Non passare per il sangue, ma per la carne

Che cosa potranno mai avere in comune una vecchia cretese sorda che respira con un polmone solo e un giovane militare omosessuale specializzato in missioni ad alto rischio? Niente, in teoria. In questo libro, varie cose: innanzitutto condividono la memoria, l’amore per Marcello, dilettissimo nipote di lei, Agar, e prima vera relazione seria per lui, Luca. E innanzitutto per la memoria s’incontrano, perché Marcello è scomparso in Afghanistan e Luca si auto-incarica di consegnare alla famiglia i burocratici “effetti personali”, in pratica una vita racchiusa in una valigetta.

Da lì i due si conoscono e inizia uno strano rapporto, una schermaglia fatta di racconti, confessioni, silenzi. Perché un’altra cosa che condividono è la guerra: Agar durante il secondo conflitto mondiale sta per morire, ma grazie alla sua malattia conosce il futuro marito, un medico dell’esercito italiano (cosa che non le impedisce di aiutare la resistenza nella Creta occupata). I recenti ricordi di amore e guerra di Luca si intrecciano agli antichi ricordi di guerra e amore di Agar, e questi due piani a loro volta s’intersecano con il presente, un presente in cui l’assenza di Marcello pesa intollerabile.

Eduardo Savarese è giovane, magistrato, napoletano, esordiente. Non passare per il sangue è innanzitutto un libro denso: in meno di duecento pagine l’autore riesce a descrivere i personaggi (non solo i due protagonisti) pittandoli con pochi tratti, anzi fa capire come sono facendoli agire; non si arriva a metà del libro e già sembra di conoscerli come parenti. Non è un noir, nonostante appaia in una collana a cura di Massimo Carlotto, e nonostante tutto inizi con un morto, anzi con un cadavere che non si trova. Non è un giallo ma tiene la tensione senza darlo a vedere, e alcuni particolari anche decisivi per capire i rapporti tra le persone vengono dissimulati fin quasi alla fine.

Non è un noir, nonostante il titolo: il sangue di cui si parla non è quello dei morti, è quello dei vivi. Passare per il sangue, spiega a un certo punto la nonna, significa essere legati dal sangue, avere rapporti fecondi in senso letterale, cioè che generano discendenza. È chiaro allora qual è l’ultima cosa che lega Agar e Luca, la più profonda: l’amore omosessuale per definizione è infecondo, non passa per il sangue quindi (e quando Luca le rivela che lui e Marcello stavano insieme, lei anche se ovviamente aveva sempre sospettato ha una reazione di condanna dura, moralistica). Ma anche Agar non è passata per il sangue: all’inizio perché, da giovane, ha temuto e a lungo creduto di essere diventata sterile, il che ha causato le titubanze e i muti rimproveri del futuro sposo, e di conseguenza in lei un rancore verso di lui durato fin sul letto di morte. Alla fine perché la sua discendenza, l’unico figlio della sua unica figlia, si estingue. Ma anche prima, perché comunque la grande pecca di Agar è stata quella di non generare un figlio maschio.

E qui casca l’asino, perché fino a che non passa per il sangue l’omosessuale ok, fintanto che non va bene chi non trasmette i suoi geni, ci posso pure arrivare (a capire, non a concordare), ma quando arriviamo all’erede masculo, alla trasmissione del cognome, è chiaro che stiamo discutendo non di cose ma di parole, concetti, costruzioni culturali. E allora vorrei contrapporre a sangue un’altra parola, che l’autore conoscerà nel suo significato più bello: carnale.

Sangue e carne, già. Ma non è la carne delle bestie (meat), quella che si mangia, bensì quella umana (flesh), quella che si tocca. (Piccola parentesi meta-narrativa: c’era una volta un bambino curioso, che chiedeva Mamma che significa che il venerdì santo bisogna fare digiuno e astinenza?; e la mamma credente e sfuggente rispondeva Digiuno cioè non mangiare, e astinenza dalle carni; e il bambino Ma mamma se uno già non deve mangiare come fa a mangiare la carne?).

Perché sì, il significato principale italiano attiene al senso, al sesso: rapporti carnali, violenza carnale. Ma in napoletano – e in italiano antico, come spesso accade – carnale è usato in un senso molto più vasto, e profondo: si dice di persona schietta, affettuosa in modo prorompente, fisico, uno che non ha imbarazzo, né sottintesi, ad abbracciarti stretto. “E’ ‘nu carnalone”, sentii dire una volta a una ragazza a proposito di un tipo conosciuto da poco, e non è che ci stava provando.

Allora quello che non passa per il sangue può passare per la carne, può essere carnale. Carnale come una relazione (omo)sessuale, certo. Ma carnale anche come un rapporto tra un giovane gay e una vecchia cristiano-ortodossa. Carnale come una carezza che prima indurisce una faccia, e poi fa brillare una lacrima, uno scioglimento.

Ps: domani anche su www.giudiziouniversale.it

Ps2: martedì 27 novembre alle 18 ne parleremo con l’autore e Giusi Marchetta alla libreria Torre di Abele di Torino (evento facebook). Conflitto d’interessi? Ma quando mai, se non mi piaceva non ne parlavo, non ci parlavo.


I microtoni del chitarrista impossibile

David Fiuczynski, Planet MicroJam, Rare Noise Records

The other side. Qui siamo alle prese con una roba ostica. A partire dal nome del tizio: David Fiuczynski, per gli amici e non solo, d’ora in avanti semplicemente Fuze. Occhio agli strumenti: chitarre senza tasti e chitarre con i quarti (e i sesti!) di tono, lui; violino e tastiere microtonali e basso senza tasti, oltre che batteria, gli altri. Si capisce che Fuze, autodefinitosi il jazzista che non vuol suonare jazz, è fissato soprattutto con la sperimentazione sui microtoni: che può sembrare una cosa astrusa, ma è precisamente il punto di incontro tra il futuro della musica e le sue origini, l’avanguardia estrema e le più ancestrali tradizioni etniche – soprattutto del lontano oriente. Siete terrorizzati? Certo tutto quest’impianto teorico può sembrare scoraggiante, appunto ostico. Ma passando alla pratica… beh non è easy listening, però c’è molto rock, momenti blues e un’attitudine fusion: orecchiabile, addirittura. E non manca una bella iniezione di ritmo, complice anche il mito del drumming Jack DeJohnette. Per un allenamento che acquisti in fantasia, ma senza perdere il passo giusto.

(Articolo uscito sul numero di ottobre del mensile sportivo Correre)


Privacy 3.0, socialcosi e grande fratello: questione d’ingenuità o di ladigaghismo?

Allora, questo video l’avrete visto tutti, nei giorni scorsi impazzava sul web: si intitola “Stupendo spot belga sull’ingenuità della gente riguardo i propri dati in pasto ai social network” e sarebbe (perché un pochino puzza di bufaletta, ma questo non è importante, ora) sarebbe una pubblicità progresso con sottotitoli in italiano. Un mago legge nella mente delle persone – tatuaggi, vita sessuale, numero di conto corrente – finché si svela il trucco: dietro il tendone c’è un’intera squadra che setaccia internet e mette insieme informazioni pubbliche che le stesse persone hanno sparso qua e là in rete, soprattutto sui social. Morale: state attenti a quello che dite perché potrà essere usato contro di voi.

Non so a voi, ma a me queste dimostrazioni a effetto sanno sempre un po’ di complottismo, grillismo, paranoia esagerata. Peccato che proprio negli stessi giorni mi sia capitata una storia analoga, dove io addirittura assumo il ruolo del cattivo. Per puro caso. Un critico teatrale che avevo nominato in un pezzo mi contatta via mail, io prima di rispondergli lo googlo e leggo che è del ’77, gli scrivo e tra le altre cose dico “ci diamo del tu visto che siamo quasi coetanei?”. Continuiamo a chiacchierare e viene fuori l’idea di vedersi, in fondo alla sua mail trovo la firma con l’indirizzo, gli scrivo “abiti proprio vicino alla scuola elementare di mio figlio”. Lui risponde che anche sua figlia va a scuola nella stessa strada, che magari è la stessa scuola, io a questo punto lo cerco su facebook, anche se non gli chiedo ancora l’amicizia, e… lo riconosco. Per cui gli scrivo: “Ciao, papà di Marika!”. Al che lui, scherzoso ma evidentemente un po’ inquietato: “Sai quanti anni ho, sai dove abito, sai come si chiama mia figlia… aiuto qui c’è il Grande Fratello”.

Io non ho fatto altro che mettere insieme – e come dicevo per puro caso, senza cioè uno scopo indagatorio – una serie di info pubbliche o a me accessibili: l’età (da internet), l’indirizzo (dalla mail), il nome della figlia (dalla sua faccia, che vedo tutti i giorni live e che ritrovo su facebook). A lui sono sembrato un agente della Stasi. O Gennaro D’Auria.

Torniamo quindi alla morale classica: fessi che non siete altro, se postate il diametro del vostro ombelico su pinterest, poi non vi lamentate quando vi perseguiteranno i feticisti degli odori corporei. E in effetti, conosco una persona che ha messo sul citofono un numero invece del cognome (qui a Torino si usa…), e poi però su linkedin rende visibile al mondo il numero di cellulare (e una foto del profilo in cui sembra molto attraente). Il problema, si dirà, è che noi nati nell’era geologica pre-1.0, quella dove la conquista tecnologica si chiamava tv-color, non ci rendiamo conto: vediamo il mondo reale come pieno di insidie e quello virtuale come pieno di opportunità, senza pensare che spesso è tutto al contrario. O meglio: probabilmente non ci sono molti head hunter che girano in mezzo alla strada a caccia di curriculum, ma ci possono essere un bel po’ di stalker o mariuoli a spasso per il web.

Eppure, forse, non è solo questione di ingenuità. Qualche mese fa girava sulle bacheche facebook un fake che faceva dire a qualche nostro amico

WOW!!! Il mio profilo è stato visto 38 volte SOLO OGGI, sembra che io abbia un certo numero di persone che mi seguono eheheh!!! Scopri chi visita il tuo profilo su http://********

Anche in questo caso, poco importa che sia (qui sicuramente) bufala, spam, virus. Quello che ci interessa è il desiderio che va a titillare: “WOW”… “SOLO OGGI”… ma soprattutto “mi seguono”. Ecco il punto: mi seguono. Noi vogliamo essere seguiti. Il nostro desiderio è la fama. (Il nostro dio è la fama, e klout è il suo profeta).

È il desiderio che ha portato un mio amico/collega – uno con qualche follower in più su twitter, un paio di libri un po’ meno di nicchia all’attivo, collaborazioni con testate un pochino più prestigiose, uno insomma appena una spanna sopra di me, ergo una non-star come me – a dirmi qualche tempo fa, con assoluta serietà e sprezzo del ridicolo: “Ah già, questo fatto mio tu lo sai perché mi segui…”. Mi segui.

Ed è inutile che vi chiamate fuori, è un morbo che ci ha contagiato tutti, dal più tamarro fan di Lady Gaga al più hipster contributor di Pitchfork. È il ladigaghismo, malattia senile dello starsystemismo, così superbamente descritto (inventato?) da Massimo Balducci in questo libro.

(…) indurre il pubblico a sentirsi contagiato – come per osmosi – dalla celebrità che la diva porta con sé. Se oggi l’unica lotta di classe rimasta non è più tra ricchi e poveri, ma tra famosi e anonimi, Gaga regala ai fan l’emancipazione più consolatoria e risolutiva: ognuno di noi può sviluppare una “Fama interiore”, che è bella come se si fosse famosi davvero, e neanche solo per 15 minuti ma per sempre! Cosa ci debba poi essere dentro quella celebrità, interiore o esteriore che sia, non ha alcuna importanza: essa nobilita qualsiasi contenuto. È la versione postmoderna dell’arricchitevi tutti reaganiano, con la Fama al posto dei soldi.

Insomma, non c’è dubbio che per proteggerci dobbiamo cambiare le impostazioni della privacy. Ma non nel nostro account, nel nostro cervello.

PS: per fortuna ogni tanto qualche liscio il GF lo prende ancora, e a me che sono un noto macho tutto muscoli e motori consiglia i seguenti acquisti:


L’accusata. Tratto da una storia Wiera

Agata Tuszynska, Wiera Gran. L’accusata, Einaudi, traduzione di Margherita Botto, pag. 336, euro 20

Questo libro è tratto da una storia falsa. Wiera Gran. L’accusata parla di Vera Gran, all’anagrafe Wiera Grynberg, e già sul nome abbiamo più versioni. Donna di bellezza magnetica (come si vede nella foto di copertina), cantante dalla voce calda e sensuale: questi due – e l’ambientazione nella Varsavia occupata dai nazisti – sono gli unici punti su cui tutti sono d’accordo. Per il resto, la storia della Gran sono due storie, e allora per forza di cosa una sarà vera e l’altra falsa: ma quale? Da una parte c’è la ragazzina ebrea di talento che ogni impresario teatrale vuole portarsi a letto, dall’altra la giovane donna altezzosa e fredda; da una parte l’artista nel ghetto che per mantenere sé, la mamma e le sorelle, non può far altro che esibirsi dovunque e comunque, dall’altra la diva che calca le scene di locali ambigui frequentati da tedeschi e collaborazionisti; da una parte la benefattrice che fonda un orfanotrofio, dall’altra la riccona, la “puttana della Gestapo”; da una parte quella che riesce a fuggire dal ghetto e resta nascosta come un topo fino alla fine della guerra, dall’altra quella che viene vista girare liberamente per la parte ariana della città, e sempre in compagnia di alti ufficiali dei Reich.

Finita la guerra, scampato l’orrore della deportazione e del lager, inizia l’orrore che accompagnerà Wiera per tutta la sua lunghissima vita: si presenta da Szpilman, il suo pianista di tanti concerti, e quello invece di accoglierla con un “Che bello rivederti viva”, dice “Come, non sei morta?!”. Sarà solo il primo di tanti: la meraviglia si muta in sospetto, il sospetto in accusa. Nell’immediato dopoguerra ebrei e polacchi erano molto severi con i collaborazionisti, e c’è da crederci. Wiera si fece processare per fare chiarezza, e fu anche assolta. Ma quell’ombra, quella costante occasione di ricatto, la perseguitò ovunque, dalla Francia a Israele fino in Sudamerica: fino a stroncarle una carriera sempre sul punto di spiccare il volo (si esibì a fianco di Aznavour, venne definita “la Piaf polacca”) ma mai definitivamente decollata; fino a farla lentamente impazzire. Szpilman, il pianista, scrisse un libro, da cui venne tratto il famoso film di Polanski: nel libro, e nel film, la Gran semplicemente non c’è, una sorta di damnatio memoriae a vittima ancora in vita.

Agata Tuszynska, figlia di una sopravvissuta del ghetto, è autrice di biografie (Isaac B. Singer) come di dolorosi racconti di vicende familiari: qui tiene insieme magnificamente entrambi i lati. La giornalista-scrittrice conosce Wiera Gran nel 2003, quando ormai l’ex cantante vive barricata in casa, e tormentata dai deliri di persecuzione (se ne intuisce il motivo…) vede microspie e scarafaggi dappertutto. Ma la Tuszynska non demorde, si fa raccontare da lei tutto quel che ricorda, cerca di separare l’astio dalla paranoia, compulsano insieme atti giudiziari e lettere private; poi cerca e interroga tutti i testimoni dell’epoca, quelli ancora vivi. Il libro non è una biografia romanzata, ma neanche un’inchiesta: piuttosto la storia del coinvolgimento personale dell’autrice mentre conduce l’inchiesta. Agata più va avanti, tra documenti e racconti, più i dati che accumula sono divergenti, contraddittori, finché si convince che trovare la verità non è impossibile: è inutile.

Pensiamoci: è facile parteggiare per le vittime o per gli eroi; è comodo per noi, che nel ghetto o a Treblinka non ci siamo mai stati, metterci nei panni di Anna Frank o di Primo Levi, di Schindler o di Perlasca. Mettiamoci invece nei panni della gente comune, che in una situazione estrema ha una sola, risicatissima possibilità di sopravvivere. Faremmo di tutto per portare a casa la pelle? E che si intende per “tutto”? E che si intende per “collaborare”? Arruolarsi nella polizia ebraica, che aiutava i tedeschi a caricare i propri fratelli sui treni diretti ai campi di sterminio, certo, è collaborare – anche se pure su quello ci sarebbe da dire, perché la deportazione non era iniziata subito, e la polizia era una specie di servizio d’ordine, si trattava in sostanza di fare da cuscinetto tra Gestapo ed ebrei. Ma per esempio, redigere un giornale che per forza di cose sarà sottoposto al controllo tedesco, quando scrivere è l’unico lavoro che si sa fare: è collaborare o tentare di sopravvivere? E gestire un locale dove inevitabilmente verranno a farsi un bicchiere ufficiali invasori? E cantare in uno di questi locali? Ed essere costretta, come capitò a Wiera, a esibirsi un paio di volte e sotto implicita minaccia (di cosa, è ovvio) in una festa a casa di un noto collaborazionista?

No, giudicare non è possibile, provare a capire invece sì: questa è l’unica verità. Perciò, questo libro è tratto da una storia vera.

(Versione integrale dell’articolo uscito oggi sul Mattino)


Il fantasma della libertà

… solita collection di canzoni antiche e anonime dai quattro angoli del mondo: sussurrata e notturna come una ninnananna, e allora da qui converrà continuare (non partire, perché model d’emploi, lo dico mo’ e non lo dico più, questa Caravan si muove in cerchio, per cui potete scegliere di iniziare in un qualsiasi punto, fare il giro completo e fermarvi nello stesso punto o non fermarvi mai), cioè dalla fine (della giornata) ovvero dall’inizio (della vita), insomma dal momento in cui si mettono a nanna i bambini. L’idea è venuta a Giulia Lorimer, cantante dei mitici Whisky Trail che in ere storiche iniziarono a lavorare sul folk american-irish (oggi ha ottant’anni, auguri, quando iniziò nel ’75 con i Whisky ne aveva più di cinquanta, Camilleri non è l’unico evidentemente); Giulia Lorimer, un mappamondo vivente, nata in Svizzera cresciuta in Bulgaria sposata negli Stati Uniti, e un mappamondo di famiglia, per cui la sua ricerca sul campo è stata poco più che un giro di telefonate tra i parenti. È venuta fuori anche una vecchia cassetta con la voce della nonna di sua figlia, a sua volta ora mamma, e quindi in Nana’s lullaby cantano ben quattro generazioni, di donne, manco a dirlo. Nord America, Scozia e Irlanda, ma pure la Norvegia, guarda un po’, e dall’altro lato Spagna e America spagnola, e ovviamente Italia, anzi Toscana, compresa l’inquietante Coscine di pollo, e come il cacio a merenda ci azzecca un vecchio hit dei Whisky Trail su versi di Yeats (Fairy nurse). Arrangiamenti rispettosi, un vago sentore di polvere ma buona, un certo ovvio déjà entendu, per il momento a casa l’ho sentito solo io ma mi riprometto di fare la prova del nove (anzi del quattro, che tanti sono a fine mese, auguri) e vi dico. Ci sta pure Duerme negrito (uno dei punti più alti della poesia civile popolare: “Si el negro no se duerme / viene el diablo blanco…”) che non è – e la mancata coincidenza come mi fece innervosire secoli fa quando la non-scoprii – Duerme negrita di Eliseo Grenet, compositore cubano tra le due guerre. Questa, e non la prima, compare in un altro disco di ninnenanne che, curioso caso, esce pure in questo periodo; e, curioso caso ma forse no, quattordici pezzi nell’uno e diciannove nell’altro, nemmeno uno è in comune. Bonne nuit è un progetto di Diego Baiardi e Antonio Crepax, poi vediamo perché. Forse non è un caso dato che la scelta qui è molto più internazional-popolare, ci sta la tradizionale trentina e sarda e veneta e berbera, ma spuntano e impazzano le Lullaby famose, quella dei Cure, quella dei Creed, e poi Bregovic, Billy Joel, persino Buscaglione, e non mancano perle rare (su tutte, a confermare la superiorità della musica brasileira, la stupenda Pro nené nanar dove per una volta a cullare è un padre che però alla fine è lui che ma basta con la critica ombelicale). E anche l’approccio musicale è diverso – perché diverso l’approccio generale, nella Lorimer genuinamente tradizionale, nel senso di finalizzato a tramandare una conoscenza, qui di rivisitazione moderna e artistica, come risulta ovvio guardando il progetto complessivo ma non corriamo – il quartetto di Baiardi è affiancato da ospiti di prestigio (tipo Fresu, De Piscopo, Salis) e alla voce si alterna la meglio gioventù (tra cui Cristina Zavalloni, Petra Magoni, Patrizia Laquidara), come si vede di ambito jazzistico allargato. È il jazz il punto di riferimento di queste ninnenanne, come modalità operativa prima ancora che come finalità espressiva, il sogno sta al sonno come il jazz sta alla musica, scrive a un certo punto Antonio Crepax, e sì, è lui, il fratello di Valentina. Il cd è accompagnato da (meglio: il cd accompagna) un bel volumetto in hardcover dove con grafica curata e impaginazione colorita sono inseriti i testi delle canzoni, le presentazioni e le esplicitazioni firmate da Antonio, e ovviamente i disegni di papà Guido: Valentina da piccola, Valentina da grande, in tutte le situazioni più assurde e, appunto, oniriche.

(Era il non-incipit della mia rubrica Caravan, sul numero di novembre di Blow Up. No, i puntini all’inizio non sono un refuso, è pensata proprio così, come una struttura circolare. Peccato non poterla riportare tutta ma… come sempre, continua in edicola)

TAPPE PRINCIPALI

Giulia Lorimer & Whisky Trail, Nana’s lullaby, Materiali sonori

Diego Baiardi e Antonio Crepax, Bonne nuit, Incipit records

Mauro Ottolini Sousaphonix, Bix Factor, Parco della musica records

Béla Fleck and the Marcus Roberts trio, Across the imaginay divide, Rounder

Arianna Savall / Petter Udland Johansen, Hirundo maris, Ecm