La scrittura collettiva diventa industriale: intervista mostruosa a tutti i 115 autori (vabbè, qualcuno in meno)

In territorio nemico_smallIn territorio nemico è un romanzo, questo qua. È un romanzo storico, per la precisione sulla Resistenza, come si può intuire anche dalla copertina. Un ottimo romanzo, tra l’altro. Ma non è questa la, come si dice, notizia. La particolarità la trovate sempre in copertina, salendo, al posto riservato al nome dell’autore: ma chi l’ha scritto? Scrittura Industriale Collettiva, si legge, con una fabbrica stilizzata, addirittura. Del metodo SIC se n’è parlato, e se ne sta parlando, parecchio, in rete. Quindi magari già sapete tutto e quest’introduzione è inutile. O magari no, e allora l’intro è troppo breve: comunque altri particolari sul progetto e sul libro vengono fuori man mano, leggendo quanto segue. Quanto segue è un’intervista-monstre a un essere altrettanto mostruoso, una creatura bicefala composta da Vanni Santoni e Gregorio Magini, ideatori del metodo e coordinatori del romanzo. Ho inviato ai due ceffi uno sproposito di domande, e loro non solo non mi hanno mandato a quel paese, non solo mi hanno risposto in modo completo e preciso, ma mi hanno pure ringraziato, dicendo che era “un’ottima occasione anche per noi per fare il punto su svariati aspetti del progetto e della storia SIC”. Ah, scrittori…

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Innanzitutto, diamo un po’ di numeri. Prima della preparazione, gli ingredienti, no? Allora: 115 autori – con varie funzioni e denominazioni – 308 pagine, poi? Quanti anni di lavoro? Quante schede preparatorie? Altro?

Proviamo a darli! Anche perché negli anni, ancora a lavori in corso, domande simili hanno fatto sì che in giro per la rete siano finiti dati discordanti. Questi dovrebbero essere dunque quelli definitivi.
Autori: 115 (46 donne, 69 uomini), dei quali 41 hanno contribuito al soggetto (per 206 pagine di aneddoti e documenti originali a partire dai quali è stato scritto il soggetto di partenza), 71 scrittori, 8 compositori, 29 revisori, 14 traduttori dialettali. Nota: la somma è superiore a 115 perché molti hanno svolto più ruoli.
Schede: 1290 schede individuali, dalle quali sono state composte 172 schede definitive, così suddivise: 24 schede personaggio, 35 schede luogo, 18 schede trattamento, 95 schede stesura, 9 schedoni revisione.
Anni di lavoro: poco meno di 3 anni di lavoro su In territorio nemico, dopo 3 anni di sviluppo e messa a punto del metodo, nei quali sono stati scritti i 6 racconti del “canone SIC” e i 2 realizzati nel corso di workshop dal vivo.

Parliamo allora di questo metodo: per uno come me che sta ancora lì ad arrovellarsi su come potessero fare Fruttero e Lucentini a scrivere in due, capirete che qui siamo alla fantascienza. Ovviamente rimando al sito www.scritturacollettiva.org, dove la tecnica di scrittura industriale è spiegata nel suo processo e illustrata nelle sue premesse e conseguenze. La domanda è: come avete applicato quelle regole generali e astratte – prima sperimentate esclusivamente su racconti a “sole” otto-dodici mani – al romanzo in carne e ossa? Avete apportato modifiche in corsa? Avuto intoppi? Fatto scoperte?

Sì, per passare dai 4-6 autori dei racconti ai 115 di In territorio nemico sono stati necessari alcuni accorgimenti. Dopo aver valutato e scartato l’ipotesi di usare dei wiki, abbiamo deciso di organizzare il lavoro attraverso un sistema di prenotazioni: ogni scheda ha avuto da 4 a 10 posti disponibili a seconda dell’importanza e da lì abbiamo preparato un calendario delle consegne per scaglionare il lavoro di composizione. Ogni settimana rendevamo aperte alla prenotazione alcune schede; nel frattempo passavamo in composizione quelle della settimana precedente. 
Con questo ciclo continuo di prenotazione, scrittura e composizione, in media ogni settimana sono state prodotte 4 schede definitive. Un lato positivo di lavorare così è stato che nella prima fase ogni scrittore tendeva a prenotarsi per le schede dei personaggi che lo attiravano di più e dei luoghi che conosceva, mentre al momento della stesura si faceva avanti per quelle dei capitoli del suo personaggio preferito, tutte cose che hanno avuto ricadute positive sull’entusiasmo degli scrittori e sulla qualità del loro lavoro.

Quello che colpisce è l’organizzazione dettagliata del processo: stesura del soggetto, documentazione storica e ricerche di vario genere, schede (personaggi, luoghi, situazioni); questo in prima battuta può sembrare la peculiarità della scrittura collettiva, un metodo freddo e a tavolino. Ma poi mi dico: non fanno così anche gli scrittori solitari? Soprattutto nel caso di romanzi complessi faranno delle ricerche, disegneranno delle mappe eccetera. Allora: quanto c’è di mutuato dal lavoro e dall’esperienza vostra di romanzieri, e quanto di nuovo e coniato ad hoc?

Siamo d’accordo. Al di là delle suggestioni romantiche, è ben noto a chiunque abbia scritto un romanzo di un certo respiro quanti schemi, piani e ricerche sia necessario fare, quanta freddezza sia necessaria. Diceva Thomas Mann che scrivere un romanzo è per qualche giorno la febbre esaltante dell’ispirazione, per i mesi successivi solo la noia di mettere in atto un piano. Al di là di ciò, è vero anche che lavorare a In territorio nemico ha cambiato il nostro modo di trattare la materia romanzesca, educandoci a un approccio analitico che ora ci torna utile anche nella scrittura “solitaria”.

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Quanto è cambiato in corsa il soggetto? Per esempio la fine (le fini) erano così pensate dall’origine?

Il soggetto è cambiato molto, o meglio si è “riempito”, via via che andavamo avanti. All’inizio avevamo solo uno scheletro in cui erano tratteggiate le vicende principali e i momenti storici che avrebbero incrociato, davvero a grandi linee. Dopo la composizione delle schede personaggio e luogo definitive, questo scheletro si è arricchito di molti elementi, mentre allo stesso tempo sono decadute o sono state cambiate parti che contrastavano con i contenuti delle schede. C’è poi stata, subito prima della fase stesura, la fase trattamento, il cui scopo era proprio arricchire e modificare il soggetto alla luce di quanto emerso dal lavoro fatto fin lì. In totale il soggetto è stato riscritto in modo completo per sei volte.

Tornando alla composizione delle schede: quindi avevo capito bene (SIC for dummies), non è che ogni scrittore si scrive un pezzo di libro, ma tutti fanno tutto, giusto? Cioè uno stesso dialogo, per esempio, viene messo giù da vari “scrittori”, anche 9 o 10, e poi i coordinatori selezionano, pescano, fondono. Ora al di là della suggestione del nome, questo è proprio il contrario della rivoluzione industriale, basata sulla specializzazione e la catena di montaggio, o sbaglio?

La SIC ha tratti certamente fordisti nella divisione del lavoro e nella scomposizione del soggetto in singoli elementi narrativi ma, sì, il lavoro sul testo è tutto meno che a staffetta: diremmo che è di tipo sommatorio, prima, e distillatorio, poi. Alcuni hanno evocato la bottega rinascimentale; per altri versi la scrittura di un testo SIC assomiglia al lavoro di ricerca, in quanto l’archivio delle schede a cui si fa riferimento al momento della stesura ha tratti in comune con un sistema di fonti, con la differenza di essere stato creato dagli stessi ricercatori.

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Grande rilievo quindi ha il compositore: proprio come gli attori che recitano nelle varie scene di un film possono non avere idea del risultato finale, così qui molto dipende da come il materiale grezzo viene non solo selezionato, ma anche costruito, montato, spostato…

Sì, la funzione del compositore è simile alla combinazione di regista e montatore nel cinema. Hanno un grande potere, ma dall’altro lato devono lavorare con quello che si trovano a disposizione. La composizione di un’opera SIC è di fatto un’arte, o pratica, a sé, molto diversa dalla scrittura.

Trattandosi di un romanzo storico grande dev’essere stato il lavoro preparatorio di archivio e testimonianze: molto bello però. Ma non crederete di sfuggire alla domanda che tormenta ogni romanziere singolo: quanto c’è di vero e quanto di fiction?

In territorio nemico è un romanzo storico nel senso classico: tutti gli eventi principali intorno a cui si struttura il romanzo sono adattamenti di fatti realmente accaduti, così come tutti gli scenari in cui si svolge il romanzo – inclusa la maggior parte di quelli minuti, come le singole case – sono luoghi reali; mentre le singole vicende di Matteo, Adele e Aldo, sia pure in parte ispirate a quelle di persone effettivamente esistite, sono invece finzionali.

Bella anche l’idea di lasciare le lingue (il tedesco) e i vari dialetti (uno dei personaggi risale l’Italia da Napoli ad Asti, per cui se li passa quasi tutti) così come sono, e chi vuol capire capisca: dà l’idea di un paese allo stesso tempo vivo e frammentato.

In realtà abbiamo scelto, a volte, di scartare termini troppo dialettali in favore di una certa leggibilità; a parte i punti, come il colloquio con il vecchio isernino, in cui serviva immedesimazione del lettore con il protagonista alle prese con discorsi per lui incomprensibili. Quella di usare una pletora di dialetti è un’idea venuta a lavori avviati, grazie a una scrittrice che ci mandò una scheda piena di dialoghi in milanese stretto. Ci venne in mente il sogno di Gadda di realizzare un libro con tutti i dialetti italiani e capimmo che con 115 autori da tutta Italia, e un personaggio che avrebbe attraversato mezza penisola, potevamo in parte realizzarlo.

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Le storie dei tre protagonisti – il marinaio militare che passa partigiano, la sorella buona borghese che diventa operaia e poi gappista, il di lei marito grand’ingegnere che s’imbuca senza un perché – all’inizio si alternano con precisione, e in capitoli di uguale durata. Poi alcune prendono il sopravvento: questo era programmato o si è sviluppato via via?

Nella prima versione del soggetto era previsto che Matteo occupasse 5/10 del romanzo, Adele 3/10 e Aldo 2/10, onde riflettere soprattutto lo spazio in cui si sarebbero svolte le tre vicende, dal grande respiro geografico del primo all’angusto solaio dell’ultimo, passando per la Milano di Adele. Così più o meno è stato, anche se l’Attrice, con la sua forza spietata, alla fine si è presa un po’ più pagine del previsto.

Una delle prime cose che ho pensato, quando ho saputo di In territorio nemico, è stata che la scrittura collettiva, essendo una tecnica, è più votata a valorizzare l’azione e meno lo stile. Invece mi sono dovuto ricredere: ci sono delle parti altamente letterarie, ho trovato ad esempio fantastica quella sul lento e progressivo impazzimento dell’ingegnere. Come è uscito il miracolo?

Intanto grazie, un’affermazione che ci rende felici. Crediamo che il fatto possa derivare dall’organizzazione dei lavori tramite il tabellone delle prenotazioni che, come accennato sopra, ha permesso a ciascuno scrittore di autoassegnarsi il lavoro delle parti che sentiva più vicine. Sicuramente, poi, la vicenda di Aldo è quella che si prestava di più a “numeri”, e gli scrittori hanno risposto bene; inoltre, proprio perché si trattava di una vicenda fatta anche di follia e fantasie deliranti, i compositori hanno sentito meno il bisogno di omogeneizzare lo stile verso una maggiore semplicità, come magari altrove è avvenuto per necessità narrative.

Più strettamente sui contenuti: mi sembra che i protagonisti, almeno due su tre, partano da esigenze molto particulari – il marinaio quella di raggiungere la sorella, lei quella di sopravvivere da sola – per poi approdare più o meno casualmente a delle scelte impegnate, a un inizio di coscienza civile e politica. È il rovesciamento di Una questione privata?

Premesso che non c’è pianificazione in questo senso, dato che i contenuti profondi del romanzo sono emersi via via che si andava avanti, in un modo senz’altro esterno al controllo dei compositori, questa ci sembra una bella lettura. La facciamo nostra.

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Ed è vero che, come diceva quello lì, solo la battaglia rivela la vera natura dell’uomo? Il grande professionista risulta un cacasotto, la donnina di casa tutta rossetti e minestrine, diventa un killer…

Più che la battaglia, che è bella da leggere ma uno schifo da combattere, il grande agente rivelatore potrebbe essere la necessità di effettuare scelte radicali e potenzialmente irreversibili senza avere davanti agli occhi un quadro chiaro della situazione.

L’arco temporale scelto è paradigmatico: dall’8 settembre al 25 aprile, quasi un cliché. Voluto?

Assolutamente. Anzi, abbiamo anche cominciato i lavori del romanzo il 25 aprile. Trattasi di inquadratura simbolica di marca crowleyana, quasi un rituale.

Il titolo, chi l’ha scelto? E quando?

Metodo SIC: dopo la fine della prima bozza abbiamo indetto un bando tra tutti i partecipanti e poi abbiamo scelto In territorio nemico tra le varie proposte pervenute.

Da qualche parte, non ricordo dove, ho letto una cifra tipo 4mila pagine. In ogni caso, sicuramente il materiale raccolto vi avrebbe consentito di uscire con un libro lungo il doppio o il triplo. E di solito i romanzi storici a firma collettiva (penso a Wu Ming ma non solo) sono mooolto lunghi. Avete tagliato assai? Non è che avete tagliato troppo?

Le 4mila pagine (in realtà sono di più, essendoci state anche schede realizzate in corso d’opera) sono le pagine complessive, ovvero quelle che si ottengono unendo tutte le schede individuali. Il processo SIC è accumulativo e distillativo, quindi è normale, anzi implicito al metodo, che 9/10 del materiale prodotto a livello di schede individuali decada in fase di composizione. La prima bozza “vera” di In territorio nemico era infatti sulle 400 pagine, dunque il lavoro di revisione ne ha effettivamente scremate meno di un centinaio.

L’editing è sempre opera del collettivo? Alla povera redazione di minimum fax cosa avete lasciato, solo la correzione di bozze o manco quella?

Durante la revisione abbiamo trovato il giusto montaggio delle tre vicende, corretto errori e refusi, rimesso a posto la cronologia (dato che, lavorando per schede stesura separate, gli scrittori non potevano avere la percezione del “punto temporale” in cui si trovavano gli altri protagonisti nel momento in cui si svolgeva la scena a cui stavano lavorando), applicato le migliaia di notazioni dei revisori e omogeneizzato lo stile; è stato un lavoro molto dettagliato, volevamo presentarci agli editori con un testo impeccabile, ben sapendo quanto sarebbe stato difficile farli interessare a qualcosa di mai visto prima. Ciò non significa però che non si sia poi lavorato duramente anche con minimum fax. Nicola Lagioia ha fatto un lavoro attentissimo, prima a livello generale, indicando alcune criticità nella forma del romanzo e anche imponendo la riapertura della filiera per la produzione di nuove schede stesura volte a integrare parti carenti, e in un secondo momento a livello specifico, con centinaia di notazioni certosine. Per fortuna combinava tale severità nutrendoci a vino e bistecche, il che ha reso assai più tollerabile il lavoro. Martina Testa e Dario Matrone, successivamente, si sono occupati della correzione di bozze con un livello di cura mostruoso, sia per quanto riguarda il fact checking e il controllo della forma che la traslitterazione dei vari dialetti.

Nel pezzo di Vanni sul Corriere c’è una bella panoramica sulla scrittura collettiva in Italia, sia storica che attuale: dai futuristi alle sperimentazioni in rete passando per la Scuola di Barbiana. Avete notizie di qualcun altro che lì non è nominato? E all’estero come sono messi?

Esistono esperimenti interessanti in Inghilterra, Australia, Francia e Stati Uniti, ma nessun paese può lontanamente vantare il livello di sviluppo dell’Italia nel campo della scrittura collettiva. Almeno in questo siamo primi, e all’estero c’è molto interesse a riguardo: prova ne è il fatto che quell’articolo è stato selezionato dal Courrier International, senza contare le varie volte che siamo stati invitati a parlare di SIC in università di altri paesi.

Voi dite che il metodo SIC è liberamente adottabile: qualcuno oltre a voi in questi anni lo ha usato, vi ha chiesto il know how?

Sì, è stato usato molte volte, anche a nostra iniziale insaputa o da gente che poi non ci ha mai fatto sapere come è andata: il manuale e i materiali sono del resto liberamente scaricabili dal sito. Per ricordare tre esperienze significative: alla NABA di Milano, sotto la guida di Dimitri Chimenti, regista e membro dei 115, col metodo SIC è stata scritta una sceneggiatura cinematografica; gli studenti di un liceo artistico di Brescia ci hanno realizzato un resoconto della loro visita al lager di Dachau; mentre alcune classi delle primarie di Poggibonsi (SI) ci hanno scritto una fiaba.

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Voliamo basso: come vi ponete rispetto alla questione economica? Cioè, poniamo che il metodo SIC diventi la norma: è la definitiva consacrazione del dilettantismo, della scrittura come hobby. Ché prima di beccare una royalty diviso 115, devi vendere che manco Saviano…

Per quanto riguarda In territorio nemico, abbiamo un sistema a punti che assegna a ogni scrittore una quota in base a numero e alla tipologia di schede fatte, dopodiché tale quota viene convertita in base percentuale. Come hai intuito, le cifre risultanti sono irrisorie, tanto che diversi scrittori hanno deciso di devolvere le royalties all’Anpi o addirittura alla SIC intesa come “istituzione”. Parlando di prospettive future, però, non bisogna dimenticare che, al di là del gesto visionario di scrivere un romanzo in più di cento persone, il numero ideale di autori di un’opera SIC, se si volesse ottimizzare la produttività piuttosto che fare gesti di avanguardia, è 6-7 scrittori e un compositore. In quel caso, col metodo all’attuale livello di rodaggio, e ipotizzando un team di professionisti, realizzare un romanzo richiederebbe un monte ore totale non dissimile da quello del singolo scrittore di un’opera individuale, e dunque anche gli anticipi sarebbero adeguati, almeno rispetto agli standard del magro mercato italiano.

Per finire, volevo chiudere con una domanda semplice e provocatoria: perché? Cioè perché fare un 115 quello che riesce a fare uno solo, e considerare un successo esserci riusciti? Ma poi ho letto un vostro intervento su Nazione Indiana dove si spiega bene l’idea (posso dire l’ideologia?), e a cui rimando anche come raccolta di link sull’argomento – che nel tempo ha raggiunto un grado di riflessione ed elaborazione teorica raffinatissimo. Allora la mia domanda è: what’s next? Il prossimo passo qual è, il romanzo che si fa da solo? Traendo spunto anche da un pezzo di Francesco D’Isa su Orwell, possiamo immaginare un futuro in cui il romanziere collettivo funzioni come il formicaio, cioè come un’intelligenza superiore non centralizzata? (Ecco, ve l’avevo detto che si finiva con la fantascienza)

Il passo ancora successivo: i romanzi impareranno a scriversi a vicenda, dilagheranno fuori dalle librerie a miliardi e schiacceranno il mondo sotto un terribile regime orwelliano-letterario. A parte gli scherzi, è bello immaginare rivoluzioni (quello sempre, in ogni caso), ma non dimentichiamoci di cosa si sta parlando: letteratura, arte. E l’arte può essere qualsiasi cosa fatta in qualsiasi modo (per parafrasare la definizione di Guido Mazzoni in Teoria del romanzo), a patto di implicare un’intenzione artistica. Quando i romanzi saranno in grado di scriversi da soli, vorrà dire che avranno raggiunto un livello evolutivo almeno pari a quello degli esseri umani. C’è tempo insomma. Per rimanere più aderenti al tema, noi saremmo già molto soddisfatti se il metodo SIC non rimanesse un fiore isolato, ma nascessero in futuro altri gruppi di scrittura collettiva, magari con altri metodi anche completamente diversi dal nostro, a dimostrazione che il nostro lavoro non è un gesto estemporaneo di avanguardia, ma un nuovo tratto di strada che ci avvicina al dominio di una nuova forma di scrittura. Se questo non dovesse accadere, dovremo inventarci qualcos’altro. Magari, la prossima volta, con meno industria e più campagna.



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