capacità di non annoiare, di Paterlini sta nel modo sempre diverso in cui l’effetto è raggiunto. A volte cambia il punto di vista: un uomo picchia un ragazzo che si agita e tenta invano di divincolarsi, arriva la polizia, anzi no è un’ambulanza, il personaggio pericoloso viene infine bloccato, ma è il ragazzo, un povero epilettico. A volte cambia la natura del protagonista, che noi diamo per scontato sia un uomo: assistiamo all’esecuzione di un condannato, e invece è un rospo torturato da ragazzini; in un altro caso è addirittura Dio che crea l’universo. Insomma, alla faccia “di chi crede che la realtà sia quella che si vede”, come diceva il poeta. Ecco che cosa c’entra la fisica quantistica: se quella è la scienza dopo la quale l’ipotesi di universi paralleli non è più una fantasia di romanzieri allucinati, la scienza che ci insegna che l’osservatore modifica un fenomeno con il solo fatto di osservarlo (sì, è il noto principio di indeterminazione di Heisenberg, bellissimo nella sua semplicità) , questo libro ne è l’applicazione pratica in letteratura.

Paterlini ci crede: tanto è leggero e scanzonato nei racconti, quanto appassionato e convinto nei paratesti. Sul sito dell’Einaudi chiarisce che da un lato non esistono fatti ma solo interpretazioni, per dirla con Nietzsche

Ho scritto questo libro per invitare le persone a vedere i fatti con il criterio della complessità, per far capire che un gesto nasconde mille significati possibili e spesso opposti, e per questo abbiamo inventato la parola e la scrittura

ma dall’altro lato puntualizza: che questa storia non sia una scusa per togliere valore alle parole, tanto un’interpretazione vale l’altra, e quindi ognuno può dire quello che vuole, o al limite anche stare zitto

è vero che anche la parola può essere ingannevole, è ovvio, ma mica tutti sono politici. Mica tutti sono marinai. Basta pensare che parliamo solo per fotterci a vicenda. Qualcuno parla anche con sincerità. E ho scritto questo libro per urlare che il silenzio non è mai, dico mai, una risposta. Che con il silenzio – salvo rare, dichiarate eccezioni (ma se dichiarate entrano nella categoria del “dire” non del “non dire”) – non si va da nessuna parte. Di sicuro, il silenzio non è una risposta chiara, univoca. Uno può dire: «non voglio parlarti mai più». Ma deve dirlo. Almeno questo. Non cucirsi la bocca e basta.

Ed ecco che c’entra anche la filosofia. Fisica quantistica della vita quotidiana entra in punta di piedi, con la modestia del profano, ma con la potenzialità di una bomba nel dibattito che da un annetto a questa parte sta appassionando i filosofi, beati loro. La diatriba che oppone i reduci del postmodernismo e del pensiero debole ai ringalluzziti alfieri del new realism: quelli che “esistono solo le interpretazioni, non i fatti”, e quelli che “esiste la realtà, unica e dura”. Esistono i fatti, certo che sì. Ed esistono le interpretazioni. Che sono infinite. Proprio come sono infiniti i motivi per amare questo libro.

(Articolo uscito sul Mattino di oggi)