Bossa nostra (Jobim è altrove)

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Questa è una celebrazione di Jobim in forma di playlist. Una playlist che nasce da una coincidenza e da un equivoco. La coincidenza è quella tra due eventi: il primo è la ricorrenza del ventennale della morte di Antonio Carlos Jobim (Rio de Janeiro, 25 gennaio 1927 – New York, 8 dicembre 1994), e questa è una notizia tutt’altro che sorprendente, diciamo che era più o meno da vent’anni che si poteva prevedere. Sarebbero anche i sessant’anni dal suo primo disco, quel Rio de Janeiro – Sinfonia Popular em Tempo de Samba che certo non è passato alla storia, ma che all’epoca servì a lanciarlo nel novero dei compositori più richiesti e rispettati in Brasile, gettando le basi per quello che sarebbe successo di lì a poco. La svolta, si sa, fu l’incontro con il poeta Vinicius De Moraes, e la colonna sonora del film Orfeu negro, e poi Chega de saudade interpretata voce e chitarra da João Gilberto. Nasceva la bossa nova, un samba con le sincopi e le stranezze armoniche del jazz.

Il secondo evento è davvero un piccolo caso nel mondo della musica: è uscito il disco di esordio di Jaques Morelenbaum. L’esordiente non è proprio un ragazzino: ha compiuto infatti da poco sessant’anni, e il suo violoncello e i suoi arrangiamenti sono ben noti agli appassionati. Anche lui carioca, da quattro decenni è dietro alle cose più interessanti che succedono nella musica brasiliana e non solo. Perché dopo l’esondazione della bossa che riversò il Brasile nelle orecchie di tutto il mondo, il Brasile si è diviso in mille torrenti uno più impetuoso dell’altro: il tropicalismo il samba-reggae la Mpb lo sperimentalismo; e in molti casi si vede spuntare nei credits il nome di Morelenbaum. Dagli esordi con Egberto Gismonti, altro grande irregolare, agli ultimi anni trascorsi proprio a fianco di Jobim; dalla collaborazione con Caetano Veloso (sua la struggente rilettura di Cucurucucu paloma nel film Parla con lei) a Ivan Lins e Gilberto Gil, e poi ancora Madredeus e David Byrne, Sakamoto e Cesaria Evora, Omar Sosa e Sting.

Uno così, incredibile, un disco solista non l’aveva mai fatto. Se Vinicius, Jobim e João Gilberto sono la santissima trinità della musica brasileira, Morelenbaum ne rappresenta una sorta di eminenza grigia. Rimedia ora, con un titolo che è tutto un programma: Saudade do futuro – Futuro da saudade (distribuito in Italia da Egea). Un disco che è proprio il capolavoro che ci si aspettava, e forse qualcosa in più: musiche originali e standard, classicità e avanguardia, saudade e futuro.

Abbiamo approfittato allora di un recente passaggio del maestro in Italia – ecco l’equivoco in agguato – per fargli l’intervista da una domanda sola. Chi possono essere gli eredi di Jobim, quali cantanti e compositori sono i Jobim di oggi? L’idea era partire dai suoi suggerimenti per costruire una panoramica della musica brasiliana contemporanea. Ma c’è stato un fraintendimento (volontario?) per cui Morelenbaum ci ha mandato una lista delle sue canzoni preferite di Jobim. (Alla fine, una sola lettera separa sons – figli – da songs – canzoni – e questa è la nemesi: perché mai due latini devono parlarsi in inglese?). Abbiamo provato a insistere, ma il maestro a quel punto ha declinato, spiegando che gli eredi di Jobim sono davvero tanti, e in tutto il mondo; e facendoci capire poi che non se la sentiva di fare una lista eletti, lasciando fuori tutti gli altri. Ma tutto sommato è andata meglio così.

I figli di Jobim non stanno solo in Brasile, ma sono dispersi per il mondo, indubitabile. Jobim è altrove, Jobim è dappertutto. E la bossa è cosa nostra. Allora noi ci siamo messi alla ricerca, utilizzando la playlist di Morelenbaum come spunto. La sua è una lista che manifesta strane preferenze, un misto di hit talmente abusati da stufare non solo chi non ascolta abitualmente bossa, ma anche chi non ascolta abitualmente musica; e dall’altro lato di pezzi quasi sconosciuti, perle veramente oscure. Di conseguenza, è una curiosa compilation quella che segue: se da un lato si sono scansate come la peste le melensaggini pop-orchestrali in cui spesso è caduta la bossa, dall’altro si è dovuto far attenzione a evitare il “famolo strano”, per non costruire una galleria di interpretazioni assurde e irriverenti, un playlist di monstre.

(Continua su Gli stati generali)


La nostra parte di torta

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Chi mi conosce lo sa: non ho grandi speranze per chi legge, per chi scrive, in generale per quella irrilevante setta di invasati (tanto più invasati quanto più irrilevante) che continuiamo a chiamare mondo della cultura, dell’editoria, del giornalismo. Sono rari i giorni in cui penso che ci sia una terza via tra la correità e la fuga, una strada intermedia tra vendersi l’anima e il culo per un passaggio in tv – o un link su un lit blog – e scappare in campagna a fare il pane nel forno a legna. Ecco, oggi è uno di quei giorni.

Oggi grazie a un post su Lipperatura, ho letto il discorso che  Ursula K. Le Guin ha tenuto quando ha ricevuto National Book Award. Le Guin è una scrittrice di fantasy e fantascienza. Il discorso lo ricopio pari pari perché è una cosa che chi ci crede – chi ci ha creduto anche per un solo momento della vita – dovrebbe incidersi sulle pareti di casa.

“A chi mi ha dato questo bellissimo premio, grazie. Di cuore. Alla mia famiglia, ai miei agenti, ai miei editor dico: sappiate che se sono qui è anche merito vostro, e questo premio è tanto vostro quanto mio. E mi piace l’idea di accettarlo e condividerlo con tutti quegli scrittori che sono stati esclusi dalla letteratura così a lungo, i miei colleghi autori di fantasy e fantascienza, scrittori dell’immaginazione che per cinquant’anni hanno visto questi bei premi andare ai cosiddetti realisti.

Sono in arrivo tempi duri, e avremo bisogno delle voci di scrittori capaci di vedere alternative al modo in cui viviamo ora, capaci di vedere, al di là di una società stretta dalla paura e dall’ossessione tecnologica, altri modi di essere e immaginare nuove basi per la speranza. Abbiamo bisogno di scrittori che si ricordino la libertà. Poeti, visionari, realisti di una realtà più grande.

Oggi, abbiamo bisogno di scrittori che conoscano la differenza tra la produzione di una merce e la pratica dell’arte. Sviluppare materiale scritto per venire incontro a strategie di vendita con lo scopo di massimizzare il profitto di una società e la resa pubblicitaria non è la stessa cosa rispetto a scrivere e pubblicare libri in modo responsabile.
Io vedo il reparto vendita prendere il controllo su quello editoriale. Vedo i miei stessi editori, stupidamente nel panico dell’ignoranza e dell’ingordigia, chiedere alle biblioteche pubbliche sei o sette volte il prezzo praticato ai clienti normali per un ebook. Abbiamo appena visto un profittatore cercare di punire un editore per la sua disobbedienza e gli scrittori minacciati da una fatwa corporativa. E vedo molti di noi, coloro che producono, che scrivono i libri e fanno i libri, accettare tutto questo. Lasciando che i profittatori commerciali ci vendano come deodoranti e ci dicano cosa pubblicare e cosa scrivere.

I libri non sono merce. Gli scopi del mercato sono spesso in conflitto con gli scopi dell’arte. Viviamo nel capitalismo, e il suo potere sembra assoluto: ma attenzione, lo sembrava anche il diritto divino dei re. Gli esseri umani possono resistere e sfidare ogni potere umano. La resistenza spesso comincia con l’arte, e ancora più spesso con la nostra arte, l’arte delle parole.

Ho avuto una lunga carriera come scrittrice, una buona carriera e con una buona compagnia. Ora, alla fine di questa carriera, non voglio vedere la letteratura americana svenduta. Noi che viviamo di scrittura e di editoria vogliamo e dobbiamo chiedere la nostra parte della torta. Ma il nome di questo riconoscimento non è profitto. È libertà”.


This was (Jethro Tull 1674-2014)

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This was. Questo era. Era un ragazzino che stava scoprendo la musica, stava scoprendo il mondo; e scopriva che il mondo esisteva da molto prima di lui, e la musica anche. E che, guarda caso, le cose più belle sembrava che fossero non quelle che stavano succedendo all’epoca – erano appena finiti gli anni ’80, capite – ma quelle che erano successe vent’anni prima. Il ragazzino era a casa di un amico, di quelli più grandi, di quelli che la sanno sempre giusta, e l’amico a un certo punto tirò fuori questo LP enorme, bellissimo: la copertina anticata verdognola con questo barbone non meno affascinante che inquietante; le scritte gotiche all’interno, che però non erano i testi ma una specie di decalogo, che però non erano i comandamenti ma la Genesi, che però era una Genesi po’ rivisitata (“In the beginning Man created God; and in the image of Man created he him”); le frasi sbilenche di chitarra distorta, intervallate da ancor più assurdi e interminati silenzi; le parole che seguivano, pressoché incomprensibili per un masticatore di basic English da canzone pop. Tutto questo, tutto insieme, produsse una forte impressione su quel ragazzino: sembravano cose venute da un altro universo, più che da un semplice passato remoto.

(Qualche anno e qualche centinaio di album dopo, quel ragazzino con altri amici si arrampicò fino a un’afosa periferia romana, per constatare che il barbuto barbone biondastro fissato nel suo – e non solo suo, avrebbe scoperto – immaginario, era in realtà un signore pulito e pelato con un pizzetto nero e ben curato. Capace però di zompare qua e là per il palco come un pazzo, e di suonare ancora meglio).

Oggi, quel ragazzino si è reso conto con sgomento che i protagonisti di quell’avventura, come si dice, sono tutti ancora lì; non solo, ma che gli anni che sono passati da quella impressionante scoperta personale sono più di quelli che, all’epoca, erano passati dalla prima uscita di quell’album; che cioè – per quanto assurdo possa sembrare a chi si è costruito un mito e lo ha posto in un territorio eterno, insieme alla Sfinge e alle Crociate – sulla linea del tempo quel pomeriggio dall’amico è più vicino ad Aqualung che al momento presente; e lo sarà sempre di più. Ma questa non vuole essere una lamentazione sul tempo che passa; o forse sì, visto che il tempo è uno dei leitmotiv che, sottotraccia, corrono nella storia dei Jethro Tull. Quello che sicuramente non vuole essere – nonostante BU non abbia mai “articolato” i JT (veramente? Ma siamo pazzi?) – è una rievocazione storica, una biografia cronologicamente ordinata, pezzo per pezzo, album per album: anche per questo non c’è una discografia, né la pedante citazione delle fonti, tutte cose ritrovabili con facilità e autonomia sull’internet. Quel ragazzino, che tanto (poco) assomiglia a Gerald Bostock, il vero autore non solo dei testi ma anche delle musiche di Thick as a brick – poi Anderson dovette raccontare la palla della finzione letteraria, ma fu per evitare guai con la legge, e te credo: un minorenne – quel ragazzino non ha letto tutto il leggibile e poi raffazzonato un biopic, ma ha invece interrogato testimoni, e vi presenta ora una specie di mockumentary. Ma capovolto, nel senso che i fatti narrati sono veri, mentre i personaggi chiamati a raccontarli sono entità astratte, o immaginarie, o defunte.

(Su Blow Up di dicembre. Continua in edicola)