6x6x6 – Variazioni Jorge

Qui davanti avete un cubo magico. Proprio un cubo di 6 facce: su ognuna di esse, 6 poligoni; ogni poligono ha esattamente 6 lati. Un cubo impossibile – queste le premesse. 

Prima faccia: Variazioni Augusto – è qui.
Seconda faccia: Variazioni Ernest al link.
Terza e ultima faccia: vedi sotto.

Jorge Luis Borges scriveva solo racconti. Ha scritto quasi solo racconti: quasi. Quel quasi fa una grande differenza. Borges, si sa, era anche un poeta. Ma non è questo il punto: Borges non ha mai scritto romanzi. Tutti gli altri grandi raccontisti, sì. Cortazar sì, Buzzati sì, Kafka idem. Cechov no, ma ha scritto teatro: è il respiro lungo, quello conta. Borges no, non ha mai ceduto. Evaristo Carriego era una semplice miscellanea. Sei problemi per don Isidro Parodi? Libro a quattro mani, e comunque: sempre di episodi scollegati si tratta. Però in una cosa Borges falta: non ha mai scritto flash stories. Certo si potrebbero considerare gli haiku: alcuni di loro sono schiettamente narrativi.

Da quel giorno

Non ho toccato i pezzi

Sulla scacchiera

Ma comunque, non arriva ai record. Quelli di Monterroso, quelli di Hemingway. Sei parole, ricordiamolo, un racconto impossibile. Questa frase consta di sei parole. La frase che hai appena letto. La frase che stai leggendo adesso. Come tutte le altre, in effetti. E ciononostante: dopo Monterroso, dopo Hemingway. A chi poteva mai toccare, dopo? Ma solo a Borges, Jorge Borges. Orditore d’inganni interni al testo. Ma anche esterni, metatestuali – per esempio: il famoso frammento relativo ai cartografi. L’ho sentito citare come racconto. Addirittura come “quel ROMANZO di Borges”.

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Dogperson

(Questo racconto è stato pubblicato dalla rivista online Minima & moralia il 5 giugno 2019)

Dice che quando vedi un cane che ti viene incontro, la cosa che non devi proprio fare anche se hai paura, anche se l’animale ti sembra aggressivo – soprattutto se tieni paura, soprattutto se l’animale è aggressivo – l’ultima cosa che devi fare è metterti a correre. O perlomeno, così mi dicevano a me quando ero piccolo, e avevo paura dei cani (anche ora ho paura dei cani, ma ho imparato a evitarli, o forse sono loro che stanno alla larga, perché sono anni che non ne vedo in giro). Il cane, mi spiegavano, fiuta la tua paura, e questa cosa lo eccita, gli risveglia il cacciatore pure se non era partito con idee cattive: anzi no, si contraddicevano, il cane pensa che vuoi giocare e ti insegue, tentavano di rassicurarmi. Tutta sta predica non ha mai impedito che, all’atto pratico, ogni volta mi mettessi a correre: con le conseguenze che potete immaginare. Il problema del cane è che è una bestia, che non ci puoi parlare; è che non capisci mai che cosa vuole fare, fino a che non lo ha fatto. Ci ripensavo proprio l’altro giorno perché oh, sentite che mi è successo.

Tornavo a casa in pullman, stanco e stressato come ogni finale di giornata, e pensavo ai cazzi miei, ma ci pensavo così forte che per poco non mi perdevo la fermata, e sono sceso a porte quasi chiuse, nel buio del controviale. Sono sceso all’ultimo momento e perciò non l’ho vista subito, era già un po’ lontana, al buio non l’ho vista finché lei non ha visto me, guardandomi di sfuggita e poi girandosi e mettendosi a camminare a testa bassa. Quello è stato l’unico momento in cui l’ho vista in faccia, i nostri sguardi non si sarebbero mai più toccati, neanche dopo. Per quel breve momento mi è sembrato che assomigliasse a Lei, anche se era ovvio che non poteva essere Lei, per una serie di motivi di ordine storico e geografico, ma poi da dietro, con i capelli castani e lisci, e il taglio medio, assomigliano tutte a Lei, e quindi in un certo senso, non so se mi spiego, era Lei. Camminava, stava quella ventina di metri avanti a me, quel vantaggio che le aveva dato l’essere scesa dal pullman come una persona normale, e non come uno stonato. Purtroppo andava nella mia stessa direzione: non ci ho messo neanche un attimo a capire che, qualsiasi cosa avessi fatto, ero comunque fottuto.

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6x6x6 – Variazioni Ernest

Quello che avete davanti è un cubo magico. Un cubo di 6 facce, su ogni faccia ci sono 6 poligoni, ogni poligono ha 6 lati. Un cubo impossibile. 

La storia della story più breve della Storia è uno di quei miti costruiti con tanta minuzia, nella sua indecidibile ed efficace vaghezza, da far dubitare della natura reale dell’universo (la realtà può permettersi di essere incompleta, solo una simulazione deve essere dettagliata nei particolari più insignificanti, pixellata fine negli angoli più remoti).

Il fatto poi che sia il mito fondativo delle pagine che state leggendo, di questo mini ciclo di racconti in sei parole, ma che non sia stato posto – com’era prevedibile e giusto – in prima posizione, ma solo come seconda puntata, la dice lunga sulla presunzione dell’autore, sia rispetto al rapporto conflittuale e irrisolto con lo zio Ernesto, sia rispetto al delirio di dimostrare che invece l’universo, disgraziatamente, è reale (mentre io, disgraziatamente, non sono Borges).

Il mito: Ernest Hemingway è al bar con gli amici. Com’è facile immaginare, si scherza, si beve, si fa letteratura. Dall’intersezione di questi tre piani, Hemingway trae l’idea per la scommessa: volete vedere, dice, che vi creo un racconto fatto e finito, usando solo sei parole? I commensali babbioni accettano, e lo scrittore scarabocchia su un foglietto: “Baby shoes on sale, never used”. Un dramma ottocentesco, un horror, l’intera opera di Tolstoj e di Stephen King condensata in una riga: standing ovation, incasso della posta, e ingresso diretto nella Storia.

(En passant, uno dei tanti pregi di questa storia, involontario e perciò ancora più notevole, è quello di riuscire a conservare la brevità, lo stesso numero di parole anche in una lingua come l’italiano, che per una serie di circostanze tende a essere meno stringata dell’inglese: “Vendesi scarpine da neonato, mai usate”; che storia.)

La storia: peccato che sia falsa.

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6x6x6 – Variazioni Augusto

Quello che avete davanti è un cubo magico. Un cubo di 6 facce, su ogni faccia ci sono 6 poligoni, ogni poligono ha 6 lati. Un cubo impossibile. 

Tra il racconto breve (short story) e il racconto lampo (flash story) c’è la stessa distanza che passa tra il romanzo e il racconto. L’essenzialità della forma breve, portata all’estremo, diventa multiformità, si apre a variazioni e appropriazioni infinite. Come in quello che è – o è stato a lungo considerato – il racconto più breve della storia della letteratura: “Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí” (“Quando si risvegliò, il dinosauro stava ancora lì”), di Augusto Monterroso.

O ancora come nel caso del solito Hemingway, che si vantò di scrivere – o al quale è stato attribuito questo vanto – un racconto in sole 6 parole: “For sale: baby shoes, never worn” (che incredibilmente nella traduzione italiana riesce a non allungarsi: “Vendesi scarpine da neonato, mai usate”).

Quello che vi trovate davanti è perciò un modo per raccogliere, con poca modestia, la sfida dei maestri del genere e misurarsi con la tradizione della flash story. È dunque un gioco combinatorio, ma è anche un gioco metaletterario: di questi standard infatti sono riprese non solo le forme (il limite delle sei parole) ma anche i contenuti. Si tratta allora di variazioni.

Ed ecco dunque il cubo. 6 scrittori, per ognuno dei quali 6 racconti, ognuno dei quali è composto da 6 parole. 6x6x6.
Questa è la prima faccia: Augusto Monterroso.

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La fine del mondo che non c’è

(Questo racconto è stato pubblicato dalla rivista online Il primo amore il 9 novembre 2018)

Eppure, non riesco a capire che differenza ci sarebbe.

Eh? Ma che stai dicendo?

No pensavo… alla fine del mondo, sai.

Ah, bravo! Che originale.

Senti bella, sfotti poco… no ma sul serio: cioè, è ovvio che stiamo parlando in linea teorica, chiaramente anche stavolta non succederà niente, la gente si preoccupa delle profezie dei Maya e di Malachia, di asteroidi e di invasioni aliene, mentre qui stiamo distruggendo il mondo con le nostre mani, lentamente ma senza scampo, però certo i dati sull’effetto serra e sulle emissioni inquinanti non hanno lo stesso sex appeal dell’apocalisse… comunque non è di questo che volevo parlare.

E menomale, figuriamoci se volevi farlo.

Ah-ah. Ma senti qua: in astratto, a livello di pura ipotesi, se tu muori

Tie’!

Evvabbè, poi sono io il meridionale scaramantico: allora, se IO devo morire, che muoio solo io o che appresso a me muoiono altri sette miliardi di uomini, a me che mi cambia?

Ma che discorsi. Cambia eccome, cambia tutto.

E cioè? No, senza polemiche: cambia in meglio o in peggio? È preferibile dipartire in solitudine, o al massimo in ristretta compagnia, così che il resto del mondo rimanga lì a piangerti per l’eternità? Oppure è meglio andarsene in comitiva, all together: se ne trae una specie di consolazione, tipo pereat mundus, tipo muoia sansone con tutti i filistei, tipo apré muà le delush?

Devi dirle tutte? Ti sei dimenticato mal comune mezzo gaudio. Sì comunque, immagino che sia così, almeno per la maggior parte della gente, io per me non ci ho mai riflettuto.

Allora vedi cara, che ho ragione? Perché non ci hai riflettuto? Perché in realtà, nel profondo, non te ne frega niente. Perché in realtà per ogni uomo

Allora io non c’entro.

E dài. Per ogni maschio di razza umana, sia egli maschilista o femminista, come per ogni femmina di razza umana, sia ella femminista o

Attento!

Basta, insomma, fammelo dire: per ogni uomo la propria fine è la fine del mondo. Ma che pensiero raffinato, quasi un aforisma: vedrai che perfezionandolo un po’ finirà per andare sulle magliette.

Eh, come dici?

Ma sì, quella del bruco e della farfalla, com’era…

Ah ho capito. Eheheh, giusto, aspetta, vediamo come sarebbe: “Quello che un uomo chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama… ma dove l’ha ficcato sto testamento il nonno?”

Ahahah, no ascolta: “Quel che un uomo chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama… tu guarda quanto cazzo costano le imprese funebri!”

Brava. Oppure, allargando il discorso all’intera specie: “Quello che l’uomo chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama finalmente si sono tolti dalle palle sti scimmioni glabri”.

(Continua su Il primo amore)

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Breve relazione attorno alla pena capitale e ad altre consuetudini in vigore nella nostra comunità

(questo racconto è stato pubblicato il 1 novembre 2018 sul sito letterario Nazione Indiana)

Nella nostra terra è ancora in vigore la pena capitale. Siamo coscienti che questo può determinare un pregiudizio negativo nei nostri confronti, né possiamo in tutta sincerità negare la fondatezza di eventuali critiche che partano da questo dato di fatto. Tuttavia invitiamo ad usare tolleranza, e una certa misura di benevola prudenza, verso la nostra comunità: d’altro canto per noi la democrazia e i diritti civili sono conquiste recenti, sia in generale sia rispetto alla millenaria storia della nostra razza. Le libertà personali, l’uguaglianza, lo stato di diritto: sono concetti che abbiamo assunto nel nostro sistema di valori teorici, e che purtuttavia spesso abbiamo difficoltà a tradurre in pratica. Non siamo incivili; o meglio lo siamo, ma non del tutto: sappiamo che possiamo, anzi dobbiamo migliorare, e stiamo compiendo degli sforzi in tal senso, come si potrà desumere dal seguito del presente rapporto.

In verità, la pena capitale non è l’unica particolarità che contraddistingue gli usi vigenti, essendoci relativamente ad essa un’altra antica tradizione: la sentenza non specifica la data dell’esecuzione. Quest’ultima può avere luogo tanto immediatamente, quanto svariati anni dopo la condanna; e in questo lasso di tempo non è affatto scontato che il soggetto sia privato della libertà personale. Si sono dati casi di persone che hanno circolato senza ostacoli per decenni, ma che non sono sfuggite all’Amministrazione quando è arrivato il momento opportuno: la libertà di movimento non è un problema per l’Amministrazione, che ha i suoi mezzi per controllare e raggiungere i condannati ovunque siano.

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GNURIT

(Questo racconto è stato pubblicato il 20 ottobre 2018 dalla rivista online CrapulaClub)

GNUR.IT si legge sulla porta di vetro opaco, R. la spinge e si fa di lato per farti passare, tu pensi che ormai se una cosa non ha un sito – non è un sito – non esiste.

La sala d’aspetto è una stanza normale, neanche tanto grande. «E in che consiste, precisamente, questo colloquio, non te l’ho mai chiesto, poi», tu dici a R. Ma lui ti appoggia la mano sulla spalla e ti dirige verso le poltrone morbide. Solo dopo che vi siete messi comodi, parla: «Mah, la solita roba, credo, ti fanno delle domande… poi nel dettaglio non lo so neanch’io, mica l’ho mai fatto». E certo, non ha bisogno di trovare un lavoro, lui, o di migliorare la sua condizione, R. ha studiato la cosa giusta e ora ha il lavoro che voleva, guadagna una barca di soldi anche se ultimamente pure lui piange miseria, i clienti non sono più quelli di una volta e ha dovuto mandare a casa più di metà delle ragazze dello studio, ma la cosa peggiore è che c’è una brutta atmosfera in generale, ti ripete sempre, «nei nostri confronti, la gente ci schifa, pensa che siamo una casta, non considera la nostra funzione sociale».

Sfogliate due tablet  nell’attesa: appena li prendete si accendono, il tuo mostra una copertina del New Yorkerquella copertina del New Yorker. «Te la ricordi questa?», dici a R., e ovviamente subito l’immagine appare anche sul suo schermo.

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(continua su Crapula)

 


La nostra garanzia si chiama complottismo

(Questo racconto è stato pubblicato il 13 aprile 2018 dalla rivista online Minima&Moralia)

Allora, mio caro Generale, come va?

Bene, Eminenza, molto bene, grazie. Un po’ in ansia per quel piccolo conflitto, laggiù…

Quell’ultimo che è esploso, dice? Oh misericordia divina, certo nonostante quei popoli ci siano più che abituati, è sempre triste vederli sterminarsi a vicenda… Speriamo che finisca al più presto, vero?

Presto? E perché mai… Ah, sì giusto, lei dice per i civili, per le vittime accidentali. Per quanto, definire civili quelle genti… Ma sa, vanno anche salvaguardate esigenze di stabilità, gli equilibri internazionali, la geopolitica, la filiera produttiva, le forniture delle industrie… La mia preoccupazione era proprio per questo. Lei piuttosto, cosa mi racconta? Tutto bene dal punto di vista, come si dice, spirituale?

Sì, senza dubbio. Siamo molto felici del fatto che la terra sia stata liberata dall’oscura minaccia incombente da Est. C’è giustizia all’altro mondo, ma a volte anche in questo mondo. E soprattutto siamo soddisfatti di come sia stata liberata, grazie all’intercessione del Vicario di Nostro Signore… Lei è conscio, non è vero, che la Storia ha già attribuito il merito a lui, molto più che a voi soldati.

Eh, certo certo, come no. E cosa dice lui, Sua…

Santità, caro Generale. Sua Santità è sempre molto impegnato, ma sta benone: riesce ancora a soddisfare, ad un occhio esterno, tutti i crismi dell’autonomia di corpo e spirito. Sembra perfettamente indipendente, insomma, e quindi, di fatto, lo è, non so se mi spiego.

Alla perfezione, Eccell… volevo dire, Eminenza.

Non si preoccupi, Colonnello, siamo tra amici. Oh, scusi.

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L’uomo del tempo

(Questo racconto è stato pubblicato il 9 marzo 2018 dalla rivista online CrapulaClub)

Fu allora che vide i due C-landestini. Ciondolavano spavaldi in mezzo alla strada, incuranti delle vetture che sfrecciavano pochi centimetri sopra le loro teste, e parlavano ad alta voce. Che fossero C-landestini lo si capiva facilmente dal design somatico, dagli abiti dozzinali tipici della loro zona d’origine, ma soprattutto dal fatto che non stavano lavorando. Vedendoli avvicinarsi, Burk provò una leggera inquietudine, subito scavalcata dall’indignazione. Che sfacciati, girare così in pieno giorno-opera all’interno della zona B, senza neanche far finta di essere occupati. Il solo fatto di non stare all’opera in attività demolitive o ristrutturative bastava a qualificare i nativi della zona C come C-landestini.

Purtroppo la frontiera esterna doveva essere quotidianamente aperta per consentire l’ingresso di manodopera: la tecnontemporaneità aveva risolto tanti problemi, ma non quello della sicurezza edilizia. Per costruire quartieri abitativi resistenti alle intemperie, l’uso di braccia-uomo era ancora necessario. O meglio, era conveniente, perché le fattorie di ultima generazione erano riuscite a produrre tecno-muratori, ma a costi troppo elevati: le frequenti cadute dalle impalcature, provocate dalla raffica anomala, rendevano economicamente preferibile la perdita di un nativo C rispetto alla distruzione di una tecno-macchina. Tanto, nella zona C continuavano a riprodursi come scarafaggi, o almeno così recitava l’adagio, dato che da almeno un paio di generazioni, cioè dal periodo delle Scosse di assestamento, di scarafaggi nessuno ne aveva più visti.

(continua su Crapula.it)


Il gioco dell’universo

(Questo racconto è stato pubblicato il 19 gennaio 2018 dalla rivista online CrapulaClub)

ISTRUZIONI PER L’USO
Questo racconto si può leggere in due modi, come il romanzo Il gioco del mondo. Si può cominciare dall’inizio, e proseguire fino a che la parola FINE non indica chiaramente la conclusione della vicenda. Oppure si possono seguire le indicazioni tra parentesi: ogni volta che si trova una lettera maiuscola tra parentesi, si scende a leggere il paragrafo contrassegnato da quella lettera nella sezione “Da altre parti”; alla fine di quel paragrafo poi si trova un numero, che riconduce su, a un paragrafo delle sezioni precedenti. Spero che sia chiaro, e che Palmer Eldritch mi perdoni.

A B., C., D. e…

(Z)

Dall’altra parte

1
Avrei trovato la? È a quest’ora, è quando arriva quest’ora, soprattutto, che devo resistere alla tentazione di abbandonarmi, di parlare, di raccontarle tutto. Il bevatrone è a riposo, o meglio va avanti da solo, per un po’. Lei è là, dietro al bancone, che mi prepara l’aperithe senza guardarmi. Io sono qua, come tutte le sere, che mi trattengo.
(F)

2
Lei è solo una ragazza, la ragazza del bar, una brava ragazza a quanto sembra, anche se tra noi non c’è quasi dialogo. Eppure per me è importante: certo non è la persona con cui ho più confidenza nell’universo (ma poco ci manca, e questo la dice lunga su come sono messo), però è sicuramente quella che vedo di più. Io non sono la stessa cosa per lei, lo so, di clienti il locale dell’aperithe obbligatorio ne ha tanti, ognuno coi suoi gusti, il matcha latte, il caffè turco, il litchi scremato. Ma non è questo il motivo per cui, alla fine, riesco a tacere, a non seccarla con me e il lavoro e la mia questione privata, anche se mi becca nel momento più deprimente della giornata: è che sarebbe inutile.
Raccontare, ogni tanto penso, significa far ricordare: riportare alla memoria di chi ascolta, rimembrare una cosa che già sa. Rifletteteci un attimo: tutte le volte che qualcuno vi ha spiegato o narrato qualcosa, e questo qualcosa lo avete davvero afferrato, vi ha davvero fatto risuonare una corda dentro, ebbene non avete avuto l’impressione che quella cosa la sapevate già, l’avevate sempre saputa? Non si può dire niente di nuovo: non si può realmente comunicare, se non qualcosa che la persona davanti a voi, in qualche modo inconsapevole o oscuro, non abbia già dentro di sé. E la ragazza davanti a me non capirebbe. Altra è la donna che io cerco.
(H)

3
Le stelle non sono mai state la mia passione, gli alieni non sono la mia fissazione. Eppure mi trovo qui, in questa città del deserto settentrionale – cieli tersi, pochissime luci – ideale per l’osservazione e la ricerca. Un lavoro vale l’altro, pensai anni fa, subito dopo il college, e accettai. Niente di più falso, niente di più vero.
(L)

(Continua su Crapula)