Aldo Buzzi, food blogger

Quella di Aldo Buzzi è una figura anomala nel mondo della cultura italiana. Questo comasco di nascita, milanese d’adozione e giramondo per passione, poliglotta e uomo di multiforme ingegno, ha avuto una vita lunghissima (1910-2009) durante la quale ha scritto pochissimi libri, oggetto di un culto carbonaro. In un ambiente culturale in cui chiunque abbia pubblicato un romanzetto si sente Proust, Buzzi si macchia dell’imperdonabile peccato di modestia. Defilato, non sgomita, preferisce che abbiano ragione gli altri: potrebbe fare di tutto, e lo fa, ma sempre con understatement, con un mezzo sorriso scettico. Architetto, esercita anche per qualche anno la professione. Editor, lavora alla Rizzoli dove diventa redattore capo, ma senza clamori, senza attribuirsi successi altrui. Regista e scenografo, collabora con Alberto Lattuada ed è amico di Fellini e Flaiano, ma si trova suo agio solo nel ruolo del secondo (e infatti il suo primo libro s’intitola Taccuino dell’aiuto-regista).

Infine, ma soprattutto, scrittore, rifugge la retorica, la struttura impegnativa, l’opera-mondo. E abbraccia la poetica del frammento: taccuini, viaggi, lettere, e ricette, naturalmente ricette. Perché se Buzzi è un minimo famoso, lo deve ai suoi scritti sul cibo: quelli che compongono L’uovo alla kok, certo, ma anche tutta una serie di momenti sparsi che intersecano la sua opera. Dalle considerazioni di viaggio ai giudizi sui grandi scrittori che hanno parlato di cibo. Buzzi ha lo sguardo del food lover, non del gastrofighetto ma di quello che ha avuto la felice intuizione del cibo come lente attraverso cui guardare, e capire, tutto il resto. L’uscita del volume che raccoglie Tutte le opere (per La nave di Teseo, a cura di Gabriele Gimmelli) è l’occasione per scoprirlo/rileggerlo, e ammettere un semplice fatto: Aldo Buzzi ha inventato il food blogging.

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Il pendolo di Roland Barthes

Nel 1978 il governo francese propone l’abolizione dello studio della filosofia a scuola. Nel 1979, in segno di protesta, su iniziativa di Jacques Derrida si riuniscono gli Stati Generali della Filosofia: vi prendono parte tutti i più grandi pensatori di Francia. Il 25 febbraio 1980 Roland Barthes viene investito da un furgoncino mentre attraversa la strada: morirà un mese e un giorno dopo.

Da quest’ultimo avvenimento, e dalla temperie politico-culturale di quel contesto, prende le mosse l’ultimo libro di Laurent Binet, professore universitario e autore di HHhH, altro romanzo storico (su Heydrich e Himmler) e metaletterario con cui nel 2010 ha vinto il Goncourt per l’esordio. L’ipotesi che accende la miccia de La settima funzione del linguaggio (La nave di Teseo, traduzione di Anna Maria Lorusso) è che non si sia trattato di un incidente ma di un omicidio, o almeno di un’aggressione finalizzata a prendere possesso di un misterioso documento. Da lì parte un intrigo internazionale che porterà i due protagonisti a venire sballottati in giro per il mondo, tra Bologna e gli Stati Uniti, tra aule universitarie e sordidi hammam, tra servizi segreti bulgari e altri personaggi ancora più nell’ombra, tra cene eleganti e una società segreta devota alla retorica; mentre violenze e morti si accavallano.

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