Il gioco dell’universo

(Questo racconto è stato pubblicato il 19 gennaio 2018 dalla rivista online CrapulaClub)

ISTRUZIONI PER L’USO
Questo racconto si può leggere in due modi, come il romanzo Il gioco del mondo. Si può cominciare dall’inizio, e proseguire fino a che la parola FINE non indica chiaramente la conclusione della vicenda. Oppure si possono seguire le indicazioni tra parentesi: ogni volta che si trova una lettera maiuscola tra parentesi, si scende a leggere il paragrafo contrassegnato da quella lettera nella sezione “Da altre parti”; alla fine di quel paragrafo poi si trova un numero, che riconduce su, a un paragrafo delle sezioni precedenti. Spero che sia chiaro, e che Palmer Eldritch mi perdoni.

A B., C., D. e…

(Z)

Dall’altra parte

1
Avrei trovato la? È a quest’ora, è quando arriva quest’ora, soprattutto, che devo resistere alla tentazione di abbandonarmi, di parlare, di raccontarle tutto. Il bevatrone è a riposo, o meglio va avanti da solo, per un po’. Lei è là, dietro al bancone, che mi prepara l’aperithe senza guardarmi. Io sono qua, come tutte le sere, che mi trattengo.
(F)

2
Lei è solo una ragazza, la ragazza del bar, una brava ragazza a quanto sembra, anche se tra noi non c’è quasi dialogo. Eppure per me è importante: certo non è la persona con cui ho più confidenza nell’universo (ma poco ci manca, e questo la dice lunga su come sono messo), però è sicuramente quella che vedo di più. Io non sono la stessa cosa per lei, lo so, di clienti il locale dell’aperithe obbligatorio ne ha tanti, ognuno coi suoi gusti, il matcha latte, il caffè turco, il litchi scremato. Ma non è questo il motivo per cui, alla fine, riesco a tacere, a non seccarla con me e il lavoro e la mia questione privata, anche se mi becca nel momento più deprimente della giornata: è che sarebbe inutile.
Raccontare, ogni tanto penso, significa far ricordare: riportare alla memoria di chi ascolta, rimembrare una cosa che già sa. Rifletteteci un attimo: tutte le volte che qualcuno vi ha spiegato o narrato qualcosa, e questo qualcosa lo avete davvero afferrato, vi ha davvero fatto risuonare una corda dentro, ebbene non avete avuto l’impressione che quella cosa la sapevate già, l’avevate sempre saputa? Non si può dire niente di nuovo: non si può realmente comunicare, se non qualcosa che la persona davanti a voi, in qualche modo inconsapevole o oscuro, non abbia già dentro di sé. E la ragazza davanti a me non capirebbe. Altra è la donna che io cerco.
(H)

3
Le stelle non sono mai state la mia passione, gli alieni non sono la mia fissazione. Eppure mi trovo qui, in questa città del deserto settentrionale – cieli tersi, pochissime luci – ideale per l’osservazione e la ricerca. Un lavoro vale l’altro, pensai anni fa, subito dopo il college, e accettai. Niente di più falso, niente di più vero.
(L)

(Continua su Crapula)


Caccia a JP Morgan

C’è mancato poco. Se la riforma di Renzi avesse superato l’ostacolo del referendum popolare a dicembre, saremmo stati il primo paese regolato da una Costituzione in parte scritta da una banca d’affari: la JP Morgan Chase. Peccato, davvero. Ma quel diavolo di JP ne ha combinate comunque tante di mattane da vivo e da morto, lasciando indizi sparsi qua e là, cosa che consente di ricostruirne i movimenti, in giro per il mondo e per la storia della letteratura. Un breve giro che alla fine ci riporterà, com’è doveroso, al punto di partenza.

John Pierpont Morgan nasce il 17 aprile del 1837 (centottant’anni oggi: oh, auguri!). Fondatore della banca che porta il suo nome, è in mezzo a tutti i più grossi affari che tra fine ‘800 e inizio ‘900 trasformano il capitalismo americano e lo proiettano nel futuro: la creazione della General Electric, della AT&T e delle più grandi industrie nel campo dell’acciaio e dell’agricoltura; ci ha messo una pezza in due crisi finanziarie (panic del 1893 e del 1907) e chissà se ci fosse stato nel ’29, o nel 2008… Speculatore senza scrupoli (uno dei primi colpi lo ha fatto con un bel margine su una vendita di armi durante la guerra civile) e mecenate della cultura, collezionista di libri e di pietre preziose, dedito alla beneficenza e all’acquisto di yacht, è passato alla storia semplicemente come il più grande banchiere d’America, e quindi dell’universo. Muore a Roma, più di cento anni fa; JD Rockfeller commenta: “…e non era neanche ricco”. In effetti aveva solo 80 milioni di dollari. Dell’epoca.

È ovvio che uno del genere si sia ficcato dappertutto, in particolar modo nella fantasia degli scrittori. Andando a ritroso JP Morgan lo vediamo comparire: nel western fantascientifico The Ghost of Watt O’Hugh di Steven Drachman (2011), dove fa un breve cameo, giusto il tempo di mandare in galera il protagonista con la falsa accusa di omicidio; nel thriller storico The Alienist di Caleb Carr (1994), dove con Theodore Roosvelt e altri personaggi esistiti si mescola a quelli inventati; nell’epopea storico-fantastica Ragtime di E.L. Doctorow (1975), dove si becca una lezione da Henry Ford. Ma queste sono tutte apparizioni in chiaro, anche se poi il personaggio compie azioni di fantasia. Già diverso è il caso di Quarto potere (1941), dove su JP pare sia ricalcata la figura di W.P. Thatcher, il tutore cui è affidato il piccolo Kane quando si scopre che è letteralmente seduto su una miniera d’oro; il tizio insomma che è alla base del trauma primario del futuro cattivissimo (il quale prima di venire strappato ai genitori gli scaglierà addosso lo slittino rosebud, e da grande la stampa scandalistica). Anche questa strada però non porta da nessuna parte. Dobbiamo andare ancora più indietro.

(Continua su Prismo)

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Breve relazione a proposito dei tetti spioventi e di altre peculiarità botaniche della nostra regione

(questo racconto è stato pubblicato il 15 marzo 2017 dalla rivista letteraria Inutile)

Από δοθέν σημείο εκτός δοθείσης γραμμής (ευθείας), διέρχεται το πολύ μία γραμμή (ευθεία), που δεν τέμνει την δοθείσα (Ευκλείδη)

Cherteston (…) immagina che ai confini orientali del mondo vi sia un albero che è più e meno di un albero, e ai confini occidentali una torre, la cui sola architettura è malvagia (Jorge Luis Borges)

 

Nella nostra terra i tetti delle case sono talmente spioventi da essere quasi verticali. Curiosa coincidenza, tanto nel nostro idioma quanto nel vostro il termine “spiovente” deriva da “pioggia”, ma è per fare fronte ad altro genere di precipitazione atmosferica che questi tetti sono nati: la soffice, incorporea, eppure massiccia, pericolosamente pesante, fantastica neve.

L’estensore del presente rapporto – e dio solo sa quanto mi costa dovermi esprimere in prima persona, essendo la modestia connaturata alla mia personale indole come alla nostra cultura di gente schiva – l’estensore ha avuto un privilegio raro: solcare i mari e calpestare terre lontane, possibilità negata alla maggior parte della gente nata qui. Viaggiando, ho sempre notato come l’angolo dei tetti cambi, al pari di altre graduali e costanti variazioni nella flora, divenendo meno acuto man mano che ci si sposta verso meridione, fino a farsi completamente piatto nel Grande Sud; o almeno questo narrano i racconti su quella regione mitica, nella quale nessuno di noi, neanche l’estensore, è mai giunto, e della quale molti qui mettono addirittura in dubbio l’esistenza.

In ogni caso, nella nostra isola i tetti spioventi sono talmente verticali da sembrare quasi delle pareti. Per ragioni meno ovvie di quelle che si possono intuire, oltre alla scienza botanica la nostra civiltà ha sviluppato una finissima elaborazione della scienza giuridica: uno dei postulati del diritto civile è che la proprietà su un terreno si estende, partendo da quella superficie di territorio, nel sottosuolo fino agli inferi e nell’etere fino al cielo. Ora, mentre la prima ipotesi è meramente di scuola, dato che nessuno ha mai trovato possibile né utile spingersi dall’altro lato del suolo, il secondo caso è vero nel suo senso più letterale: le nostre case sono provviste di mansarde altissime, delle quali non si vede la fine. Raggiungendo il sottotetto, e stando saldamente appoggiati al pavimento di esso, alzando lo sguardo verso l’alto spesso, anzi sempre, la vista si perde nelle nebbie della distanza e dell’altezza.

(continua su Inutile)


L’ultima carovana

Narrano gli uomini degni di fede (ma Allah sa di più) che nei tempi antichi ci fu un re delle isole di Babilonia che riunì i suoi architetti e i suoi maghi e comandò loro di costruire un labirinto tanto involuto e arduo che gli uomini prudenti non si avventuravano a entrarvi, e chi vi entrava si perdeva. Quella costruzione era uno scandalo, perché la confusione e la meraviglia sono operazioni proprie di Dio e non degli uomini. Passando il tempo, venne alla sua corte un re degli arabi, e il re di Babilonia (per burlarsi della semplicità del suo ospite) lo fece penetrare nel labirinto, dove vagò offeso e confuso fino al crepuscolo. Allora implorò il soccorso divino e trovò la porta. Le sue labbra non proferirono alcun lamento, ma disse al re di Babilonia ch’egli in Arabia aveva un labirinto migliore e che, a Dio piacendo, gliel’avrebbe fatto conoscere un giorno. (…)

Carovana speciale, questa. Proprio come tutte le altre. E, come tutte le altre, si muove tra due estremi, due paradigmi opposti per significato e uguali per importanza. Il labirinto e il deserto. Il minuscolo e l’immenso, la costrizione e l’assenza di barriere. L’umano e il naturale, l’artificioso e il semplice, il cerebrale e l’istintivo. Sono stati (sono) due fari. Quante volte abbiamo (ho) scritto: una musica sospesa tra delirante modernità e solida tradizione, tra avanguardia e antichità, tra cultura e natura. Ma il punto non sono i punti, di partenza o di arrivo, bensì il viaggio: come i cammelli ben sanno, anzi ci insegnano. Parte allora questa Caravan speciale. Più speciale delle altre, perché non fa un giro, ma va in linea retta, senza tornare indietro. In che senso, lo scopriremo solo alla fine. O dopo la fine. (…)

TAPPE PRINCIPALI

Klaus Paier & Asia Valcic, Silk Road, Act
Eleni Karaindrou, Concert in Athens, Ecm
Slobber Pup, Black Aces, Rare Noise records
Jorge Luis Borges, I due re e i due labirinti

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Non so cosa altro dire. Se non invitarvi a mirare per l’ultima volta la carovana, finalmente uscita dal labirinto, che s’inoltra fra le dune di sabbia, e punta dritta verso l’orizzonte sfocato, ormai si riescono a scorgere solo le punte dei turbanti, neanche più le gobbe dei dromedari. Ebbene sì, miei duevirgolacinque lettori, Caravan è al capolinea, dopo ventuno tappe di onorata carriera vi saluta per sempre, ma ricacciate in saccoccia lu muccaturo, for favor, non è niente di personale, l’addio è alla rubrica, non all’autore, restate intonati, che farà ritorno.

(…) Poi fece ritorno in Arabia, riunì i suoi capitani e guerrieri e devastò il regno di Babilonia con sì buona fortuna che rase al suolo i suoi castelli, sgominò i suoi uomini e fece prigioniero lo stesso re. Lo legò su un veloce cammello e lo portò nel deserto. Andarono tre giorni, e gli disse: «Oh, re del tempo e sostanza e cifra del secolo! In Babilonia mi volesti perdere in un labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri; ora l’Onnipotente ha voluto ch’io ti mostrassi il mio dove non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo». Poi gli sciolse i legami e lo abbandonò in mezzo al deserto, dove quegli morì di fame e di sete. La gloria sia con Colui che non muore.

(Erano l’inizio e la fine della mia rubrica Caravan, su Blow Up di giugno)


Povero Cristo, brutto e cattivo

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Philip Pullman, Il buon Gesù e il cattivo Cristo, Ponte alle Grazie 2010, traduzione di Maurizio Bartocci, pag. 168, euro 14

Allora, chi mi conosce lo sa. Per tutti gli altri, premessa: non sono un baciapile, anzi temo di eccedere in senso opposto. Quindi se critico un’opera che tocca argomenti religiosi, non sarà perché è blasfema. Al limite, perché lo è troppo poco. Detto questo. Ieri finalmente ho letto Il buon Gesù e il cattivo Cristo. Forse perché ce lo avevo lì da tempo e non riuscivo mai a iniziarlo (l’avessi saputo, che si legge in un’ora e mezza). Forse perché il titolo, l’argomento, il tutto mi intrigava. Forse per le inevitabili polemiche che aveva suscitato. Insomma ci avevo messo un carico di aspettative che alla fine boh, sono andate un po’ deluse.

(Certo l’idea di rileggere, anzi di riscrivere la storia di Gesù non è che Philip Pullman l’abbia avuta lui per primo. Però, lo spunto iniziale bisogna ammetterlo, è buono. E poi si sa che la Bibbia, come tutti i libri capolavoro – come tutti i libri, direbbe Borges – è sempre suscettibile di nuove interpretazioni. Anzi, produce una nuova narrazione ogni volta che un nuovo lettore ne scorre le righe). Perciò, quella che segue non è una disamina critica punto per punto. Ma un’analisi lampo in tre flash, tre scenette salienti, tre snodi della vicenda che fanno emergere i motivi del boh.

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Dante Gabriel Rossetti, Annunciazione

1. M’ha fatto curnuto ‘e santu Martino.

Me lo sono sempre chiesto, perché la tradizione popolare vuole che sia San Martino il protettore dei cornuti (cit. a 1’55”), quando c’era bello e pronto… vabbè lasciamo stare. Perché diciamocelo: il sospetto che la storia dell’annunciazione non sia andata proprio così, che quell’angelo ci abbia messo del suo, era venuto un po’ a tutti, almeno tra quelli che stanno a cercare il fatto dietro il mito. Però poi dipende uno da come la racconta. Pullman inizia non c’è male, facendo una specie di versione in prosa della ur-preghiera:

Maria una sera udì un sussurro provenire dalla finestra.
“Maria, ma lo sai che sei bella? Sei la più leggiadra tra le donne. Il Signore deve averti preferita per la tua grazia e la tua dolcezza, per i tuoi occhi e le tue labbra…”.
Confusa, Maria chiese: “Chi sei?”. “Sono un angelo, rispose la voce. “Lasciami entrare e ti rivelerò un segreto”.

Fino a quel momento la storia di Maria – infanzia, consacrazione al tempio, matrimonio forzato – ha ricalcato abbastanza quella che conosciamo dall’album La Buona Novella (non è che Philip abbia copiato De André, entrambi si saranno andati a leggere i vangeli apocrifi). Ma poi Pullman contamina il quadro con l’elemento sordido dell’inganno:

“Quale segreto?”, chiese.
“Tu concepirai un figlio”.
Maria rimase sconcertata. “Ma mio marito è lontano”, disse.
“Ah, il Signore vuole che ciò sia subito. E io sono qui perché questo avvenga. Maria, tu sei benedetta tra le donne, altrimenti non ti sarebbe mai successa una cosa simile! Devi rendere grazie al Signore”.
E quella notte stessa Maria concepì un figlio.

Quasi una violenza. Leggiamo invece con quanta grazia De André dice la stessa cosa:

Nel grembo umido, scuro del tempio,
l’ombra era fredda, gonfia d’incenso;
l’angelo scese, come ogni sera,
ad insegnarmi una nuova preghiera:

poi, d’improvviso, mi sciolse le mani
e le mie braccia divennero ali,
quando mi chiese – Conosci l’estate
io, per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento.

Ci siano elementi concreti, materiali, fisici, ma contemporaneamente il tutto è mantenuto a un livello di poesia assoluta:

e lui parlò come quando si prega,
ed alla fine d’ogni preghiera
contava una vertebra della mia schiena.

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Il famoso Giano

2. Doppelgänger bang bang

Secondo momento topico: natale. Anzi, momento topico per eccellenza di tutto il libro. Ecco nasce Gesù, la levatrice non è arrivata in tempo, anzi sì: so’ ddu’ ggemelli, surprise! Ma come sono diversi, si vede subito: il primo bello in carne e tutto pacione, l’altro – che la mamma chiama Cristo – poverino ha un brutto colore, è secco secco e piange sempre. E pure quando crescono: Gesù è sveglio, vivace, ne combina di tutti i colori; Cristo invece sta sempre nell’ombra, salvo intervenire all’ultimo momento per salvare il fratello, ma sempre un po’ verde d’invidia, perché la star resta quell’altro. Insomma sono quasi la stessa persona, solo che uno è buono, ma buono buono, e l’altro cattivo. Sounds familiar? Ma certo! Il visconte dimezzato di Calvino. Per dirne uno.

E poi, bisogna fare i conti con la legge non scritta della commedia degli equivoci. La legge non scritta dei thriller la conosciamo bene: se a un certo punto compare una pistola, prima o poi deve sparare. Analogamente, la legge della commedia degli equivoci vuole che, se ci sono due gemelli, prima o poi deve avvenire lo scambio. E infatti, nel momento culminante del finale travolgente…

3. Juda’s Christ

Per tutto il tempo, il povero Cristo ha seguito quel figo di Gesù, mescolandosi tra i discepoli. E, dietro suggerimento di un misterioso personaggio che ogni tanto compare dal nulla, ha iniziato ad annotarne le gesta e le parole. Inserendo ogni tanto, sempre sotto la spinta dell’innominato consigliere, un surplus di miracoloso, di edificante, di utile alla causa. Quando le circostanze non gli hanno permesso di avvicinarsi – è diverso, ma pur sempre gemello, cavoli! – ha preso appunti per interposta persona, delegando uno degli apostoli. Anche se il nome non viene mai fatto, noi lettori sospettiamo che il repoeter sia quel Giuda dell’Iscariota.

Ma ora che succede? Il misterioso saggio ha convinto Cristo che bisogna fare qualcosa di eccezionale, affinché la predicazione di Gesù non si disperda nel vento come quella di un profeta qualsiasi, uno dei tanti: ci vuole un sacrificio, e solo Cristo, controfigura perfetta, può farlo. Il povero Cristo accetta di buon grado, finalmente contento di fare qualcosa di utile, e grandioso: morire al posto del fratello! Ma non è questo lo scambio che ha in mente il burattinaio, indovinate invece…

Prima però, dev’esserci la denuncia, l’arresto. E qui la licenza poetica diventa cortocircuito: è Cristo che si va ad accordare con Caifa, è Cristo che schiocca il fatidico bacio, è Cristo che ritira i trenta denari. In pratica Giuda, sempre se era lui, smette di fare il galoppino delle dichiarazioni di Gesù e scompare dalla scena, mentre Cristo si sostituisce al Giuda evangelico e fa tutto quello che dovrebbe fare quello. Però alla fine nessuno si allontana e va ad impiccarsi. Insomma, un casino.

Quanto più semplice, più lineare, più eversiva, la rilettura di Borges (poi dice che cito sempre Borges, ma che ci posso fare se è il migliore) ovvero la terza delle Tre versioni di Giuda immaginata dal teologo svedese Nils Runeberg:

Dio, argomenta Runeberg, s’abbassò alla condizione di uomo per la redenzione del genere umano; ci è permesso di pensare che il suo sacrificio fu perfetto, non invalidato o attenuato da omissioni. Limitare ciò che soffrì all’agonia d’un pomeriggio sulla croce, è bestemmia. Affermare che fu un uomo e che fu incapace di peccato, implica contraddizione: gli attributi di impeccabilitas e di humanitas non sono compatibili. Kemnitz ammette che il Redentore poté sentire fatica, freddo, turbamento, fame e sete; è anche lecito ammettere che poté peccare e perdersi. Il famoso passo: “Salirà come radice da terra arida; non v’è in lui forma, ne bellezza alcuna… Disprezzato come l’ultimo degli uomini; uomo di dolori, esperto in afflizioni” (Isaia LIII 2-3) è per molti una profezia del crocifisso, nell’ora della sua morte; per alcuni (per Hans Lassen Martensen, ad esempio) una confutazione della bellezza che per volgare consenso s’attribuisce a Cristo; per Runeberg, la puntuale profezia non d’un momento solo, ma di tutto l’atroce avvenire, nel tempo e nell’eternità, del Verbo fatto carne. Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all’infamia, uomo fino alla dannazione e all’abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia, avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Gesù; scelse un destino infimo: fu Giuda.

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