Le fasi del cibo in quarantena spiegate con la Trilogia dell’Area X

Voi che siete gente studiata le conoscete meglio di me, le cinque fasi di elaborazione del lutto. Identificate dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross, fondatrice della psicotanatologia ed esponente di punta dei death studies(allegria), sono: negazione, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione. La teoria delle cinque fasi è stata sviluppata osservando le reazioni delle persone cui viene fornita una prognosi mortale, malati terminali e incurabili insomma. Riguarda quindi la propria fine, anche se viene utilmente applicata anche a chi deve elaborare un lutto nel senso comunemente inteso, cioè la perdita di una persona cara, e persino un lutto ideologico.

E noi, che tipo di elaborazione dovremo mettere in atto. Ovviamente, è troppo presto per parlarne: è sempre troppo presto per parlarne, finché non è troppo tardi. Secondo gli alfieri del “quando tutto questo sarà finito”, a un certo punto il virus scomparirà all’improvviso così come magicamente è apparso; le misure restrittive saranno tolte da un giorno all’altro; di botto, mentre un attimo prima ci guardavamo in cagnesco dai balconi, scenderemo tutti in strada abbracciando gli sconosciuti. Vi pare possibile?

Ma di perdite, se non vogliamo parlare di lutti, ne dovremo affrontare, e anche grosse. La perdita delle vittime, il lutto letterale: che andando avanti così, prima o poi a ognuno di noi verrà a mancare un caro, un amico, un conoscente. Poi ci saranno le conseguenze psicologiche dei mesi di clausura: saranno pesanti e a scoppio ritardato per i bambini costretti in casa, per le persone con disagi psichici – per non parlare di quelle che subiscono violenze domestiche. Ci saranno le conseguenze economiche, che la crisi del 2008 sarà una passeggiata di salute al confronto: magari servirà a mettere in discussione il modello di crescita infinita e drogata che finora abbiamo sempre considerato l’unico possibile – i più ottimisti già parlano di “fine del neolibersimo”, quel che è certo è che niente tornerà come prima, e questo per certi versi è un bene.

Infine, continuando ad allargare il cerchio, ci saranno conseguenze sul nostro stile di vita in generale: forse invece di abbracciarci, continueremo a mantenere le distanze, a guardarci con un po’ di diffidenza. Anche, e soprattutto, a tavola: forse smetteremo di affollarci ai banconi dell’apericena, forse i ristoranti – come ora sta succedendo in Cina, che è due mese avanti a noi – dimezzeranno i coperti. Forse, forse, forse. Ma poi, fondamentalmente, quello che succederà non lo sappiamo.

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Cosa succederebbe se scomparissimo tutti dalla faccia della Terra?

Qualche giorno fa, in questo tempo che sembra un’ininterrotta domenica pomeriggio silenziata da una coltre di neve, e invece era martedì e c’erano già 22 gradi, ho sentito un uccello cantare fuori dalla finestra, e non l’ho riconosciuto. Non era uno degli amabili piccioni, e neanche una delle ancor più adorabili cornacchie; non era il passero solito, e non era neppure il merlo che da qualche settimana bazzica il cortile. Giurerei di non averlo mai sentito, ma non sono un ornitologo e non ho un grande orecchio musicale, ho attribuito il tutto alla suggestione, al riverbero nelle strade vuote.

Ho riabbassato lo sguardo sul computer, lì dove succedono le cose, ma per una di quelle strane coincidenze – come quando da bambino imparavi una parola nuova e da quel momento iniziavi a sentirla dappertutto – tra le news sui nuovi contagiati e le polemiche sui fantomatici farmaci che funzionano, hanno iniziato a spuntare loro: gli animali. Prima in estremo oriente, dove tutto è iniziato: un esercito di scimmie che invade le piazze deserte di Bangkok, i cervi del Nara park in Giappone che girano per la città.

Ma presto il lockdown è arrivato anche da noi, con le sue conseguenze, immaginabili o sorprendenti. La pianura padana subito meno inquinata, come era successo anche in Cina, e okay. Ma anche le acque trasparenti della laguna di Venezia: ah, quindi il beige fogna non era il colore di default?

E poi, e soprattutto, gli animali: i delfini più intrepidi che mai nel porto Cagliari, e su fino a Trieste, le anatre nella barcaccia in Piazza di Spagna a Roma e i daini nelle piscine ancora in Sardegna. A Milano vengono filmate lepri nei giardini e persino cigni sui navigli. È come se gli animali non fossero scomparsi, ma se ne stessero ben nascosti negli angoli, pronti a balzare fuori alla prima occasione, non appena noi umani facciamo un passo indietro.

“La natura che si riprende i propri spazi” è diventato un vero e proprio genere giornalistico: da quando ho avuto l’idea di questo articolo al momento in cui lo sto scrivendo, gli avvistamenti e i conseguenti articoli e post di social si sono moltiplicati. Sono parentesi per rifiatare in mezzo a tante notizie ansiogene; sono manna dal cielo per gli ambientalisti: “quando tutto questo sarà finito”, come dice il mantra del momento, dovremo riconsiderare il nostro posto nella natura, insieme a mille altre cose, dall’organizzazione della sanità al reddito di base universale (vaste programme, ma speriamo).

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Quarantena con bambini? Guida alla sopravvivenza alimentare

Comincio autodenunciandomi. Il 23 febbraio, quando l’emergenza Coronavirus era appena all’inizio, il Piemonte e la Lombardia decidevano di chiudere scuole e università per una settimana; in realtà era un prolungamento di soli due giorni dato che da lunedì 24 a mercoledì 26 erano già previste le cosiddette vacanze di carnevale. Il giorno dopo io – che lavoro da casa e che già per tappare il buco di quei tre giorni con due bambini mi ero fatto tutto un programma con largo anticipo – scrivevo su Facebook:

Scuole chiuse.
Io non so se stanno sopravvalutando le potenzialità omicide del cornavirus. Ma di certo stanno sottovalutando quelle dei genitori.

Faccio qui pubblica ammenda perché non mi sbagliavo una volta, ma due. Stavo sottovalutando – facile dirlo col senno di poi – la terribile infettività e l’elevata mortalità del virus, da un lato. Ma dall’altro, sottostimavo anche la mia, la nostra capacità di resistenza. Altro che due giorni in più: è passato quasi un mese, e a casa mia siamo ancora tutti vivi. Certo ci mandiamo seriamente a quel paese venti volte al giorno, e sembriamo sempre a un passo dal metterci le mani addosso – ma per fortuna non ci siamo ancora sbranati.

E lo so che molti di voi vivono da soli e quindi pagherebbero per fare due chiacchiere con un essere umano in 3D, vi capisco e non vi invidio, ma vi assicuro che anche io per un giorno alla settimana vorrei fare a cambio con la vostra condizione, almeno quanto voi vorreste stare un po’ al posto mio. Capisco tutti, anche quelli che stanno sclerando (io sto sclerando). E lo so anche che oltre a esserci gente che vive sola, c’è gente che muore sola, in un reparto di terapia intensiva senza il conforto di un parente, e che se ne va all’altro mondo senza neanche un funerale: insomma se vogliamo fare la gara del benaltrismo, ci sta sempre una situazione davvero grave, o comunque più grave della nostra.

Se invece vogliamo sopravvivere non solo fisicamente, cerchiamo di prendere quello che c’è di buono nelle specifiche situazioni in cui siamo costretti, di tollerare un po’ di più gli scleri altrui (sì, anche di quelli che escono, e di quelli che se la prendono con quelli che escono, e di quelli che se la prendono con quelli che se la prendono con eccetera eccetera), di accettare che qualcuno ci faccia il predicozzo tipo quello che avete letto finora. E che qualcun altro – sono sempre io, da qui in avanti – si metta a dare consigli gastronomici semiseri per la quarantena con figli.

Mi rendo conto, infine, che per molti di voi siamo a “quarantena giorno 9”, ma qui in Piemonte le misure sono scattate prima, e ancor prima come dicevo hanno chiuso le scuole: ai fini che qui interessano, siamo con i bambini a casa h24 da un mese, fidatevi di chi ha un minimo di esperienza. Tra passare tutta la giornata ai fornelli e lanciare ai figli pacchetti di patatine e würstel crudi senza alzarsi dal divano, una via di mezzo c’è. Potete sopravvivere a una quarantena con i vostri bambini, credetemi, almeno sul fronte del cibo.

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Una giornata da recluso: diario della quarantena e guida alle risorse culturali open

Stamattina mi sono svegliato con l’angoscia. E non era l’ansia generica da contagio, o il basso continuo della preoccupazione per certi familiari lontani, persone anziane e con patologie pregresse, come si dice. Era una cosa più sottile.

Non so a voi, ma a me non mi sta pesando tanto la quarantena fisica, quanto quella mentale. Uscire, uscivo poco già prima: certo ricordarsi l’autocertificazione quando si scende a buttare l’immondizia, pensare di dover dare una giustificazione credibile se si fanno due passi in più nelle strade deserte, non aiuta.

Aggiungete che qui in Piemonte le scuole non hanno mai aperto da prima delle vacanze di carnevale (21 febbraio), per cui di fatto siamo in mezza clausura da tre settimane, e quando leggo altrove “quarantena giorno 3”, quel che penso è: tsk, pivelli. Ma quello che mi sta stressando – e non credevo, o almeno non credevo così presto – è la gabbia mentale. Non si parla d’altro, non si pensa ad altro. Anche volendo, anche sforzandosi.

Oggi, stranamente, avevo qualche ora libera: bene, mi sono detto, mi metto a scrivere quel longform che rimando da settimane. Non era neanche una cosa leggera, o inattuale: climate change e apocalissi, estinzioni e de-estinzioni, fini dei mondi conosciuti e strategie di sopravvivenza. Be’, mi sono fatto forza per cercare un barlume di quell’entusiasmo che avevo quando lo proposi ma niente, l’idea mi rendeva felice come se avessi dovuto fare un pezzo sulle fantasie dei copri-divano.

Passerà? Passerà. Come ne usciremo? Non si sa. Per ora saltabecchiamo dalle timeline dei social ai siti dei giornali: la pandemia è prima di tutto infodemia, compulsione da refresh.

Dice ma dovrai pure lavorare: eh sì, peccato che quando non leggo scrivo, e indovinate un po’?, scrivo di libri che parlano di epidemie, per esempio. Certo, c’è modo e modo di informarsi sullo stesso argomento: ci sono le intelligenti divulgazioni di Oggiscienza e di Roberta Villa, ci sono interessanti riflessioni su come il Coronavirus stia mettendo a nudo le fragili impalcature della nostra industria culturale e delle nostre stesse vite. Sta sorgendo tutta una letteratura dell’emergenza, con consigli utili pratici e psicologici, con teorie e approfondimenti generali. Okay, ma non si sfugge. Si seleziona, ma non si scappa.

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Febbre non è il romanzo del Coronavirus, ma qualcosa ci insegna

La febbre di Shen è un ceppo particolarmente aggressivo. Si contrae inalando. L’area di origine della febbre è Shenzhen, in Cina.

Nelle sue fasi iniziali, la febbre di Shen è difficile da individuare. I primi sintomi includono mal di testa, respiro faticoso e spossatezza. Poiché questi sintomi sono spesso scambiati per un raffreddore comune, di rado i pazienti sono consapevoli di aver contratto la febbre di Shen. A volte possono sembrare produttivi e sono ancora in grado di eseguire le normali attività quotidiane. Tuttavia, ben presto i sintomi iniziali peggiorano.

Al momento la febbre di Shen è considerata un focolaio, non un’epidemia. La velocità di trasmissione non è abbastanza rapida. Per ora è piuttosto contenuta.

Sounds familiar? Queste frasi, che sembrano provenire da una cronaca delle ultime settimane, sono invece tratte dal romanzo Febbre, di Ling Ma (Codice edizioni, traduzione di Anna Mioni), uscito in America nel 2018 e da noi a metà 2019. Cioè appena qualche mese prima che iniziasse l’era del coronavirus. Gli elementi in comune sono così tanti che mettono i brividi: più che una suggestiva somiglianza, sembra una terribile profezia.

(Facile profezia, si dirà, dato che almeno dalla Sars dei primi anni zero, la comunità scientifica si attende il contagio da oriente. Basta leggere quello che scrive Agnese Codignola in un libro che parla di tutt’altro, Il destino del cibo, pubblicato a febbraio 2020 ma ovviamente ‘chiuso’ prima: “La Cina (…): con un miliardo e mezzo di cittadini da sfamare, il paese cerca affannosamente fornitori, per la carne come per il latte e per gli altri alimenti basilari le cui produzioni locali oggi, oltre a essere del tutto insufficienti, sono pericolosissimi serbatoi per infezioni che potrebbero innescare pandemie, che molti temono e che qualcuno ritiene ormai inevitabili”.)

Purtroppo, o per fortuna, la similitudine tra la febbre di Shen e l’epidemia da Covid-19 finisce presto. L’infezione del romanzo infatti non è causata da un virus ma da spore fungine. Soprattutto, non si trasmette da persona a persona ma tramite le cose: l’esatto opposto del Coronavirus. E poi, porta a un collasso totale della società, disegnando uno scenario post-apocalittico in cui pochi sopravvissuti si aggirano tra le rovine delle metropoli: cosa che qui, insomma, nonostante il crollo delle borse mondiali e qualche inquietante segnale di isteria di massa, spereremmo di evitarci. Con tutte le differenze, però, qualcosa Febbre può insegnarci. Come e più delle altre pandemie letterarie.

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