Intervista sulla neurosostenibilità: il lavoro culturale alla prova pratica

(Articolo di Ivan Carozzi uscito su CheFare)

Verso la fine del 2018, cheFare pubblicava un mio articolo, dal titolo Dalla sostenibilità economica alla neurosostenibilità. Nel pezzo provavo a sviluppare un ragionamento e una domanda, ovvero: il lavoro culturale, sempre più spesso precario, mal retribuito, pone nella vicenda quotidiana di molti, moltissimi, un tema cruciale, quello della sostenibilità economica della professione e, di conseguenza, della sua sostenibilità esistenziale, specie quando il lavoro comporta un carico significativo di ansia e fatica; ma che cosa accade quando il lavoro precario, o più lavori precari, più commissioni, con il relativo portato di stress e cronica incertezza, si combinano, per esempio, con un utilizzo intensivo dei device? E che cosa succede quando si è costretti ad accettare tutti i piccoli lavori che ci vengono offerti? Quanto a lungo è possibile sostenere un certo ritmo di vita e lavoro? Ecco che forse, mi dicevo, si pone un tema ulteriore: quello della neurosostenibilità del lavoro culturale.

Il pezzo è stato molto letto, condiviso e discusso. Segno che qualcuno si è riconosciuto e che la questione esiste. Perciò abbiamo pensato di provare ad allargare la discussione, inoltrando sette domande a persone e amici che lavorano nella cultura, nella conoscenza, nella formazione etc. Crediamo che valga la pena parlarne, che occorra testimoniare, sollevare una discussione pubblica e che questo spazio, infine, sia il luogo giusto per iniziare. In questa seconda puntata (qui la prima) incontriamo Dario De Marco e Elenia Beretta. Dario è un giornalista, sospetta di soffrire un po’ di FOMO (acronimo di «Fear of Missing Out», ovvero la fobia di non essere a sufficienza sul pezzo quando non si è on line, Ndr) e in un quasi flusso di coscienza, consapevole dei lettori in fuga dai giornali, si chiede: «Quindi, per chi scrivo? Per l’ufficio stampa che segue il libro e così fa contento l’editore […]?». Ottima domanda.

Quanti anni hai e che lavoro fai?

Sono nato nell’aprile 1975, quindi vado per i 45. Giornalista. Attualmente nella redazione del sito di Esquire Italia, ma nella mia ormai lunga esperienza ho fatto un po’ di tutto: sono stato stagista, precario, freelance, consulente, disoccupato… A un certo punto avevo addirittura smesso (cioè, ero uscito dall’industria culturale e facevo un lavoro che non c’entra niente, non era neanche di concetto o, lato sensu, impiegatizio, è stato il periodo più faticoso e sereno della mia vita). Dico questo per dire che so cosa significa, e che la precarietà oramai è interiorizzata, è una condizione mentale, più che economica.

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L’Africa non è un’isola

“Com’è vivere su un’isola? … Perché l’Africa è un’isola, vero?…”. Chimamanda Ngozi Adichie ha raccontato l’imbarazzo di aver ricevuto questa domanda, una volta che era a un party o a un evento, da parte di una donna mediamente colta e giovane e benestante: una donna all’apparenza come lei, solo… americana. L’autrice di Americanah Dovremmo essere tutti femministi, nigeriana in Usa, per pietà non ha raccontato il seguito: ma il seguito tocca a noi mettercelo. Noi, che da un lato abbiamo gioco facile a sghignazzare sulla famigerata ignoranza geografica degli statunitensi, i quali oltre i loro confini percepiscono un indistinto e generico altro. Ma che in quanto abitanti del primo mondo – non americani, ma comunque non africani – sospettiamo di non essere esenti da generalizzazioni e stereotipi. Cosa sappiamo delle cosmologie igbo, delle guerre di religione, delle lingue bantu?

L’articolo che state per leggere è una conferma di questi stereotipi, dato che pretende di parlare di “letteratura africana” come se fosse un concetto unitario, un’isoletta: ponendo il focus sulla Nigeria, ma neanche in via esclusiva. E d’altra parte proprio questa dichiarata ignoranza vuole essere una spinta ad approfondire il discorso, a partire per un viaggio alla scoperta di alcune realtà, non attraverso pensosi saggi di geopolitica, ma grazie alle storie che ci raccontano. Un viaggio in quattro libri che sottintende un percorso, addirittura una progressione: seguiamolo, e il filo apparirà.

Il primo libro è Terra violata (traduzione di Alberto Bracci Testasecca, edizioni e/o), di Mohamed Mbougar Sarr, scrittore senegalese classe 1990. Inizia con l’esecuzione pubblica di una giovane coppia di amanti, colpevoli solo di non essere sposati: la storia è quella di un paese spaccato in due, ma non dalla guerra civile, bensì da un’azione di conquista da parte di un gruppo di estremisti islamici, genericamente denominato Fratellanza. È un paese inventato ma purtroppo estremamente verosimile e riconoscibile (un po’ come la nazione imprecisata del medioriente in cui è ambientato il primo romanzo di Mathias Enard, La perfezione del tiro). I protagonisti tentano di organizzare una bozza di resistenza tramite un foglio clandestino, in mezzo a una popolazione scontenta ma paralizzata dal terrore, e a un certo punto le cose sembrano poter cambiare, o forse no.

(continua su Esquire)