Il quadrato magico che potrebbe spiegare il mistero di Tenet

“Per te ho una sola parola: Tenet. Ti aprirà le porte giuste. E anche alcune sbagliate”

Il primo trailer di Tenet, prossimo film di Christopher Nolan, è uscito a fine 2019 – sembra un’era fa, adesso. Fino a quel momento, se ne sapeva pochissimo: il titolo, qualche attore. A fine maggio, con una peste in mezzo, abbiamo visto il secondo, su Fortnite: morale, se ne sa ancora di meno. Il segreto che circonda la produzione – scelta di marketing e/o adesione alla spoiler-fobia – è fittissimo; trapela solo ogni tanto qualche notizia secondaria, e sempre dello stesso segno, tipo che gli stessi attori non hanno avuto accesso al copione completo ma solo alla loro parte. E i due trailer, anche visti uno dopo l’altro, più che fornire elementi, fanno ammuina.

Spionaggio, pistole, inseguimenti, azione. Ma anche misteri, enigmi da risolvere, fantascienza e soprannaturale (“Benvenuto nell’aldilà”, si sente dire dopo un traumatico risveglio John David Washington: questo Afterlife sarà da intendersi alla lettera o come nome di una società offshore?). Bene: qualcuno per caso ha detto Inception? In effetti, è stata fatta notare più di una somiglianza con il mood di quel controverso film di Nolan. E tra l’altro, Tenet esce a luglio, a 10 anni esatti di distanza dalla pellicola con DiCaprio. Quindi, che sia un sequel? O uno spinoff, una storia ambientata “nell’universo di”? Mah. Come ha giustamente detto qualcuno, sarebbe la prima volta per Nolan, se si esclude la saga del Cavaliere oscuro, pensata ab origine come trilogia. E allora? Facciamo così, ascoltiamo il suggerimento: “Una sola parola: tenet”. Torniamo al titolo.

“Deve ancora succedere”

Tenet è una parola latina, ovvio. Ed è un palindromo, cioè una parola che resta uguale anche se letta dalla fine all’inizio. Questa cosa già comincia ad avere dell’esoterico, ma è un esoterico ormai pop (i dischi che letti al contrario contengono messaggi satanici, tipo, che è un po’ come dire gli sconosciuti che regalano le caramelle di droga fuori dalla scuola: non sono mai esistiti se non nella testa di mamma e papà). E, casomai non se ne fosse accorto nessuno, il titolo l’hanno scritto con le ultime due lettere rovesciate, per rendere graficamente evidente il concetto. Enigmistica for dummies.

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Il nome segreto di Arendelle

Ci sono cose che si sanno anche se non si conoscono. Soprattutto se non si conoscono. Le tradizioni e i miti appartengono alla cultura, cioè alla memoria collettiva di un popolo, e sono saperi che non si apprendono, ma si assorbono, si respirano. Un italiano del XXI sec. non ha bisogno di imparare che la pasta si getta in una pentola d’acqua bollente, e non fredda: lo ha visto fare talmente tante volte che lo sae basta. Così gli antichi greci non si mettevano a studiare l’Odissea, ma erano semplicemente circondati dalle storie di eroi e divinità. Proprio come noi siamo immersi nel nostro brodo di cultura e non dobbiamo fare sforzi per conoscere biografie o aneddoti delle celebrity e delle star (l’accostamento non scandalizzi: si potrebbe dire che ognuno ha i miti che si merita, ma sarebbe malcelato snobismo anch’esso; piuttosto non si trascuri la parola “star” perché è un concetto chiave, su cui torneremo). Tutto questo per dire che non è necessario amare la saga di Frozen, e neanche aver visto i due film usciti finora, per sapere di cosa stiamo parlando.

Sappiamo che Frozen – Il regno di ghiaccio (2013) dichiara esplicitamente un’ascendenza nobile: la fiaba di Andersen intitolata La regina delle nevi. (In realtà il collegamento è talmente tenue, come si può vedere leggendo la lunga e cupa narrazione, che se non fosse stato appunto sbandierato, non se ne sarebbe accorto nessuno). Sappiamo che i film d’animazione Disney attingono a piene mani dai repertori mitologici, semplificando e stravolgendo, e questo ci può piacere o meno, ma è un fatto. Frozen più di altri è immerso in una foresta di simboli e richiami, in particolare dalla mitologia norrena. I quattro elementi – acqua aria fuoco terra – per esempio, sono ubiqui; non altrettanto le loro personificazioni. Nei miti dell’estremo nord ricorre la raffigurazione del mare come un cavallo, una bestia impetuosa e indomita, di colore grigio scuro, che travolge e annega, spingendo giù con le zampe. (Qualche residuo arriva fino all’italiano: l’onda si cavalca, e il bimbo ha paura dei cavalloni.) Chi ha visto Frozen II ricorderà come una delle scene più oniriche – sono le migliori, arrivando in certi casi al confine con lo psichedelico – lo scontro subacqueo tra Elsa e lo spirito dell’acqua: un cavallo. Ma di esempi se ne potrebbero fare tanti; qui ne vedremo uno: è il filo più sottile, più occulto, ma più gratificante se lo si riavvolge tutto.

Mito, leggenda, fiaba e fantasy sono, com’è noto, cose diverse, ma contigue: gli spiriti trapassano dall’una all’altra senza darsi pensiero, e così faremo noi, seguendoli.

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Psycho come non l’avete mai letto

Una delle cose che affascinano di più gli spettatori della prima stagione di Fleabagè il fatto che la protagonista nei momenti più intensi e improbabili – un vertiginoso dialogo, una scopata come si deve – si gira verso la camera, verso di noi, e ci spara una battuta micidiale, aggiungendo ulteriori layer di lettura e di ironia. Questo costante abbattimento della quarta parete è più divertente che dirompente, come negli a parte dei commedianti a teatro – e in effetti Phoebe Waller-Bridge dal teatro viene, dal teatro ha adattato la serie TV.

Una delle cose che affascinano di più gli spettatori della seconda stagione di Fleabag è che questo giochino continua ma il coprotagonista, il prete di cui la ragazza si innamora, sembra accorgersi di qualcosa. Non capisce appieno, non sente quello che lei dice, ma percepisce un’assenza, una distrazione (non dice cos’hai detto o con chi parlavi, chiede: dov’eri). Perché? Come cacchio fa?

Possiamo fare diving in spiegazioni al limite dell’esoterico: ci azzeccano bene interpretazioni di tipo psicanalitico, o di stampo religioso, perché il prete è in contatto con Dio e quindi avverte la presenza di un altrove rispetto alla realtà della serie-mondo (e l’altrove siamo noi: questo a sua volta può essere letto in senso cattolico, giansenista, gnostico), o semplicemente in chiave romantica.

Guarda in camera anche Belmondo per tutto Fino all’ultimo respiro. Guarda in camera, ma solo alla fine, sollevando gli occhi mentre l’inquadratura stringe, Norman Bates in Psycho. Guarda “in camera” uno dei due vecchioni che spiano Susanna prima di provare a insidiarla, nella versione del mito biblico dipinta dal Guercino, ed è una chiamata in correità: ehi tu porco, anche tu, mio caro spettatore del quadro, stai spiando la ragazza nuda come noi, quindi non fare tanto l’anima candida, non ci giudicare. Ma forse, anche quelle di Belmondo e Bates (per non parlare di Waller-Bridge), più che a parte teatrali, più che richieste di aiuto o dialogo, sono chiamate in correità.

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Coco

Il cinema d’animazione mainstream – quello davvero per bambini e famiglie, non quello per noialtri nerd affetti da sindrome di Peter Pan – sta mostrando la corda? Nell’ultimo ventennio, dal seminale Toy Story (1995), ha sfornato capolavori di innovazione tecnica ma anche e soprattutto di complessità narrativa, sia che fossero nuove favole (Up) sia venisse rielaborata la tradizione (Rapunzel). A scorrere le uscite del 2018 per cercare il top da inserire in questa lista, abbiamo fatto una discreta fatica: è finita la magia? Andando a ritroso, troviamo lo squallido Grinch, film di rara bruttezza e prevedibilità; poi Gli incredibili 2, che per carità è un grande ritorno e non un sequel di prammatica, e farà anche un discorso interessante e metalinguistico sul nostro bisogno di supereroi, ma fallisce proprio lì dove vorrebbe essere originale (un papà che combina disastri se lasciato a casa ad accudire i figli, ma che davvero?). E poi certo c’è stato Wes Anderson, ma L’isola dei cani più che un film di animazione (in stop motion) è, beh, un film di Wes Anderson.

Tutto questo per dire che, risalendo risalendo, siamo arrivati a Coco. Che, altolà, è formalmente del 2017. Ma è uscito negli ultimi giorni di dicembre, addirittura dopo Natale, e quindi, suvvia, l’hanno visto tutti quest’anno, no? Anche perché a esser pignoli sarebbe un film di Halloween, con la sua ambientazione da Dìa de los muertos. La mitologia messicana sulla commemorazione e il ritorno dei defunti dall’oltretomba, in verità, più che lo sfondo è il tema centrale e l’intima ragion d’essere della vicenda. Gli umani hanno pensato le forme dell’aldilà per consolarsi dall’idea della morte; ma anche un morto può morire, succede quando sulla terra neanche più uno dei vivi lo ricorda, ed è una morte definitiva, tristissima.

Coco prende questo mito e lo concretizza, lo realizza alla lettera, in una esplosione di suoni e colori: le scene sono un trionfo di psichedelia che spinge l’immaginario barocco del Messico ancora più in là; la musica è al centro esatto della trama, per cui le bellissime canzoni sono parte del filo e non snervanti interruzioni. (E non manca la bonaria ironia verso la leggenda ormai strabordante di Frida Kahlo). Davvero per famiglie, anzi per genitori e figli; dove alla fine i secondi esclamano “wow bello!”, mentre i primi sono lì che zampillano lacrime come una tubatura rotta.

(Mio contributo alla lista dei migliori film del 2018 su Esquire Italia)


La mano di Frances McDormand

C’è un momento in Tre manifesti a Ebbing, Missouri che da solo vale tutto il film (se non di più). Un film strano, molto bello ma a tratti spiazzante, che sembra scivolare verso un grottesco in stile fratelli Coen, ma poi non lo fa del tutto. Un film che è stato anche criticato per il trattamento marginale riservato agli afroamericani, ma che secondo me riserva un trattamento ancora peggiore ai personaggi femminili di contorno, soprattutto le giovani donne, macchiette al limite dell’idiozia. Un film per cui però la protagonista Frances McDormand ha ricevuto un meritatissimo Oscar.

Il momento è quello in cui lei riceve una delle tante mazzate – posto che la principale, la figlia stuprata e uccisa, l’ha ricevuta prima ancora dell’inizio del film – che nel corso della storia la fanno vacillare ma non cedere. È seduta, abbassa la testa e se la regge con la mano, nel classico gesto di sconforto. La faccia sparisce dietro la mano. La camera stringe su di lei: il dorso della mano è al centro dello schermo. È una mano che parla, è una mano che recita.

È una mano forte, è una mano grande. È una mano da cui sporgono le nocche, percorsa da vene sbalzate in rilievo. È una mano che non trema; è una mano fragile e disperata, è una mano che potrebbe uccidere, che lo ha quasi fatto. È una mano con un’espressione, più significativa e intensa non solo delle due famose espressioni di Clint, col cappello e senza, ma di molti bellocci di Hollywood. È una mano che da sola, in pochi secondi, riassume tutta la determinazione e la debolezza del personaggio interpretato da McDormand. È una mano che ha ragione da vendere. È una mano che ha torto marcio. Come tutti noi. Ma lei di più.

(Il mio contributo al pezzo collettivo di Esquire dell’11 marzo. Leggi tutto)


Quello che non mi ha convinto di Black Panther

Sono stato anche io nel Wakanda. I supereroi non sono my cup of tea, ma mi sembrava troppo epocale per trascurarlo. Di Black Panther si è parlato in abbondanza: del film, dei suoi precursori, della sua importanza politica, della colonna sonora, del fumetto. Ma so che non vedevate l’ora di sentire anche la mia (ah ah). Anche perché c’è qualcosa che non mi ha convinto.

Capiamoci: è molto bello, e molto significativo. Il fatto che non esistano i buoni e i cattivi nettamente divisi, il dissidio tutto interno alla comunità nera sulla linea da tenere, i dilemmi etici che sono inevitabili quando si maneggia un grande potere come quello dell’Anell… ehm volevo dire del Vibranio. Ma secondo me c’è qualcosa che non va. (E non è la faccia un po’ così di Daniel Kaluuya, la cui espressione perplessa era in effetti più adatta alla follia di Get Out! che al piglio di un generale.)

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L’ho trovato, nei momenti d’azione – battaglie e duelli – come dire, irreale. Grazie, direte voi, è un film di supereroi, che c’entra il realismo. Sgombero il campo da un equivoco: io non sono fissato col realismo, non mi metto a sbuffare se vedo un elfo o un superpotere; sono appassionato di fantasy e fantascienza, di mondi alternativi in genere. Penso però una cosa: un mondo può essere costruito sulle leggi più assurde, va bene, ma poi le conseguenze logiche devono essere portare fino all’estremo. Diceva il buon Tolkien che se in un universo ci sono dei maghi che fanno incantesimi capaci di annientare un esercito di 100.000 soldati, in quel mondo non ci saranno eserciti di 100.000 soldati. E quindi: se esiste un materiale che ti rende invulnerabile anche se ti arriva addosso una bomba atomica, perché i tuoi avversari – che lo sanno – si gettano su di te con lance e pistole? Perché tu e il tuo antagonista, rivestiti completamente di Vibranio, mi intrattenete con un match di 20 minuti in cui si sa che non vi potete fare neanche un graffio?

Ma vi ripeto: forse il problema sono io, che non capisco i cinema di mazzate.


Lion e la risposta di Pirandello

Qualche giorno fa ho visto un film assurdo, che pur senza appartenere al genere fantastico racconta una storia estremamente irrealistica. Si chiama Lion, il protagonista è Dev Patel – l’ex ragazzo prodigio di The millionaire – ed è del 2016 (negli ultimi dieci anni sono andato al cinema così poche volte che per me il 90% delle pellicole uscite dopo il 2008 è una novità assoluta, come vedere un’anteprima mondiale – il restante 10% sono film di animazione: su quelli sì, sono ferratissimo).

Per una serie di coincidenze una più improbabile dell’altra il protagonista, un bambino indiano di 4 anni, si trova a vivere in Tasmania. Sentite qua: a) sale su un treno parcheggiato in una stazioncina mentre aspetta il fratello maggiore; lui s’addormenta e il treno parte; b) non è un treno passeggeri quindi le porte non si aprono e lui non riesce a scendere se non a Calcutta, 1600 km dal suo villaggio; c) il suo villaggio è talmente piccolo e lui ne pronuncia il nome talmente male che nessuno riesce a capire da dove viene; d) sopravvive in strada agli assalti di criminali, pedofili e sfruttatori; e) finisce in un orfanotrofio e di lì viene adottato da una coppia australiana; f) venti anni dopo, si mette alla ricerca delle proprie origini, riavvolge il sottilissimo filo e, grazie a google maps e a una serie di coincidenze fortunate, e riesce a tornare al villaggio; g) la mamma è ancora lì che lo aspetta (il fratello era morto quella notte stessa in cui lui si era perso).

Pazzesco, no? Una trama talmente assurda che non sta in piedi; gli sceneggiatori non hanno pensato che una storia così potesse risultare per nulla credibile? Sì che ci hanno pensato: infatti nei titoli di testa campeggia la scritta TRATTO DA UNA STORIA VERA, e durante quelli di coda si vede il vero Saroo al villaggio con le sue vere due mamme. Non può non venire in mente l’introduzione alla seconda edizione de Il fu Mattia Pascal, quando Pirandello risponde a chi lo aveva accusato di aver scritto una storia troppo inverosimile, semplicemente citando un caso di cronaca – avvenuto dopo la pubblicazione del romanzo – che ne ripeteva le vicende in maniera quasi pedissequa.

Morale? (Morale?) Che la realtà supera la fantasia? Vero, ma ovvio. Forse anche che la nostra fantasia, al contrario di quello che pensiamo, è così limitata e gretta che certe cose ci sembrano assurde, fino a che non succedono davvero (NB: non è un endorsement al PD).

(Il mio contributo al pezzo collettivo di Esquire del 25 febbraio. Leggi tutto)


La fiction su De André è un vangelo apocrifo

Io non volevo vederlo, questo film su Fabrizio De André, non volevo neanche sentirne parlare: non volevo proprio che esistesse. Il primo istinto, quando qualche tempo fa ho saputo che lo stavano facendo, è stato quello di comprare un biglietto per Marte, di fuggire il più lontano possibile da questa cosa. Perché lo so, lo sappiamo tutti, come sono i biopic: come riescano a banalizzare, ad appiattire, anche quelli fatti meglio; come riescano a fare di un personaggio pubblico – ovvero un personaggio di cui ognuno ha la propria versione, la propria interpretazione privata – un eroe nazionale, un santino uguale per tutti. Per fortuna finora la cosa mi aveva toccato solo di striscio: Padre Pio, Oriana Fallaci, Pietro Mennea… non è che siano proprio i miei miti, ecco. Ma De André, è diverso. Se per te che leggi è la stessa cosa, puoi capire; se no, pensa al tuo equivalente.

Poi è successo che ho letto una cosa scritta dagli sceneggiatori (Giordano Meacci e Francesca Serafini), i quali parlano di “tradimento voluto”, “memoria distorta”, “inventato dal vero”, e insomma la curiosità mi è venuta. Ed è vero: è tutto vero, quello che scrivono loro sull’interpretazione, quindi è falso, è tutto falso quello che si vede nel film. Cioè, si fa per dire: i tratti essenziali della biografia ci sono – quelli noti perché pubblici, quelli meno noti sono stati ricostruiti insieme a Dori Ghezzi, che ha appoggiato l’operazione. Ma se le biopic normalmente si risolvono in agiografie, questo è un vangelo apocrifo (d’altra parte, non era stato lo stesso De André a utilizzarli come fonte della Buona novella?).

(Continua su Esquire)


Il meglio del 2013

(E basta con le classifiche di fine anno, no? Allora, su Giudizio Universale abbiamo fatto questa cosa: le classifiche dell’anno prossimo. Il top del 2013: immaginato, inventatissimo. Pensate che ne so, a un’idea di Borges, però messa per iscritto da Boldi. E qua ci stanno i tre pezzulli miei (per la prima volta, credo, mi cimento anche con il cinema (ovviamente quello per  bambini)))

MUSICA ETNICA
Aa.Vv. (a cura di Mauro Pagani), Occupy World Street, Ricordi
Il genio febbrile di Mauro Pagani, reduce dalla direzione musicale di Sanremo (ma le incisioni risalgono a mesi prima) se ne esce con un progetto di tutt’altra specie: un capolavoro, per idea e per realizzazione. La perfetta sintesi di Alan Lomax e Marc Augé: vere registrazioni sul campo, di musicisti ignoti appartenenti alla più diverse culture, senza né filtri né suggerimenti – come nell’epoca d’oro dell’etnomusicologia – però effettuate non in luoghi esotici ma per le strade di una metropoli occidentale – ispirandosi all’antropologia “della vicinanza” dello studioso francese. Il mondo in una strada, come allude il titolo engagé. E quindi il quartetto ungherese che si lancia in danze dispari a velocità folle; il fisarmonicista tedesco, one man band che aziona grancassa piatti e altro con un sistema di leve e pedali, e canta le hit del primo dopoguerra o i classici napoletani riarrangiati a tango; gli immancabili zingari con un trombettista virtuoso in assoli post-bop; il turco solitario con il suo saz, ma elettrificato e distorto per fare cover strumentali di Hendrix; il bluesman con la voce arrochita e il fingerpicking tirato a lucido; l’immancabile suonatore di bicchieri, l’inevitabile pizzica, ma poi persino un mezzosoprano lirico…
E non è tutto: come bonus, un cd interamente dedicato al remix. Una rielaborazione dei materiali appena ascoltati, affidata ai più intelligenti in circolazione tra dj ed “elettronicisti”: Ricardo Villalobos, Robert Miles, Mattew Herbert e via sperimentando. Ma le sorprese non sono finite, forse, perché nei ringraziamenti compare una sfilza apparentemente incongrua di grandi nomi: Bill Frisell, John Renbourn, Rabih-Abou Khalil, Márta Sebestyén, Daniele Sepe, Paolo Fresu, Antonelli Salis… e Severino Gazzelloni, il mitico flautista che si ricorderà protagonista di una beffa, una prova del non-ascolto dei passanti: travestito da musicista ambulante non venne riconosciuto per una giornata e raccattò pochi spiccioli. E se fosse tutto uno scherzo?
FILM ANIMAZIONE
Cappuccetto Rosso 3, di Alejandro González Iñárritu, Usa, 99 minuti
Una serie incredibile di prime volte. La Disney tra i tanti classici non aveva mai (e dire che il barile delle favole lo ha ben grattato) fatto Cappuccetto Rosso, se non in cortometraggio. Qui rimedia, ma tramite la longa manus della Pixar: altra sorpresa, non erano loro che avevano giurato guerra al “tratto da”? Infine, l’esordio animato diIñárritu. Chi ha apprezzato il ritmo e l’intreccio (sic) di Rapunzel, misurando la notevole distanza non solo dal prototipo Biancaneve ma anche da rifacimenti molto più moderni come La bella e la bestia, si prepari a un altro balzo in avanti qui: tre storie di tempi e luoghi diversi si intersecano, nel più puro stile del regista di Amores perros, 24 grammi e Babel. La vicenda di Cappuccetto, quella dei tre porcellini, quella (lunga secoli) del lupo mannaro: è lui il fil rouge tra le due precedenti, e il vero protagonista di questo noir appena appena mascherato. Il finale, anche se copiato dalla riscrittura in versi che ne fece Roald Dahl, sorprende sempre: ed è più cattivo che mai.
LIBRO INTERATTIVO
Karen Russell, The show is going on, Pound
Qui siamo alla fantascienza al quadrato, all’apoteosi del futuribile. Anzi con Karen Russell, già autrice di perturbanti distopie, il futuro è bell’e arrivato: sia nella forma che nel contenuto. Partiamo da quest’ultimo: il filone è quello post-apocalittico-post-tutto, nel senso che tutto quanto di peggio poteva succedere è già successo. Ma con una differenza che nessuno, a ci pare, ha mai osato immaginare: la razza umana si è estinta. Però, guarda un po’, non si è estinta la vita: in pochi giorni, o in poche pagine che condensano milioni di secoli, si ripercorre l’evoluzione, o si immagina una evoluzione alternativa – siamo alla fantabiologia. I sopravvissuti, o nuovi abitanti che siano, sono i prevedibili scarafaggi, qualche altro insetto, molte specie diverse di anfibi, per qualche motivo nessun uccello o creatura volante, delle iguane mutanti e altri strani rettili, pochi mammiferi di piccola taglia (soprattutto topi, chi altri?). Queste bestie interagiscono tra loro, e parte una trama, ma il colpo d’ala è che non sono antropomorfizzate (Russell è agli antipodi della metafora alla Orwell), eppure la storia è coinvolgente, convincente.
E ora, il meglio: The show is going on appare solo in formato di libro elettronico o di app per smartphone e tablet, perché è interattivo. La storia si sviluppa a bivi, come un labirinto che prevede anzi richiede la partecipazione del lettore-utente: molto più difficile da spiegare così, in teoria, che da leggere (giocare?) in pratica. In più, è multimediale: mentre si va avanti le pagine sono alternate a visionari montaggi di Bansky, che appaiono nei momenti più impensati, e il tutto è accompagnato dalla musica sghemba di John Zorn. Dopo tanto discutere sul futuro dell’editoria, sulle nuove forme del libro, e-book enhanced-book no-book, ecco la risposta definitiva. Dopo questo, cosa?