Un viaggio nel 1° maggio dei lavoratori essenziali, quelli che continuano a lavorare

Facile dire #iorestoacasa. Non è una questione di volere, ma di potere. Viviamo in una bolla, e questo era noto da tempo, ma è incredibile come pur sapendolo, non riusciamo a cambiare la percezione: la nostra percezione di smartworker da divano, in questo momento, è che l’Italia si è fermata. Il mondo si è fermato. E invece.

I dati delle forze dell’ordine lo raccontano bene: su tutti i cittadini controllati, il 95% ha un valido motivo per uscire di casa. E nella maggior parte dei casi, quel motivo è: andare al lavoro. Lo conferma, ben più tragicamente, la sovrapposizione delle aree di maggior contagio con quelle di maggior produttività: fabbriche aperte, calche sui mezzi di trasporto.

Alla luce di questi fatti, la retorica governativa che tende a colpevolizzare il singolo cittadino per la sua irresponsabile disobbedienza – ieri il padrone di cani, oggi il runner, domani il genitore di bimbi piccoli – appare sempre più per quello che è: propaganda. Anzi, victim blaming.

Comprensibile l’incertezza sulle politiche da adottare, quando anche gli epidemiologi sono spesso in disaccordo e avanzano in territorio ignoto (non è la sconfitta della scienza, è la scienza), ma questo martellare su una sola nota ha il doppio effetto di sviare l’attenzione dalle vere responsabilità, e offrire capri espiatori alla gente sempre più esasperata. (Altra retorica: si è iniziato a dire che non bisogna parlare di social distancing ma di distanziamento fisico, però è proprio una frattura sociale, una frattura multipla, quella che stiamo vivendo.)

Coronavirus e lavoro: strano 1 maggio, quello del 2020, per esempio. Il primo in 130 anni (con la parentesi del Ventennio fascista in Italia) senza manifestazioni e piazze piene. Ma ci sono effetti meno clamorosi, e più pesanti. Il coronavirus, amplificatore di disagi e disuguaglianza, ha diviso il mondo del lavoro in tre segmenti.

(Continua su CheFare)


Extinction Rebellion, chi sono e che fanno i ribelli dell’azione nonviolenta

Premessa: in questo articolo siamo (o facciamo finta di essere) tutti d’accordo sui fondamentali. Sul fatto che il cambiamento climatico esista, sulla sua origine prevalentemente antropica, sul fatto che il problema sia globale, sistemico (in una parola, e che brutta parola: politico) e quindi altrettanto globale, sistemica e politica debba essere la risposta.

Insomma, qui NON è dove si tenta di convincere i negazionisti o gli scettici, non è dove si tenta di dimostrare che Greta Thunberg non è una foglia di fico ma un simbolo, meglio il dito che indica la luna, meglio ancora l’aeroplanino col cucchiaio per farci mangiare la verdurina. Qui non è dove si fa il debunking dei debunkers à la Rubbia, non è dove si prova a difendere i giovani scioperati. Tutte cose necessarie – purtroppo – ma possiamo per una volta provare a fare un passo avanti? La domanda è sempre quella: data la situazione, che fare?

Tra quelli che provano a dare una risposta, c’è il gruppo Extinction Rebellion. Nato a Londra nel 2018, si caratterizza per le azioni spettacolari – attivisti che si spogliano nel parlamento britannico, o si incollano le mani agli autobus – e l’approccio movimentista e radicale. Ma sotto il flash mob e la viralata, c’è sostanza: c’è un fermento di studi multidisciplinari e un approccio trasversale, una partecipazione di giovani ma anche di quarantenni e oltre, di studenti come di professionisti. Soprattutto, una partecipazione che si è estesa ad altri paesi, in modo orizzontale e non verticistico: in Italia il gruppo si è formato a inizio anno, e ora è presente più o meno in tutte le regioni. Da lunedì 7 ottobre gli attivisti convergono a Roma per la Settimana della ribellione, evento mondiale. Per farci spiegare meglio e direttamente da loro, abbiamo raggiunto Annalisa Gratteri, una delle due coordinatrici del gruppo Piemonte e Valle d’Aosta, proprio mentre era in treno per la capitale.

(continua su Che Fare)

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Nelson: «Come ho rubato il palco a Carlo Conti»

Se il nome di Nelson non vi dice niente, non è colpa vostra. Anche se il tipo ha un album all’attivo, prestigiose collaborazioni, e soprattutto non uno ma due David di Donatello per la migliore canzone: uno nel 2014 (’A verità, nel film Song’e Napule), uno nel 2018 (Bang bang, in Ammore e malavita) entrambe pellicole dei Manetti Bros. Probabilmente l’avete visto, lo scorso 21 marzo, proprio alla premiazione dei David, dove si è reso protagonista di un siparietto improvvisato, uno dei pochi momenti autentici di una cerimonia altrimenti noiosa: è salito sul palco esultando, e fuori protocollo si è lanciato sul microfono iniziando a parlare. Quando il bravo presentatore Carlo Conti ha provato a fermarlo, lui lo ha stoppato con un gesto e ha continuato il suo monologo (“Costo poco, e scrivo anche in italiano”).

Io che ho il privilegio, o la sfortuna, di conoscerlo da 30 anni (mammamia) ho pensato di approfittarne e intervistarlo. E siccome so che Alessandro Nelson Garofalo è uno che con le parole ci sa fare – non scrive solo canzoni ma anche status di facebook che sono delle micronarrazioni spassosissime, e poi racconti e chissà cos’altro – gli ho proposto: vogliamo fare un’intervista in chat? Quella che segue è la conversazione più o meno fedele della nostra delirante conversazione.

(Continua su Esquire)


La scrittura collettiva diventa industriale: intervista mostruosa a tutti i 115 autori (vabbè, qualcuno in meno)

In territorio nemico_smallIn territorio nemico è un romanzo, questo qua. È un romanzo storico, per la precisione sulla Resistenza, come si può intuire anche dalla copertina. Un ottimo romanzo, tra l’altro. Ma non è questa la, come si dice, notizia. La particolarità la trovate sempre in copertina, salendo, al posto riservato al nome dell’autore: ma chi l’ha scritto? Scrittura Industriale Collettiva, si legge, con una fabbrica stilizzata, addirittura. Del metodo SIC se n’è parlato, e se ne sta parlando, parecchio, in rete. Quindi magari già sapete tutto e quest’introduzione è inutile. O magari no, e allora l’intro è troppo breve: comunque altri particolari sul progetto e sul libro vengono fuori man mano, leggendo quanto segue. Quanto segue è un’intervista-monstre a un essere altrettanto mostruoso, una creatura bicefala composta da Vanni Santoni e Gregorio Magini, ideatori del metodo e coordinatori del romanzo. Ho inviato ai due ceffi uno sproposito di domande, e loro non solo non mi hanno mandato a quel paese, non solo mi hanno risposto in modo completo e preciso, ma mi hanno pure ringraziato, dicendo che era “un’ottima occasione anche per noi per fare il punto su svariati aspetti del progetto e della storia SIC”. Ah, scrittori…

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Innanzitutto, diamo un po’ di numeri. Prima della preparazione, gli ingredienti, no? Allora: 115 autori – con varie funzioni e denominazioni – 308 pagine, poi? Quanti anni di lavoro? Quante schede preparatorie? Altro?

Proviamo a darli! Anche perché negli anni, ancora a lavori in corso, domande simili hanno fatto sì che in giro per la rete siano finiti dati discordanti. Questi dovrebbero essere dunque quelli definitivi.
Autori: 115 (46 donne, 69 uomini), dei quali 41 hanno contribuito al soggetto (per 206 pagine di aneddoti e documenti originali a partire dai quali è stato scritto il soggetto di partenza), 71 scrittori, 8 compositori, 29 revisori, 14 traduttori dialettali. Nota: la somma è superiore a 115 perché molti hanno svolto più ruoli.
Schede: 1290 schede individuali, dalle quali sono state composte 172 schede definitive, così suddivise: 24 schede personaggio, 35 schede luogo, 18 schede trattamento, 95 schede stesura, 9 schedoni revisione.
Anni di lavoro: poco meno di 3 anni di lavoro su In territorio nemico, dopo 3 anni di sviluppo e messa a punto del metodo, nei quali sono stati scritti i 6 racconti del “canone SIC” e i 2 realizzati nel corso di workshop dal vivo.

Parliamo allora di questo metodo: per uno come me che sta ancora lì ad arrovellarsi su come potessero fare Fruttero e Lucentini a scrivere in due, capirete che qui siamo alla fantascienza. Ovviamente rimando al sito www.scritturacollettiva.org, dove la tecnica di scrittura industriale è spiegata nel suo processo e illustrata nelle sue premesse e conseguenze. La domanda è: come avete applicato quelle regole generali e astratte – prima sperimentate esclusivamente su racconti a “sole” otto-dodici mani – al romanzo in carne e ossa? Avete apportato modifiche in corsa? Avuto intoppi? Fatto scoperte?

Sì, per passare dai 4-6 autori dei racconti ai 115 di In territorio nemico sono stati necessari alcuni accorgimenti. Dopo aver valutato e scartato l’ipotesi di usare dei wiki, abbiamo deciso di organizzare il lavoro attraverso un sistema di prenotazioni: ogni scheda ha avuto da 4 a 10 posti disponibili a seconda dell’importanza e da lì abbiamo preparato un calendario delle consegne per scaglionare il lavoro di composizione. Ogni settimana rendevamo aperte alla prenotazione alcune schede; nel frattempo passavamo in composizione quelle della settimana precedente. 
Con questo ciclo continuo di prenotazione, scrittura e composizione, in media ogni settimana sono state prodotte 4 schede definitive. Un lato positivo di lavorare così è stato che nella prima fase ogni scrittore tendeva a prenotarsi per le schede dei personaggi che lo attiravano di più e dei luoghi che conosceva, mentre al momento della stesura si faceva avanti per quelle dei capitoli del suo personaggio preferito, tutte cose che hanno avuto ricadute positive sull’entusiasmo degli scrittori e sulla qualità del loro lavoro.

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