Il mare non cagna Napoli (alcuni disclaimer riguardo a “Dove le strade non hanno nome” di Angelo Carotenuto)

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Premessa numero uno. Angelo Carotenuto è amico mio. Cioè, amico. Diciamo che lo conosco. Cioè, lo conosco. Lo conosco come si può conoscere uno di questi tempi: per esempio non l’ho mai guardato in face; ma in Facebook, sì. È andata che lui recensì il libro mio, e da allora siamo entrati in contatto, e abbiamo scoperto di avere una serie di cose in comune. Per esempio la professione – anche se, la verità, lui sta a Repubblica, mentre io sto a casa. Oppure, condividiamo entrambi una struggente quanto insensata nostalgia per la nostra città d’origine – insensata, la verità, ancora di più nel caso suo, che sta a Roma e potrebbe tornarci quasi ogni giorno, jà. Poi condividiamo anche altre cose, che si vedranno in progress, come in corso d’opera si vedrà il modo in cui questa è una non-recensione, il motivo avendolo io appena spiegato.

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Premessa numero 2. A me gli U2 non mi sono mai piaciuti. Li ho sempre trovati sopravvalutatissimi, anche quelli degli esordi, soprattutto quelli degli esordi; un po’ come i Beatles, ma questo è un altro discorso. E però a quel concerto io c’ero. Quel concerto del 9 luglio ’93 che fa da sfondo e motore a tutta l’azione del libro; quello in cui Bono dal palco del San Paolo telefonò al carcere di Poggioreale chiedendo del sindaco inquisito per tangentopoli (“mr. Nell’ Poles’?”) e ricevendo in cambio dal centralinista un cortese invito a dirigersi tra le braccia di Morfeo (“Guaglio’ vatt’ a cuccà”). Io c’ero, e c’ero a Napoli quando sembrava che Napoli stesse per cambiare, che qualcosa o tutto potesse cambiare (addirittura, a differenza di Angelo che aveva già esercitato il proprio diritto-dovere di cittadino in era Dc, io quelle della sfida Bassolino-Mussolini furono le prime elezioni a cui votai). C’ero, ma per un altro motivo (che poi è lo stesso di uno dei personaggi del libro, anche io sono stato previsto, diavolo d’un Carotenuto): l’esibizione dei Velvet Underground al completo, storica reunion, e tour mondiale che nella tappa partenopea li vede supporter pomeridiani degli U2, ma tu vedi un poco, vicino a pateto cuccate a pere. Gli U2 non mi sono mai piaciuti, tanto che quando prenotai sto libro (che è pubblicato dalla casa editrice Ad est dell’equatore, ma realizzato con il metodo del crowdfunding, interessante esperimento anche se non efficacemente sostenuto dal funzionamento delle Poste) dissi che facevo un grande sacrificio a leggere una cosa che aveva lo stesso titolo di un album degli U2, azzeccando così la prima figuremmerd’ datosi che Where the streets have no name è una canzone, solo una canzone.

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Premessa numero tre. Questa è una storia con tanti personaggi, ma talmente tanti che all’inizio si fa fatica a seguirla. Mo’ non pensate a Dostoevsky, a me piuttosto il primo capitolo mi ha fatto venire in mente quel bellissimo film di Buñuel, Il fantasma della libertà si chiama, dove per qualche minuto la cinepresa mostra gli episodi di un personaggio, poi questo tanto per dire attraversa la strada, passa una macchina e il film si mette appresso a quelli che stanno nella macchina lasciando perdere il tizio di prima; e così via. Solo che in Buñuel questa è una tecnica surrealista usata per far esplodere la narrazione tradizionale, frustrando di continuo l’attaccamento che nello spettatore sorge verso ogni cosa che abbia una embrionale forma di personaggio o di vicenda. In Carotenuto è un modo per rendere l’intreccio più fitto, meno immediatamente comprensibile nel suo disfarsi: anche se poi il fine sperimentale potrebbe essere simile, perché pure nei capitoli dopo, dove i personaggi ritornano e ci si comincia a orientare, un solo protagonista non c’è, davvero sono protagonisti tutti, alla pari; e pure nei capitoli dopo, non è che ci si orienti sempre alla grande, anzi ogni tanto un vuoto, e ci si chiede Aspe’, questo qua chi cazz’era? Anche perché ci sta un altro magheggio a complicare le cose.

Premessa numero quattro. Dove le strade non hanno nome è scritto all’incontrario. No, non alla maniera di Leonardo da Vinci, né alla maniera della Torah e del Corano (sfoggio di cultura liceale, nonché adolescenziale tentativo di far fare la pace a israeliani e palestinesi, dài su). All’incontrario nel senso che i capitoli sono sette, ognuno racconta di un giorno, e il primo capitolo racconta del 9 luglio, l’ultimo racconta del 3 luglio. Ora, sempre a proposito di riferimenti, parlando di narrazioni che invertono lo scorrere del tempo a me vengono in mente varie cose. La prima è La freccia del tempo di Martin Amis. Che però veramente non ci azzecca niente, perché lì non è la narrazione che procede a ritroso, ma proprio la vicenda: inizia che il protagonista muore, poi sta malissimo, poi esce dall’ospedale, poi diventa sempre più giovane ecc. ecc.; ed è lo stesso protagonista che non si capacita di quello che gli succede: molto interessante dal punto di vista logico, perché instaura un rovesciamento pervasivo e universale del principio di causa-effetto (se la morte precede la vita, se la ferita precede il colpo, allora i nazisti sono dei benefattori dell’umanità, e i chirurghi degli aguzzini), ma appunto non c’entra niente. Poi penso a April March di Herbert Quain, che però ha due fondamentali differenze: uno, è un racconto a biforcazioni temporali antecedenti, nel senso che dopo il primo capitolo non c’è un capitolo che narra del giorno precedente, ma due capitoli che narrano di due possibili e alternativi giorni precedenti, e così via (il malriuscito scopo sarebbe quello di dimostrare che avvenimenti diversi possono portare a risultati uguali, un po’ come nei passaggi meno oscuri de Il giardino dei sentieri che si biforcano di Ts’ui Pe); in secondo luogo, ha il non lieve problema che non esiste: anche se Saramago ha sostenuto il contrario, April March non è mai stato scritto, ma solo recensito in un racconto di Borges. Il terzo ricordo è un film, Irreversible con Monica Bellucci e Vincent Cassel. Lì in effetti le cose sono successe nell’ordine normale, e una volta sola, ma noi le vediamo montate all’incontrario. Scopo del gioco, evidente già dal titolo, metterci in testa che insomma, non c’è niente da fare. E questo, anche nell’enorme differenza di ambientazione e scrittura, mi è sembrato alla fine anche l’effetto che fa DLSNHN. Cioè, arrivato più o meno alla fine del libro, uno è talmente entrato nell’ottica che quello che è prima è dopo, anzi che quello che viene dopo già lo sa, mentre quello che è successo prima ancora lo deve scoprire, che acquisisce una sorta di rassegnazione, di universale e pervasivo senno del poi: e lo applica a tutto, a tutto quello che viene prima di quella settimana, a tutto quello che è venuto dopo. E quindi finisce per pensare, tanto per dire, che lui non ci ha mai creduto al Rinascimento napoletano, al fatto che le cose potessero o dovessero cambiare, si vedeva subito che era un bluff, e dài.

ANTONIO BASSOLINO E ALESSANDRA MUSSOLINI

Premessa numero sei. Angelo Carotenuto scrive come a me. Questo non lo so se è proprio un complimento, però io ci trovo delle somiglianze che sono un flash: certe fissazioni per i giochi di parole, per gli equivoci che possono scatenare certi modi di dire, per le trappole che possono contenere i versi di certe canzoni. Anche nei difetti, eh, per esempio nelle pippe teoriche, che certe volte attaccano alcuni personaggi, e che però si vede benissimo che è sono ragionamenti con cui è fissato l’autore, non altri. Anche proprio nello stile, mannaggia, ditemi voi se mo’ questo non è un passaggio che avrei potuto scrivere io – un poco peggio:

La famiglia finì fra i 12mila stranieri che ogni giorno sbarcavano a New York agli inizi del ‘900. L’America li accolse a braccia chiuse. Ora. Io non voglio azzelliare nessuno con la storia dell’emigrazione, partono i bastimenti e comm’è amaro ‘stu ppane, ma gli Zurzolo sono una cosa che se uno la racconta non ci si crede.

Post scriptum. Il titolo. Del post, dico. È una doppia citazione. Del capolavoro della Ortese. Ma così come citato e modificato da quel gran genio del mio niente, non ce la posso fare, a me non mi piace manco Battisti.


Amore guerra e nostalgia, nel primo romanzo di Eshkol Nevo

RABIN CLINTON ARAFAT

Israele, 1995. Una giovane coppia, lei aspirante fotografa lui studente di psicologia, va a convivere in un villaggio a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme, iniziando a sperimentare la distanza tra l’ideale del nido d’amore e la realtà della vita quotidiana. Nello stesso edificio, vivono i loro padroni di casa, una coppia altrettanto giovane, ma già sposata e con due figli: lui gran lavoratore e un po’ succube dei fratelli ultraortodossi, lei casalinga insofferente. Nello stesso edificio, vorrebbe tornare a vivere un muratore palestinese, o perlomeno a prendere qualcosa di prezioso che la madre ha lasciato lì nella fretta dello sgombero: quella casa, come le altre, era infatti araba prima di venire occupata dai coloni ebrei. Nell’edificio di fronte, una famiglia distrutta dalla morte del figlio militare in Libano: padre e madre due larve, il figlio minore abbandonato da tutti. Ognuna di queste persone è straziata dalla nostalgia, di qualcuno o di qualcosa, di enorme o di sottile. Sullo sfondo, ma a tratti in primo piano, il medioriente in fiamme, e in particolare l’assassinio del premier israeliano Rabin, che aveva appena concluso uno storico accordo di pace.

nevo-nostalgiaTorna in libreria il primo romanzo di Eshkol Nevo, il miglior scrittore israeliano della generazione successiva alla sacra triade Yehoshua-Grossman-Oz. Nostalgia (NeriPozza, trad. Elena Loewenthal, p.414, 18 euro) esce ri-editato e ri-tradotto secondo le indicazioni dell’autore. Come negli altri libri – La simmetria dei desideri e il magnifico Neuland – Nevo racconta una vicenda collettiva; come negli altri libri, lo fa alternando le voci, dando la parola in ogni paragrafo a un protagonista diverso: una soluzione stilistica molto gradevole per chi legge ma nient’affatto semplice per chi scrive. Finito il libro, i personaggi restano: resta nel lettore quella curiosità (direbbe Nevo, quella nostalgia) che porta a chiedersi, cosa staranno facendo adesso? E questo è un risultato importante e difficile, come sanno tutti quelli che hanno provato a scrivere un romanzo, quindi tutti. Come negli altri libri, Nevo intreccia storie private con la grande Storia, e lo fa in modo equilibrato: senza che la Storia diventi una banale metafora della trama narrata, senza che le storie diventino un esile pretesto per teorizzare di politica.

«Per un momento avevamo creduto che la pace sarebbe arrivata davvero», dice a un certo punto qualcuno. Sta parlando di guerra, ma potrebbe anche parlare di amore. Perché è vero, si può provare nostalgia anche per ciò che non si è mai avuto.

(Articolo uscito oggi sul Mattino di Napoli)