Extinction Rebellion, chi sono e che fanno i ribelli dell’azione nonviolenta

Premessa: in questo articolo siamo (o facciamo finta di essere) tutti d’accordo sui fondamentali. Sul fatto che il cambiamento climatico esista, sulla sua origine prevalentemente antropica, sul fatto che il problema sia globale, sistemico (in una parola, e che brutta parola: politico) e quindi altrettanto globale, sistemica e politica debba essere la risposta.

Insomma, qui NON è dove si tenta di convincere i negazionisti o gli scettici, non è dove si tenta di dimostrare che Greta Thunberg non è una foglia di fico ma un simbolo, meglio il dito che indica la luna, meglio ancora l’aeroplanino col cucchiaio per farci mangiare la verdurina. Qui non è dove si fa il debunking dei debunkers à la Rubbia, non è dove si prova a difendere i giovani scioperati. Tutte cose necessarie – purtroppo – ma possiamo per una volta provare a fare un passo avanti? La domanda è sempre quella: data la situazione, che fare?

Tra quelli che provano a dare una risposta, c’è il gruppo Extinction Rebellion. Nato a Londra nel 2018, si caratterizza per le azioni spettacolari – attivisti che si spogliano nel parlamento britannico, o si incollano le mani agli autobus – e l’approccio movimentista e radicale. Ma sotto il flash mob e la viralata, c’è sostanza: c’è un fermento di studi multidisciplinari e un approccio trasversale, una partecipazione di giovani ma anche di quarantenni e oltre, di studenti come di professionisti. Soprattutto, una partecipazione che si è estesa ad altri paesi, in modo orizzontale e non verticistico: in Italia il gruppo si è formato a inizio anno, e ora è presente più o meno in tutte le regioni. Da lunedì 7 ottobre gli attivisti convergono a Roma per la Settimana della ribellione, evento mondiale. Per farci spiegare meglio e direttamente da loro, abbiamo raggiunto Annalisa Gratteri, una delle due coordinatrici del gruppo Piemonte e Valle d’Aosta, proprio mentre era in treno per la capitale.

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Il riscaldamento globale è un problema politico

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Abbiamo tolto le cannucce di plastica dai drink. Stiamo abolendo le bottiglie d’acqua in PET per passare alle stilosissime borracce. Ci sforziamo di fare la differenziata, impegnandoci in uno slalom tra regole diverse da comune a comune, e in generale complicate e poco amichevoli (lo sapevate che le posate di plastica non vanno nella plastica? Che gli scontrini di carta non vanno nella carta? E che le bottiglie è meglio non accartocciarle ma schiacciarle?). Cerchiamo di mangiare meno carne, meno prodotti da agricoltura intensiva, meno avocado che vengono dall’altra parte del mondo. Puntiamo a uffici plastic free, città plastic free, un mondo plastic free. È giusto tutto questo? Ma certo che sì. Basterà a salvare il mondo? A fermare le conseguenze più deleterie dell’Antropocene, a evitare la sesta estinzione di massa, a scongiurare l’apocalisse climatica? Eh, purtroppo mi sa di no.

Il 23 settembre 2019 Greta Thunberg ha tenuto il suo famoso discorso all’Onu. Tutti abbiamo visto la sua faccia incazzata. Tutti abbiamo sentito o letto le sue parole, il suo How dare you, che si candida a diventare il nuovo J’accuse: “Il mio messaggio è che vi terremo d’occhio. Tutto questo è così sbagliato. Non dovrei essere qui, dovrei essere a scuola, dall’altro lato dell’Oceano. Venite a chiedere la speranza a noi giovani? Come vi permettete?”. Naturalmente il discorso di Thunberg, oltre a suscitare entusiasmi e applausi bipartisan, ha ricevuto le solite critiche bipartisan. Da destra: “esagera”, oppure “è una bambina manovrata da oscure potenze rivoluzionarie”. E da sinistra: “ha usato la prima persona singolare, non parla a nome di una tutti”, oppure “è andata in America senza l’aereo ma con una barca di plastica”, o ancora “si è fatta accompagnare da un membro dell’aristocrazia europea, ovvero i ricchi che hanno rovinato il mondo”.

La verità è che Greta Thunberg rappresenta l’ala riformista e moderata di una galassia ambientalista che comprende anche gruppi più radicali come Extinction rebellion, quelli che si incollano le mani agli autobus per fermarli. Ma tutto questo parlare di destra e sinistra, di riformisti e radicali, può far sorgere la domanda: non è che la stai buttando in politica? E la risposta è semplice: sì, perché è proprio quel che è necessario fare. C’è un articolo su Vox che ha un titolo molto chiaro, brutale: “Mi occupo di ambiente per lavoro, e non mi interessa se ricicli”. Lo ha scritto Mary Annaïse Heglar, saggista e attivista che si occupa delle pubblicazioni del Natural Resources Defense Council di New York.

 

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I media italiani hanno scaricato Salvini così in fretta che all’estero non ci credono

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(GETTY IMAGES via Esquire)

La situazione è grave ma non è seria, diceva Flaiano. La situazione oggi in Italia è sempre più grave, e sempre meno seria. Chi ci ha capito qualcosa in questo agosto delirante di crisi politica, innescata dall’autosabotaggio dell’invincibile Salvini nel suo momento di massima gloria, e sfociata nella formazione di un governo surreale? Sarebbe tutta da ridere, se non fosse in gioco il futuro di ognuno di noi – o forse proprio per questo, meglio prenderla a ridere.

Ma se c’è una cosa più ridicola dei repentini cambiamenti di fronte e opinione da parte delle formazioni politiche (Mai con Pidioti! Mai con i grullini!), è la facilità con cui mutano lato al mutare del vento tutti gli altri, dai semplici elettori ai più rispettabili opinionisti. Vale la pena allora fare un passo indietro, osservare le cose con un occhio più distaccato, alieno. Un divertente articolo dell’Atlantic parla proprio del rapido cambio di tono nella stampa italiana “after the Fact”. E parte citando un altro celebre Flaiano, quello sugli italiani che corrono sempre in aiuto del vincitore.

Lo avrete notato: per quanto ben protetto all’interno della bolla, ognuno di noi è in contatto social con dei parenti o dei compagni di classe delle elementari le cui opinioni sono imbarazzanti, ma nei confronti dei quali il cringe non arriva mai al punto tale da troncare i rapporti (e menomale: sono dei piccoli bagni di realtà, come andare al bar, visto che ormai anche la colazione noialtri la si ordina con Deliveroo). Ebbene, solo io ho fatto caso a una improvvisa impennata dei meme sul Capitano, da parte di chi solo qualche giorno prima faceva girare i post dell’inesistente John B. Keating?

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Democrazia, addio

Attenzione: non stiamo parlando delle elezioni politiche del 2018. E a ben vedere, non stiamo parlando neanche dell’Italia (anche se, il discorso è globale e facilmente estendibile). Ma di dove finirà la democrazia. O meglio, del fatto che finirà.

Una ricerca effettuata nel 2016 in varie nazioni del mondo poneva una semplice domanda: “È essenziale per te vivere in un paese democratico?”. E divideva le risposte per fasce d’età. I grafici parlano da sé, e sono impressionanti.

(courtesy World Values Survey)
In sostanza, dall’Australia all’Olanda, dalla Svezia agli Stati Uniti, la situazione è identica: ai vecchi la democrazia piace tanto, agli adulti così così, ai giovani quasi per niente. Ci sono ovviamente delle differenze e delle caratterizzazioni locali, nello studio effettuato da Roberto Stefan Foa e Yascha Mounk per il World Values Survey: in Olanda per esempio la sfiducia è abbastanza generalizzata anche a partire dai nati negli anni 30; in Svezia i valori sono tutti più alti rispetto alla media, negli USA tutti più bassi.
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